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letteratura austriaca

Thomas Bernhard, “Goethe muore”

THOMAS BERNHARD – Goethe muore –  Adelphi

Traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia

rsz_gothe-muore“La difficoltà di scrivere sulla filosofia di Wittgenstein, e soprattutto sulla sua poesia, infatti secondo il mio punto di vista si tratta nel caso di Wittgenstein di un intelletto (cervello) poetico, e dunque di un cervello filosofico, ma non di un filosofo, è la difficoltà più grande che vi sia. E’ come se io dovessi scrivere qualcosa (proposizioni) su me stesso, e questo non può essere […]. La questione è se io posso scrivere su Wittgenstein un attimo senza distruggere lui (Wittgenstein) o me stesso (Bernhard) […]. Wittgenstein è una domanda alla quale io non posso rispondere… Così io non scrivo su Wittgenstein non perché non posso, bensì perché io non posso rispondergli”.

 Così scrive Thomas Bernhard in una lettera a Hilde Spiel, sua amica e scrittrice viennese, il 2 marzo 1971. La citazione è riportata da Aldo Gargani nel suo bel saggio “La vita scritta in Thomas Bernhard”, pubblicato nel numero monografico di gennaio-giugno 2007 (N° 32) della rivista “Cultura tedesca”. Nel 1982, con l’uscita di “Goethe muore”, Bernhard dimostra di aver trovato il modo, se non di scrivere su Ludwig Wittgenstein, di celebrare il suo intelletto poetico, e dunque filosofico. Lo fa a modo suo, mettendo in piedi un vero e proprio feuilleton filosofico, un controromanzo costruito su di una strategia diffamatoria. Il diffamato è Goethe, diffamato, dissacrato, ridicolizzato nei suoi ultimi giorni di vita, sul suo letto di morte, addirittura nel momento solenne delle sue ultime parole. Diffamare Goethe per elogiare Wittgenstein attraverso la sua opera, il “Tractatus Logico-Philosophicus”. Goethe muore tenendo il Tractatus sotto il cuscino, mettendolo quindi, in ordine di importanza, al di sopra del “Faust” e del mito che esso rappresenta per la cultura tedesca, mettendolo anche – sembra dire l’autore – quasi al di sopra dello stesso Wittgenstein che, vanamente mandato a chiamare, risultando prematuramente morto, non si presenterà mai al suo cappezzale. Bernhard mette in scena l’elogio funebre del filosofo in modo paradossale e grottesco, costruendo un impianto narrativo logico, basato però su mezzi e materiali privi di apparente logica.

Goethe sta morendo a Weimar nel 1832 e manda a chiamare Wittgenstein che in realtà nascerà solo circa cinquant’anni più tardi e viene informato della sua morte, che in realtà avverrà nel 1951. E’ tipicamente bernhardiana questa capacità di costruire trame perfettamente plausibili, e per nulla ascrivibili alla tipologia del genere fantastico, che ricevono senso e struttura unicamente dall’impianto razionale del pensiero e dalla scrittura stessa. Un elogio di Wittgenstein in absentia di Wittgenstein, attuato dalle parole con cui un Goethe petulante e capriccioso, morente ma implacabile nella sua volontà di ospitare il filosofo, esalta il Tractatus e il suo autore: “… il pensiero che ci sia Wittgenstein è il mio pensiero più felice”, “… W. per così dire il mio figlio filosofico”, “W. è il più grande di tutti”, “Goethe poneva il Tractatus al di sopra del suo Faust e al di sopra di tutto ciò che aveva scritto e pensato”. Una messa in scena narrativa in cui questo Goethe paradossale viene usato da Bernhard con lo scopo di esaltare il Tractatus e la sua speculazione sul “dicibile e l’indicibile”, sul “dubitabile e il non-dubitabile”, e di provocare l’opinione pubblica, distruggendo un mito letterario della cultura tedesca: “Le cose che ho scritto” – dice Goethe, dice Bernhard  – “sono state indubbiamente le più grandi, ma sono state anche ciò con cui ho paralizzato per un paio di secoli la letteratura tedesca. Io, mio caro […] sono stato un paralizzatore della letteratura tedesca. Dal mio Faust si sono lasciati abbindolare tutti. In fondo, pur grande che sia, è stato soltanto uno sfogo dei miei più riposti sentimenti […] ma in nulla io sono stato il non plus ultra”. In poche pagine densissime, la messa in scena viene portata alle estreme conseguenze: Goethe giace sul suo letto di morte, continuando a ripetere: “Non v’è altro uomo che ne sia degno. Voglio avere Wittgenstein accanto a me!”. Pronuncia le sue penultime parole: “Il dubitabile e il non-dubitabile” e, subito dopo le ultime, che sono le sue più celebri: “Più luce!”, che – dice la voce narrante, dice Bernhard – sono in realtà frutto di una menzogna in quanto falsificazione, poiché, morendo, in realtà Goethe pronuncia: “Più niente!”. Si ritrova in questo testo breve la tipica scrittura compulsiva di un autore che si adopera a distruggere miti e certezze con una straordinaria abnegazione e con una furia controllata, che gli permette di dosare gli effetti, stravolgendo il dramma mediante l’ironia, e viceversa. Bernhard conosce bene l’arte del paradosso, della provocazione e della esagerazione, si definisce “un disturbatore della quiete pubblica” e deve essersi molto divertito mentre metteva in atto la sua opera di distruzione di un mostro sacro come Goethe. Nelle sue mani il maestro diventa un megalomane egocentrico, un aguzzino che tormenta le persone che gli stanno accanto, pieno di fissazioni e di manie. I conoscitori del teatro bernhardiano non stenteranno a riconoscere in lui i tratti dei memorabili grandi vecchi che popolano i drammi dello scrittore austriaco. Come al solito, si potrebbe dire, Bernhard si diverte, e diverte anche il lettore, ma lo fa, come sempre, sull’orlo del baratro, in un contesto di serietà e di drammaticità estrema. In “Goethe muore” il contesto sta tutto in quella espressione ossessivamente ripetuta del “dicibile e dell’indicibile”, nel territorio esplorato nel Tractatus dal suo amato Wittgenstein, che è quello in cui si colloca anche la prosa bernhardiana, appunto al limite del dire filosofico. Non c’è possibilità di comunicare con gli altri e di farsi comprendere, il linguaggio è per ciascuno la propria prigione, perché ciascuno parla e comprende solo il proprio linguaggio: “Parlo il linguaggio che soltanto io comprendo e nessun altro, così come ognuno comprende soltanto il proprio linguaggio […]. Perciò ognuno, quale che sia e qualunque cosa faccia, è sempre ricacciato in se stesso, ognuno è sempre un incubo abbandonato a se stesso” ( da “Perturbamento”).

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Giulia
11 years ago

“Mehr Licht” o “mehr Nicht”?
Che bella recensione!

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