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Patrizia Runfola, “Praga al tempo di Kafka”

PATRIZIA RUNFOLA – Praga al tempo di Kafka – Sugarco edizioni

Praga al tempo di KafkaAvevo un appuntamento con Patrizia Runfola, dovevo incontrarla nella sua Praga; avevo stabilito da tempo questo nostro incontro che mi era sembrato inevitabile già leggendo di lei in “Alfabeti” di Claudio Magris. Non si può evitare di inseguire gli scritti di chi “ha il senso – morale, sensuale e doloroso – della grandezza”. Le parole di Magris su di lei e sulla sua opera, apparse sul Corriere della Sera del 21/04/2000, costituiscono sia la Prefazione alla sua raccolta di racconti “Lezioni di tenebra”, che il suo necrologio, perché la Runfola è morta nel 1999 a quarantotto anni, lasciando nei suoi scritti una traccia persistente di “regale e impavida leggerezza”. Una traccia che il lettore non può evitare di seguire perché costituisce un percorso invitante, una strada ideale da percorrere a ritroso, per giungere al centro esatto di una creatività che sopravvive al suo creatore. “Solo quando le parole abbandonano la mia anima e muoiono sui fogli per continuare a vivere negli sguardi di coloro che un giorno ne ascolteranno la musica lontana, solo allora avverto un magnifico sollievo”, scrive la Runfola all’inizio di una delle sue Lezioni. Ma si dà il caso che il centro esatto di questa anima, l’immagine della sua fantasia e della sua scrittura sia Praga, “con le sue torri, le sue pietre, le sue ombre e la sua stratificata profondità del tempo”.

Si pronuncia il nome di questa città e ci si trova catapultati in un delirio di corrispondenze e di suggestioni letterarie, si avverte il fascino maliardo e irriverente della sua letteratura e la trafittura inconsolabile della nostalgia. E, sopra a tutto, quel misto di religioso rispetto, di dolente affetto e di gratitudine che ben conoscono i lettori di Kafka. Ora, nella Postfazione a “Lezioni di tenebra”, intitolata “Storia di passione, scrittura e morte”, Gérard-Georges Lemaire, il marito di Patrizia Runfola, dopo averci regalato un ritratto vivace e avvincente della scrittrice, ben lontano da un lacrimoso epitaffio, ci racconta della decisione improvvisa che, ad un certo punto della sua vita, la spinge a partire da sola per Praga. Un viaggio seguito da numerosissimi altri e da lunghi soggiorni – tutti aventi come base il minuscolo albergo ai “Tre struzzi”, situato quasi sotto il ponte Carlo, dalla parte di Mala Stranà. E’ l’inizio di una passione divorante, frutto – ipotizza Lemaire – della lettura delle opere di Kafka o dei saggi di Ripellino, una malattia contagiosa “che si prende non appena ci si lascia invadere da quella malinconia insidiosa e maligna che dalla profusione di storia e bellezza si distilla. Troppe bellezze, troppa storia, troppi poeti, troppi drammi romanzeschi”.

Devo essere assolutamente sincera: ho letto “Lezioni di tenebre” con grandi aspettative, pronta a riconoscere la grandezza letteraria e ad ammirare uno stile visionario, capace di illuminare la vita colta al suo limitare, come la luce di Rembrandt o il rosso di Velazquez, uno stile, dice Magris, in grado addirittura di reggere il confronto con alcune pagine di Hofmannsthal, quelle inarrivabili della “Lettera dell’ultimo Contarin”. Un confronto talmente alto da risultare ingiusto per la stessa scrittrice che si vuole celebrare, ingiusto per l’eccessiva grandezza della pietra di paragone. Sicuramente i miei limiti di lettrice mi hanno impedito di cogliere la genialità in questi racconti ma, con la stessa certezza, ho colto nelle righe della Runfola, con le debite differenze di valore e profondità, una sorta di comunanza culturale, una comune frequentazione letteraria, così forte da spingermi a raggiungerla nella sua Praga. E qui ho trovato il libro che a me pare il suo vero capolavoro, appassionato, avvincente, scritto dalla studiosa competente, dall’autrice talentuosa, dall’ammirata lettrice di Kafka e, cosa rarissima, da chi è in grado di rievocare l’anima di un mondo ricucendo la rete delle sue componenti più creative, a partire da un perno, un punto centrale che le illumina e le mette in relazione. Kafka è il perno simbolico che la Runfola sceglie per guidare il lettore attraverso le diverse forme culturali tedesche, ebraiche e ceche, che con singolare e miracolosa ricchezza sono sorte, si sono addossate e accavallate con giovanile irruenza e generosità nella magica Praga, dal crepuscolo dell’Impero austro-ungarico alla fine degli anni Venti e poi fino all’invasione della Cecoslovacchia nel 1939, data che decretò una frattura irreversibile, l’ennesima ma non certo l’ultima, nella storia civile e culturale di questa città e di questo tormentato paese.

“Kafka. Chi lo ama veramente sa che di lui è impossibile parlare”, scrive Antonio Moresco nelle sue “Lettere a nessuno” e, pur nel suo significato categorico ed estremizzante, è un’affermazione che mi sento di condividere profondamente. Il lettore di Kafka è sempre pronto ad ergersi a sua difesa, a difesa del silenzio che tanto amava, a costruire intorno ai suoi scritti ed alla sua figura – a ben vedere la stessa cosa – una barriera protettiva di silenzio, per tenere lontano il chiacchiericcio dei commentatori, degli analisti, degli inventori e sostenitori delle più disparate tendenze kafkiane, pronti a riconoscerle indebitamente e ad utilizzarle a loro piacimento. Una guida letteraria di Praga al tempo di Kafka, che parte da lui e finisce con lui, sceglie quindi una materia difficile da trattare, difficile perché “Kafka era Praga e Praga era Kafka”, per citare la famosa frase di Johannes Urzidil con la quale il libro inizia. Patrizia Runfola ha però il dono del rigore intellettuale, dell’onestà della studiosa priva di preconcetti e di tesi da sostenere e da dimostrare a tutti i costi e, cosa che mi sembra un grande valore aggiunto, lo sguardo di una lettrice, prima ancora che scrittrice, appassionata. La sua guida finisce così per essere un grande regalo per tutti quei lettori che, affascinati da Praga, con le sue “raffiche di irrazionalità, gli umori stravaganti, le coincidenze pietrificanti, la bellezza malinconica, i bagliori perlacei delle sue nebbie, i presentimenti di sfacelo che accompagnano ogni tramonto”, la ricercano nelle opere dei suoi scrittori, questo popolo di “poeti, fantocci, funamboli, angeli, demoni, santi”, costretti a volte a lunghe ricerche perché i loro libri sono ormai in via di estinzione. Però ogni nuova scoperta, la lettura di ogni autore di questa prolifica stagione lascia interrogativi e anche rimpianti, perché al lettore manca, nella maggior parte dei casi, il tempo e la capacità di ricostruire il tessuto cronologico e relazionale, le coincidenze, le frequentazioni, le reciproche suggestioni, il terreno comune insomma dal quale queste opere sono nate. A questa esigenza risponde il libro della Runfola, che finisce per essere una metaforica carta geografica che indica sia i percorsi già compiuti, integrandoli in una visione d’insieme, sia la direzione da seguire per giungere ad ulteriori scoperte, fornendo indicazioni, materiali e strumenti per facilitare il viaggio.

Kafka quindi: con commovente delicatezza l’autrice si muove soltanto tra fonti indiscutibili, i suoi epistolari, i suoi “Diari”, gli scritti di Max Brod, Klaus Wagenbach, Milena Jesenska e di pochi altri. Da lui il discorso si allarga a cerchi concentrici, per comporre un quadro completo della cultura praghese – e si avvertono sullo sfondo le voci di Ripellino e di Magris – naturalmente non solo letteraria, ma artistica nel senso più ampio del termine. I circoli di Praga, Rilke, i neoromantici praghesi con Paul Leppin, il circolo ristretto nato dal sodalizio di Kafka con Max Brod, Oskar Baum e Felix Weltsch; la Praga nera di Gustav Meyrink e di Kubin; Franz Werfel e l’espressionismo letterario; la stagione del cubismo ceco con i fratelli Capek; la stagione della guerra e la storia straordinaria di Jaroslav Hasek e del suo romanzo “Il buon soldato Svejk”; la scoperta di Apollinaire e l’avanguardia praghese; il modernismo e il futurismo; Jacobson, il formalismo russo e l’apparizione sconvolgente a Praga di Majakovskij e di Chlebnikov; la stagione del poetismo; il surrealismo; Halas, Hora e Seifert e, infine, l’epilogo, perchè la Runfola, come omaggio estremo, non ci racconta solo la fine di Kafka, ma, anche se dopo di lui, la fine di tutti i protagonisti di questa intensa stagione. Sono capitoli densissimi, ognuno, a suo modo, una piccola monografia accuratissima nella indicazione delle fonti in nota e preziosa nella bibliografia in italiano. Un aiuto utilissimo per chi teme di poter perdere, per inconsapevolezza  e per la mancanza di uno sguardo d’insieme, la portata dei tesori letterari che va, magari fortuitamente, scoprendo.

La Runfola sceglie una citazione di Urzidil per dare inizio al suo libro e affida allo stesso autore il compito di chiuderlo, a Urzidil forse perché lui, sfuggito in modo tormentato e fortunoso dalla sua città alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ha poi continuato la sua vita negli Stati Uniti, trafitto da una accorata nostalgia per la Praga di quegli anni: “Sono un tedesco di Praga […] una grande città, se grandezza è ciò che è passato attraverso tempi interminabili, attraverso passioni, voluttà di vivere e di creare, e che si è tramandato fra lotte e spasimi. Grandezza è il frutto della nostalgia: l’Atene di una volta, la Roma di una volta, la Praga di una volta, un mucchio di rovine anche se le case e i portici sono stati risparmiati. Grande è ciò che rimane vivo nello spirito e nel cuore”. Con un confortante senso di vicinanza mi accorgo, arrivata alla fine del suo libro, di aver saputo cogliere un po’ di quella “musica lontana” di cui parla la Runfola riferendosi alle sue parole, se leggendo il “Trittico praghese” di Urzidil mi sono soffermata sullo stesso passo, eleggendolo a sintesi rappresentativa di un mondo che non morirà mai del tutto.

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