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letteratura tedesca

Victor Klemperer, “E così tutto vacilla”

VICTOR KLEMPERER – E così tutto vacilla – Scheiwiller

“Tali sono gli abissi della storia: tutto vi giace alla rinfusa e, se si cala lo sguardo per arrivare al fondo, si è colti da un senso di orrore e di vertigine” (W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione”)

Effetto Sebald: chi apre un suo libro si predispone ad arrendersi alla vertigine del senso, a percorrere sentieri che si incrociano, intrecciano e motivano, a non lasciarsi sopraffare dal delirio delle coincidenze e delle suggestioni e, infine, chi apre un suo libro sa che, prima o poi, farà un incontro che si prenderà il lusso di seguire, fino in fondo. E’ nelle pagine di “Storia naturale della distruzione” di Sebald che ho trovato il primo accenno agli sterminati diari dell’ebreo tedesco Victor Klemperer. Una traccia che mi sono concessa di seguire per ritrovarmi nel bel mezzo di una nuova rete di coincidenze – potenza sebaldiana – questa volta però, ben più modestamente, tutta personale e legata alla mia storia di lettrice. Come potevo infatti immaginare, recuperando il corposo volume,un estratto dei suddetti diari, fortunatamente edito da Scheiwiller nel 2010 e ancora disponibile sul mercato, che lo stesso fosse introdotto da una prefazione scritta da Antonio Moresco e, inoltre, tradotto e curato da Anna Ruchat, che ha reso così nuovamente accessibile ai lettori italiani una parte della precedente monumentale edizione uscita nel 2000 presso Mondadori e ormai introvabile? Un indiretto effetto sebaldiano: Antonio Moresco è l’autore italiano che ultimamente mi capita di leggere più spesso e che mi ha in un certo senso riconciliato con la nostra letteratura contemporanea, riempiendomi anche di felici aspettative riguardo alla sua produzione futura. Anna Ruchat è, e sarà sempre per me, la traduttrice di Thomas Bernhard, colei che ha reso possibile il mio incontro con quella grande prosa che ha in gran parte formato il mio gusto letterario.

Una duplice coincidenza dunque, in grado di potenziare enormemente il fascino di un libro già così denso di senso, valore, storia e cultura, perché lo colloca all’interno di una visione della letteratura, oltre che in un ambito storico e geografico, che mi è particolarmente congeniale. Sono sufficienti il nome di una città – Dresda – e un anno – il 1945 – per delineare le coordinate entro le quali si collocano le 562 pagine estratte dalla sterminata opera di Klemperer, che rappresenta uno dei più grandi diari mai scritti, resoconto di un’intera vita, perché l’autore inizia a scriverlo a sedici anni e continua a farlo fino a pochi mesi prima della sua morte, che avviene nel 1960, a 79 anni. Una vita vissuta e scritta quindi, una vita accompagnata dalla insopprimibile esigenza della scrittura della vita. Un tempo amplificato, tradotto, scandagliato e anche trasfigurato, vissuto in una duplice dimensione perché, come afferma Moresco nella Prefazione, la scrittura è “fantasia, creazione, immaginazione, invenzione, prefigurazione, visione […] qualcosa di nascente e aggiuntivo e non di parodistico e di riduttivo”. Se la scrittura registra il tempo della vita, lo conserva quindi ma, insieme, lo sottrae all’inevitabile decadimento di senso, rendendo possibile, per usare ancora le parole di Moresco, “la visione della vita dall’interno della vita”. La chiave di tutto ciò è la parola e, in questo caso, lo è ancora di più, perché Victor Klemperer è un filologo, uno studioso della parola, consapevole delle straordinarie potenzialità del linguaggio nella sua duplice funzione di comunicare il pensiero, ma anche, cosa ancora più significativa, di formarlo.

“E così tutto vacilla” è quindi il felice frutto dell’innata affezione del suo autore per le sterminate potenzialità di un linguaggio che è insieme modalità espressiva e oggetto di studio. Un linguaggio che, mentre supporta la vita, riflette su se stesso. Forse è per questo che, all’interno del suo sterminato diario, Kemplerer inizia ad individuare e ad isolare quel materiale che gli permetterà di elaborare la sua maggiore – o comunque più nota in Italia – opera filologica: “LTI: la lingua del Terzo Reich, taccuino di un filologo”. Scriverà Alfred Doblin nell’ultimo esilio americano: “Che cosa è stato di noi che ci eravamo consacrati anima e corpo alla lingua, che non era solo lingua, ma pensare, sentire e tanto altro ancora? Rinunciare ad essa significava non solo strapparsi la pelle ma cavarsi le viscere e diventare quello che siamo diventati, cadaveri viventi.” (Trovo questa bella citazione in “Atlante della letteratura tedesca”, a cura di Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo, edizioni Quodlibet). Il riferimento è ai roghi delle cataste dei libri bollati come antitedeschi sull’Opernplatz di Berlino e in molte altre città universitarie che, a partire dal 1933, danno inizio a quel processo di espropriazione violenta della lingua madre tedesca, della casa verbale nella quale un autore incontra i suoi lettori, luogo di riconoscimento e arricchimento reciproco, per sostituirla con la lingua stereotipata del Terzo Reich, che non si limiterà agli slogan della propaganda, ma che finirà per permeare di sé anche il linguaggio quotidiano. I poeti bruciati diventano poeti banditi, la lingua tedesca, violata, distorta, banalizzata, asservita ad un progetto criminale, diventa complice di un delirio di superiorità, violenza ed abiezione. Il filologo Victor Klemperer, vittima prima della discriminazione e poi della persecuzione antisemita, percorre tutte le tappe della via crucis, tranne l’ultima, quella della deportazione in un campo di concentramento, in virtù del suo matrimonio con una donna ariana, gravato in sovrappiù da una disillusione tanto più cocente e dolorosa, in quanto proporzionata al suo alto senso di appartenenza nazionale e culturale alla Germania. Il filologo Victor Klemperer, testimone di un mondo che vacilla, lo percorre unendo alla paura costante, all’angoscia per il futuro e alla fame, la desolante consapevolezza che la civiltà e la cultura non sono stati sufficienti ad arginare la barbarie e l’orrore, condannato anche a registrare, perché questo sa fare e questo è da sempre oggetto dei suoi studi, le espressioni della lingua tedesca nelle quali si nascondono i germi di una ideologia malata e distorta e che compongono quella nuova lingua del potere di cui lui stesso è vittima.

Professore ordinario alla Technische Hochschule di Dresda con all’attivo pubblicazioni, viaggi di studio, conferenze presso prestigiose università, nel 1935 inizia il rapido declino dell’ebreo Klemperer nella Germania nazista: prepensionamento obbligatorio, confisca dell’abitazione, domicilio coatto presso varie case per gli ebrei in convivenza forzata con altre famiglie, lavoro manuale obbligatorio presso varie fabbriche per la lavorazione della carta, paura costante di una perquisizione da parte della Gestapo, divieto di utilizzo delle biblioteche pubbliche, divieto di frequentare locali pubblici, divieto di tenere animali domestici, obbligo di portare la stella. Estrema e unica resistenza possibile, la scrittura: “Ma io continuo a scrivere. E’ questo il mio modo di essere eroico. Voglio testimoniare e testimoniare nel dettaglio”. Indubbiamente le pagine di questo diario possiedono un inestimabile valore storico, ma è un altro l’aspetto di quest’opera che mi preme sottolineare e cioè la costante e vitale affezione del suo autore per il proprio mondo intellettuale, per la sfera interiore in cui il suo pensiero vive, per la necessità, imprescindibile tanto quanto la sopravvivenza fisica, di dargli voce ed espressione.  Klemperer vive doppiamente la persecuzione che viene messa in atto nei suoi confronti: da una parte, naturalmente, subisce la perdita del ruolo sociale e della sicurezza, vive nel pericolo, sopporta i disagi, la miseria e la fame, dall’altra patisce profondamente per l’impossibilità di continuare i suoi studi, per la confisca e la perdita di tutti i libri della sua biblioteca e di tutte le sue pubblicazioni, una perdita vissuta come “tradimento della classe intellettuale tedesca, della moralità tedesca”. Posto al centro esatto di “un inferno di crimini e di assassinii”, Klemperer, giorno dopo giorno, scrive il suo diario, rischiando la vita per nascondere i suoi manoscritti, prendendo appunti nei rifugi, sotto i bombardamenti, per registrare addirittura con pedanteria i minimi avvenimenti quotidiani. Il suo diario è il timone di un’esistenza che è diventata una catastrofe umana, morale, storica e spirituale: “Dovunque, ogni due minuti, ogni due righe, arrivo sempre alla stessa conclusione: tutto barcolla, tutto vacilla, ovunque si vada si annaspa”.

Il presente volume raccoglie tutte le pagine del diario relative all’anno 1945, esattamente dal 1° gennaio al 31 dicembre; essendo Dresda il cuore geografico intorno al quale gravita l’esistenza di Klemperer, la distruzione della città nei terribili bombardamenti del 13 e 14 febbraio determina una cesura, una linea di demarcazione nella vita dell’autore: dalla segregazione alla fuga nella Germania sconvolta dagli ultimi sussulti del Reich, e poi il calvario del ritorno, dalla Baviera a Dresda, compiuto in quindici giorni quasi interamente a piedi, la difficoltà di integrarsi nella nascente Germania dell’Est, la lenta ricostruzione di una socialità, se non distrutta, ferita quasi a morte. Molte cose colpiscono di tutta questa vita che si dipana sotto gli occhi del lettore, pagina dopo pagina. Su tutto, inaspettata, ma così vera e umana, la paura paradossale di chi, avendo attraversato l’inferno, rischiando mille volte di morire, una volta riconquistata una parvenza di sicurezza, teme di aver perso le proprie capacità intellettuali: “Oscillo di continuo tra una beatitudine piena di stupore e la sorpresa incredula per questa svolta fiabesca del nostro destino e la paura oscura che tutto questo sia arrivato troppo tardi, il cuore, la senescenza del pensiero, anche il semplice arrugginirsi delle mie conoscenze – non so più nemmeno dieci parole di francese – potrebbero giocarmi un brutto tiro e distruggermi”; o di non avere più il tempo necessario per portare a compimento il lavoro di una vita: “Sono così stanco e così pigro e così distratto. Il motto che dentro di me continuo a ripetere: Voglio sfruttarlo questo tempo breve. Ma non lo sto sfruttando. Sto seduto nell’atrio sulla poltrona grande e guardo nel verde, guardo il mio giardino e lascio che la radio trasmetta accanto a me”.

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giovanni baldaccini
10 years ago

Prendo visione di questo libro che non conoscevo e che ora leggerò. Il uo articolo mi ha suscitato una risposta profonda, una di quelle da cui sarebbe meglio stare lontano, ma ormai è fatta e, convinto come sono che lo sterminio dei nostri libri interiori non si sia mai arrestato e che continui ancora oggi, anche se in altre forme, forse sarò costretto a scriverne.

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