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letteratura argentina

Jorge Baron Biza, “Il deserto”

JORGE BARON BIZA – Il deserto – La Nuova Frontiera

Jorge Baron Biza - Il deserto“Nei momenti che seguirono l’aggressione, Eligia era ancora rosea e simmetrica, ma di minuto in minuto le linee dei muscoli del viso cominciarono a incresparsi, un viso ancora molto liscio fino a quel giorno, nonostante i quarantasette anni e un intervento giovanile di chirurgia estetica cui doveva il nasino corto e all’insù. Quella spuntatina volontaria che per trent’anni aveva conferito alla sua testardaggine un’aria di audacia impostata divenne il simbolo della resistenza alle grandi trasformazioni che l’acido stava operando. Le labbra, le rughe attorno agli occhi e il profilo delle guance si andavano trasformando con un andamento antifunzionale: alla comparsa di una curva in un punto che non aveva mai avuto curve corrispondeva la scomparsa di una linea che fino a quel momento aveva costituito un tratto inconfondibile della sua identità”.

Quanto deve la letteratura alle madri? Ci sono libri in cui la vita e la letteratura si toccano e coincidono, donandosi a vicenda quello spessore tangibile, quella completezza liberante che l’una e l’altra inseguono, rispecchiandosi, deridendosi, giocando con la finzione, esaltandosi nel dramma, crogiolandosi nella esagerazione. Ci sono libri che sembrano il duplice frutto di un ventre materno, che ha prima dato la luce ai loro autori e che poi, morendo, li ha posti in grado di compiere a loro volta un atto creatore, costringendoli quasi a ripercorrere una morte – atto estremo di una vita – rendendola seme germinatore di una vita seconda e ben più potente perché salvata dalla contingenza. E’ così forse che le madri diventano l’origine di un certo tipo di letteratura, intensa e trasognata, profondamente umana ma straordinariamente lontana da ogni stereotipo, allergica ad ogni possibile riconoscimento, scevra da ogni intento sentimentale, addirittura cruda e disturbante nella sua testarda ricerca di una plausibile verità e, soprattutto, baciata dalla forza di uno stile ogni volta inconfondibile, come lo sono i lineamenti di ogni nuova creatura. Una letteratura che è ben lontana dal memoriale anche se alla memoria si appella, che da una frattura si origina, da un trauma che spacca con la sua forza bruta la logica dell’esistenza ma che si fa solco aperto dove germina una scintillante ispirazione.

Quanto deve la letteratura alla morte delle madri l’ho scoperto leggendo alcuni libri a cui quest’ultimo mi ha con naturalezza ricondotto, a loro accomunato dall’evidente preesistenza rispetto al dramma, che lo ha originato e che ne costituisce il motivo dominante, di una prepotente esigenza affabulatoria che non è tanto, o non solo, racconto, quanto divagazione concentrata, variazione intorno ad un centrale punto di riferimento, continuo tentativo di evasione e continuo ritorno a quel punto dolente dell’umana esistenza che è l’indagine senza infingimenti intorno alla propria origine. Alla morte delle madri, ma potrei meglio dire al morire delle madri, perché gli autori di questi libri è questo morire che scrutano, questa volontà di morire, oppure l’atto brutale che l’ha generato, o il morbo crudele che l’ha prodotto, o la vita segreta che ha rivelato, perché sono libri che vivono il tempo del morire come fosse quello di una gestazione, che necessitano di centellinarne i giorni, le notti, in una intimità fisica con quella madre che con la stessa intimità fisica ha percorso l’attesa della nascita. Penso a “Post mortem” di Alberto Caraco, a “Infelicità senza desideri” di Peter Handke, a “Gli amori di mia madre” di Peter Schneider, a “Mia madre musicista è morta di malattia maligna a mezzanotte tra martedì e mercoledì nella metà di maggio mille977 nel mortifero Memorial di Manhattan” di Louise Wolfson, ma anche a “La luce prima” di Emanuele Tonon, che ancora non conosco ma che so molto apprezzato da Antonio Moresco, e chissà a quanti altri ancora si potrebbe fare riferimento. E’ una letteratura che parte da un dato biografico indiscutibile – da un avvenimento ben radicato nello spazio e nel tempo, decisivo per la donna che muore e per il figlio che assiste e sopravvive, evento limite che chiude, inizia o perpetua un dramma – ma che questo dato trascende, così che l’esito di questa scrittura densa, fisica, capace di conturbare il lettore e di condurlo in territori che si vorrebbero evitare o addirittura negare, non ha quasi nulla del mero autobiografismo.

Ciò che le letteratura deve alla morte di una madre risulta ancora più emblematico nel caso di Jorge Baron Biza, lo scrittore argentino nato nel 1942 e morto suicida nel 2001, la cui vita appare segnata irrimediabilmente dai toni foschi di una tragedia tanto estrema nell’obbedire al fato che le impone di riproporsi fino a distruggere tutti i suoi attori, che pare frutto dell’ispirazione di un poeta. Invece è vita, che trova la voce per esistere nonostante tutto, per trascolorarsi, esaltarsi e forse per consolarsi nel gioco salvifico della letteratura. Baron Biza ha scritto un unico libro, “unico in tutti i sensi. Un libro che solo lui poteva scrivere, un libro inclassificabile, un libro che fa ciò che lui non ha mai potuto fare: inventarsi un luogo nel mondo”, così afferma Alan Pauls nella postfazione al volume, dal titolo “Jorge Baron Biza, l’uomo del sottosuolo” e dal sottotitolo “Carne della mia carne”, ricostruendo i lineamenti di uno spirito acuto e portato all’introspezione, di una intelligenza fuori dal comune e di una sensibilità esasperata, condannati a portare il peso della propria identità, personale e familiare. “Il deserto” esce nel 1998 e nel risvolto di copertina – opportunamente mantenuto nella presente edizione – è lo stesso autore a presentarsi in questo modo diretto, insieme crudo, sconsolatamente ironico, ma anche toccante: “Un grande flusso di compassione mi investì quando si verificò il primo suicidio in famiglia. Quando accadde il secondo, quel flusso si trasformò in un oceano agitato e senza orizzonte. Al terzo, ogni volta che mettevo piede in una stanza posta al di sopra del terzo piano le persone si affrettavano a chiudere le finestre. In scene come questa è rimasta imprigionata la mia solitudine. Per il resto, sono nato nel 1942, mi sono formato in scuole, bar, redazioni, manicomi e musei di Buenos Aires, Friburgo, Rosario, Villa María, La Falda, Montevideo, Milano e New York. Ho letto Mann e tradotto Proust. Per trent’anni mi sono guadagnato da vivere come correttore di bozze, ghostwriter, giornalista (da pubblicazioni per manicomi a riviste per l’alta società) e critico d’arte”. Sembra il riferimento ad un’estinzione familiare degna di una tragedia greca, una maledizione che colpisce successivamente il padre, la madre, la sorella dell’autore e che già prefigura la sua stessa fine. Ma paradossalmente non è questo destino brutale – o perlomeno non direttamente questo – l’oggetto e il motivo generatore de “Il deserto”.

Paradossalmente questa presentazione tace l’evento che è il primo atto della catastrofe familiare e personale dell’autore, intorno al quale il libro si costruisce a partire da un incipit quasi cinematografico che eliminando ogni barriera protettiva conduce il lettore ad assistere agli effetti che l’acido gettato dal padre provoca sul bel viso della madre Eligia. “Così, con quella costanza, la verità demolisce le impalcature di protezione erette dal nostro ingegno”: una demolizione, questo sarebbe il sottotitolo più adatto al un romanzo che nel titolo originale suonerebbe “Il deserto e i suoi semi”. Perché il giovane Jorge, allora ventenne, alla demolizione del viso della madre assiste per anni seguendola nei suoi successivi lunghissimi ricoveri e la demolizione interiore sperimenta, come se lo stesso acido stesse allo stesso tempo corrodendogli certezze, identità ed aspirazioni per ridurlo ad un’ombra, un testimone della carne di sua madre. Una carne scrutata da vicino nella sua metamorfosi, con apparente freddezza e con scrupolo documentaristico: “Dato che le zone colorate si celavano nelle caverne aperte dai medici, studiavo da vicino gli abissi delle guance per osservarne l’evoluzione e sperare che da quelle pennellate rinascesse l’armonia”. Carne della mia carne, questa è l’essenza di una madre che della lunga lotta conclusa nella resa del suicidio e ripercorsa nel romanzo non sembra mai in realtà essere la protagonista; protagonista, intensa, irruente, suadente è la solitudine del suo autore “rimasta impigliata in scene come questa”. In una simbiosi perfetta, dissoluzione per dissoluzione, come la carne della madre non ritroverà mai l’armonia perduta, così l’anima del figlio non troverà mai il suo posto nel mondo. Lui che voleva, scrivendo, “spaventare fantasmi girando intorno a vecchi episodi con la lente d’ingrandimento e lo scalpello”, da questi stessi fantasmi verrà sconfitto. La vera vittoria, sta in queste pagine, nel loro valore, nella loro capacità di far convivere la crudezza più estrema con la raffinatezza, la desolazione con la cultura, la disperazione con l’intelligenza, ma questo lui non lo saprà mai. Rimane, a tratti, il rimpianto di ciò che questo scrittore avrebbe potuto essere se il destino non si fosse accanito su di lui; lo alimentano brevi incisi, quasi avulsi dal contesto, brevi respiri di sollievo, quando rievocando la sua terra d’origine, rivela forse la sua essenza più profonda, un sogno di leggerezza: “Ripenso alla mia pianura natale senz’alberi, né colline, né alberghi, un’immensità priva di ogni riferimento, una terra che galleggia davanti agli occhi e sconfigge tutti i pittori che provano ad affrontarla. Vengo da un paese inafferrabile, fatto di materiali che si trasformano in sogni e dubbi appena uno volta loro le spalle; un luogo aereo, dove le categorie non hanno senso”.

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