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Ingeborg Bachmann, “Invocazione all’Orsa Maggiore”

INGEBORG BACHMANN – Invocazione all’Orsa Maggiore – SE

iinvocazioneorsa1Rileggo spesso le liriche della Bachmann e, tra quelle contenute nella raccolta “Invocazione all’Orsa Maggiore”, ancora più spesso i “Lieder auf der Flucht”, i “Canti lungo la fuga”. Principalmente per la consapevolezza che non esiste la possibilità di dichiarare finita, terminata, la lettura della poesia, quando è grande poesia, e poi, probabilmente, anche per convincermi che sia veramente esistita una simile voce poetica, una simile voce poetica femminile. Fuga, “Flucht”, è un termine che ricorre spesso nel lessico poetico della Bachmann; i suoi versi sottendono spesso un movimento, un allontanamento o, al massimo, delle soste precarie e momentanee, già consapevoli della propria transitorietà. Forse rileggo così spesso questi “Canti” perché, nel mio immaginario, sono quelli che meglio rappresentano il soggetto poetico che li ha generati, la sua anima così complessa e contraddittoria, ritrosa ma anche votata all’espressione di sé. Perché la Bachmann sembra costantemente negarsi, ma anche concedersi, sembra esistere di un’esistenza perentoria ed esigente, nelle brevi soste di una vita interiore da fuggitiva.

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Thomas Bernhard, “Goethe muore”

THOMAS BERNHARD – Goethe muore –  Adelphi

Traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia

rsz_gothe-muore“La difficoltà di scrivere sulla filosofia di Wittgenstein, e soprattutto sulla sua poesia, infatti secondo il mio punto di vista si tratta nel caso di Wittgenstein di un intelletto (cervello) poetico, e dunque di un cervello filosofico, ma non di un filosofo, è la difficoltà più grande che vi sia. E’ come se io dovessi scrivere qualcosa (proposizioni) su me stesso, e questo non può essere […]. La questione è se io posso scrivere su Wittgenstein un attimo senza distruggere lui (Wittgenstein) o me stesso (Bernhard) […]. Wittgenstein è una domanda alla quale io non posso rispondere… Così io non scrivo su Wittgenstein non perché non posso, bensì perché io non posso rispondergli”.

 Così scrive Thomas Bernhard in una lettera a Hilde Spiel, sua amica e scrittrice viennese, il 2 marzo 1971. La citazione è riportata da Aldo Gargani nel suo bel saggio “La vita scritta in Thomas Bernhard”, pubblicato nel numero monografico di gennaio-giugno 2007 (N° 32) della rivista “Cultura tedesca”. Nel 1982, con l’uscita di “Goethe muore”, Bernhard dimostra di aver trovato il modo, se non di scrivere su Ludwig Wittgenstein, di celebrare il suo intelletto poetico, e dunque filosofico. Lo fa a modo suo, mettendo in piedi un vero e proprio feuilleton filosofico, un controromanzo costruito su di una strategia diffamatoria. Il diffamato è Goethe, diffamato, dissacrato, ridicolizzato nei suoi ultimi giorni di vita, sul suo letto di morte, addirittura nel momento solenne delle sue ultime parole. Diffamare Goethe per elogiare Wittgenstein attraverso la sua opera, il “Tractatus Logico-Philosophicus”. Goethe muore tenendo il Tractatus sotto il cuscino, mettendolo quindi, in ordine di importanza, al di sopra del “Faust” e del mito che esso rappresenta per la cultura tedesca, mettendolo anche – sembra dire l’autore – quasi al di sopra dello stesso Wittgenstein che, vanamente mandato a chiamare, risultando prematuramente morto, non si presenterà mai al suo cappezzale. Bernhard mette in scena l’elogio funebre del filosofo in modo paradossale e grottesco, costruendo un impianto narrativo logico, basato però su mezzi e materiali privi di apparente logica.

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Von Hofmannsthal, “L’uomo difficile”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “L’uomo difficile” – Rusconi

“… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni. Non riuscivo più a coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto”. E’ un brano tratto dalla “Lettera di Lord Chandos” e lo scrive un giovane nobile dell’epoca elisabettiana, per spiegare a Francis Bacon, suo maestro e guida spirituale e intellettuale, i motivi della sua rinuncia all’attività letteraria.

 “Ma tutto ciò che si dice è indecente. Il semplice fatto che si dica qualcosa è indecente. E quando lo si prende sul serio, mio caro Aldo, ma le persone non prendono nulla al mondo sul serio, c’è addirittura una certa impudenza nel fatto che si osi vivere certe cose! Per esperire certe cose e non trovarsi indecenti occorre un così folle amore per se stessi e un tale grado di cecità che da persone adulte si può forse conservare nell’angolo più intimo di sé, ma non confessarlo!”. E’ una delle battute finali della commedia “L’uomo difficile” e la pronuncia il protagonista, Hans Karl Buhl, un ricco scapolo di mezza età, appartenente alla aristocrazia viennese, appena rientrato, in licenza, dalle prime linee della I guerra mondiale.

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Von Hofmannsthal, “Ieri”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “Ieri” – Edizioni Studio Tesi

“E non si muta forse in metafora ogni cosa
per dare voce ai nostri tormenti e alle nostre gioie?”

“Ieri” (“Gestern”) rappresenta l’esordio drammatico del giovanissimo Von Hofmannsthal, che lo compone nel 1891, a diciassette anni. L’anno precedente erano già apparse le sue prime poesie, firmate con lo pseudonimo Loris Melikov, perché a quel tempo, a Vienna, ai ginnasiali non era permesso pubblicare e Hofmannsthal frequentava l’Akademisches Gymnasium della capitale imperiale. Sono queste prime opere ad attirare su di lui l’attenzione dei giovani intellettuali che, di lì a poco, daranno vita al gruppo della “Jung-Wien”, Schnitzler, Beer-Hofmann, Salten, Bahr, George, e che il giovane scrittore avrà occasione di conoscere, frequentando il Cafè Griensteidl, il punto d’incontro della nuova generazione di letterati viennesi. A questo gruppo si unirà più tardi anche Stefan Zweig che, nel suo libro “Il mondo di ieri”, vero e proprio breviario viennese e insieme autobiografia intellettuale nonché racconto dell’epopea della “Felix Austria”, dà testimonianza dell’apparizione del giovane poeta e drammaturgo nel fervido ambiente culturale della Vienna di fine secolo. Zweig riporta le impressioni e i ricordi di Scnitzler, allora considerato il capo della “Giovane Vienna”, relativi al suo primo incontro con Von Hofmannsthal. Su richiesta del ragazzo, viene organizzata una serata durante la quale egli legge la sua opera teatrale in versi (proprio “Ieri”). Tutti si aspettano di sentire uno dei soliti componimenti teatrali da studente, sentimentale e pseudiclassico. Hofmannsthal si presenta in calzoni corti, nervoso e intimidito e comincia a leggere. Ecco cosa racconta Zweig: “Dopo alcuni minuti – mi narrava Schnitzler – ci facemmo attenti e cominciammo a scambiarci sguardi stupiti, quasi atterriti. Non avevamo mai udito da un vivente versi di tale perfezione, di tale plasticità impeccabile, di tale fluidità musicale; anzi dopo Goethe non li avevamo quasi ritenuti possibili. Ma ancor più mirabile di questa maestria della forma, unica e non più raggiunta da alcuno nella lingua tedesca, era la conoscenza del mondo, la quale in un ragazzo che passava la giornata sui banchi di scuola, non poteva venire che da una magica intuizione. […] Io, mi disse Schnitzler, avevo la sensazione di avere incontrato per la prima volta un genio nato e mai in tutta la mia vita l’ho sentito così fortemente”. Un ragazzo prodigio, quindi. Inutile dire che ben presto questo poeta “puro e sublime” diventa punto di riferimento della giovane generazione viennese.

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Von Hofmannsthal, “La mela d’oro e altri racconti”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “La mela d’oro e altri racconti” – Adelphi

“Eppure non aveva mai il pensiero che osservassero lui di persona, lui che passava in quel punto a capo chino, o si inginocchiava presso un garofano per legarlo con un filo di rafia, o si curvava sotto i rami; ma gli pareva che guardassero l’intera sua vita, la sostanza più profonda del suo essere, quella sua incomprensibile insufficienza umana”.

“Eravamo di una trionfale tristezza”, e questo “noi” indica quel gruppo di giovani intellettuali che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, al lento chiudersi di un’epoca, avvertono “l’anima di questa Vienna che forse vibra per l’ultima volta”. Trovo citate queste belle parole di Hofmannsthal nella sezione a lui dedicata del ponderoso e illuminante volume di Ferruccio Masini “Gli schiavi di Efesto. L’avventura degli scrittori tedeschi del Novecento”. E trovo questa espressione perfetta per sintetizzare, in modo però estremamente allusivo, l’impressione suscitata nel lettore da questi nove racconti giovanili di Hofmannsthal. Un autore che appare già colto e raffinato quando, poco più che adolescente, scrive il primo di questi racconti, “Giustizia” – ma precocissima è comunque anche la sua vocazione teatrale. Difficile definire questi testi, per i quali le usurate categorie di genere risultano poco significative; in queste pagine lo scrittore va componendo una fitta trama di allegorie, favole, paesaggi, presagi lirici, riflessioni e divinazioni, che costituiscono il primo passo dell’ininterrotta evoluzione della sua opera, sostanzialmente unitaria, dove novelle, drammi, commedie, romanzi e libretti musicali contengono echi e rimandi che li collegano l’uno all’altro.

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Lernet-Holenia, “Il Conte di Saint-Germain”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Il Conte di Saint-Germain” – Adelphi

“Adesso invece, se pure [le ombre dei morti] potessero ritornare e davvero ritornassero, non sarebbero più un conforto per noi. Perfino le ombre più care si aggirerebbero sconsolate in questo tempo profanato – o basta già invecchiare per rimanere profanati noi pure? Anzi forse, se ci scorgessero, si deciderebbero anch’esse, piangendo e gemendo, a fare quel che il tempo già fa: distruggerci”.

C’è qualcosa di peggio che perdere i punti di riferimento della propria vita, la mappa del proprio mondo, le certezze che parevano indiscutibili e immutabili, ed è perdere tutto ciò una seconda volta, e affrontare, di nuovo, il dramma dello spaesamento. Se infatti la perdita originaria provoca smarrimento, rimpianto e nostalgia, la seconda, per questo ben più grave e definitiva, è madre della disillusione e del disincanto. Ma la grande letteratura sa impadronirsi dello smarrimento soffuso di nostalgia e del più cinico disincanto, li declina nelle loro mille sfaccettature, dà loro carne e sangue, volti e accadmenti e, soprattutto, li rende sopportabili e persino esaltanti, perché li affida alla parola che, quando è grande stile, consola, anche se dà voce al dolore. Tutto ciò per dire che la cifra di questo romanzo, il disincanto appunto, mi appare il contraltare di quel bellissimo canto d’addio al mondo asburgico che è “Lo stendardo”. “Il Conte di Saint-Germain” rappresenta l’irrompere dell’irrazionalità, del sogno, dell’imponderabile, nella vita del protagonista, Philipp Branis, e in tutto ciò che costituisce il mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia viennese tra i due avvenimenti salienti della storia austriaca del Novecento, le due tappe della dissoluzione di una patria: la fine dell’Impero nel 1918 e l’Anschluss alla Germania nazista nel 1938.

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Bernhard, “Piazza degli eroi”

THOMAS BERNHARD – “Piazza degli eroi” – Garzanti

Traduzione di Rolando Zorzi

Piazza degli eroi

“E’ tutto in via di estinzione”

Prima di tutto qualche data, per cogliere appieno l’importanza di “Piazza degli eroi” (“Heldenplatz”) all’interno della produzione teatrale, ma anche più genericamente letteraria, bernhardiana. L’opera viene pubblicata nel 1988 e rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 4 novembre dello stesso anno, per la regia di Claus Peymann. L’ultimo romanzo di Bernhard, “Estinzione” era stato pubblicato due anni prima, nel 1986. Il 12 febbraio 1989 Bernhard muore. Siamo quindi giunti con questo dramma alla conclusione della parabola teatrale del suo autore, ovvero, come ben sottolinea Eugenio Bernardi, al punto “massimo di quella provocazione cui mirava da sempre il suo teatro”. Esattamente come, sul piano della narrativa, “Estinzione” rappresenta il tentativo, attuato mediante le raffinate armi letterarie a cui questo autore ha abituato i suoi lettori, di cancellare, di estinguere, uno per uno, i temi portanti della sua architettura artistica. Bernhard conclude quindi portando al massimo grado possibile la sua arte della provocazione e della esagerazione, consapevole che, esagerando la realtà, può renderla insopportabile e, quindi, distruggerla. Ci si può chiedere se fosse consapevole dell’avvicinarsi della fine, ma la sua stessa biografia ci dice che Bernhard ha sempre vissuto sapendo di portare con sé la propria morte, di allevare dentro di sé la propria malattia mortale e quindi questa è, in definitiva, una domanda inutile.

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Lernet-Holenia, “Lo stendardo”

ALEXANDER LERNET-HOLENIA – “Lo stendardo” – Adelphi

Nato nel 1897 e morto nel 1976, Lernet-Holenia ha avuto l’opportunità di essere consapevole testimone del tramonto dell’impero e della nascita del mito asburgico, di quella sua sopravvivenza nella memoria, nel ricordo e nella nostalgia che ha regalato alla letteratura mitteleuropea tante opere di inestimabile valore. La fine di un mondo ha il potere di racchiudere in sé, quasi miracolosamente illuminato, reso tangibile nella sua essenza, depurato da ogni orpello esteriore, ciò di cui era costituito, di fissare per sempre i suoi lineamenti, di renderli immediatamente riconoscibili. Non stupisce quindi il fatto di ritrovare tutto ciò nel romanzo “Lo stendardo”, opera del 1934, perché, come afferma Magris nel suo ricchissimo e fondamentale saggio “Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna”, “Il mito asburgico, lungi dal morire con la fine dell’Impero, sembra anzi avere iniziato con questa la sua più suggestiva e interessante stagione”, d’altra parte il mito non si nutre certo di una realtà oggettiva, ma di memoria e di nostalgia, affidate alla parola. La grande tradizione della narrativa austriaca del Novecento appare permeata, definita e, addirittura sconvolta da una trasformazione così radicale di tutta una civiltà, dal passaggio dalla sicurezza e dall’ordine, alla scoperta del disordine del mondo.

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Bernhard, “Teatro V. Il Presidente. Il teatrante. Elisabetta II”

THOMAS BERNHARD – “Teatro V. Il Presidente. Il teatrante. Elisabetta II” – ubulibri

Traduttori: Eugenio Bernardi, Umberto Gandini.

Teatro V

Nella mia esperienza di lettrice, non ho ancora trovato un autore nella cui opera sia possibile constatare una così straordinaria contaminazione di generi, direi quasi assimilazione, quanto in Bernhard. La sua narrativa monologante sconfina nella teatralità, ogni suo dramma, così essenziale nell’azione scenica, ma così denso e pregnante nella scelta delle parole, possiede la forma evocativa della poesia, i suoi testi poetici (purtroppo conosco solo i pochi che sono disponibili in traduzione per i lettori italiani) hanno il sapore di volta in volta dell’invettiva, del ragionamento condotto alle estreme conseguenze, del delirio e della provocazione, che il lettore ben conosce per averli tante volte sentiti pronunciare dai protagonisti lucidi e desolati dei suoi romanzi. Sarà forse per questo che, giunta alla fine della lettura del quinto volume dei testi teatrali di Bernhard, pubblicati dalla ubulibri (di un possibile sesto volume ho perso le speranze, pur essendo stato annunciato dalla casa editrice) mi sono resa conto di aver raggiunto quel senso di “assuefazione” che ritengo ideale per poter apprezzare pienamente la bellezza di questi testi.

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Broch, “I sonnambuli”

HERMANN BROCH – “I sonnambuli” – Mimesis

Vol.I: “Pasenow o il romanticismo”

“Innalzare il terrestre all’assoluto è sempre romanticismo.” (Hermann Broch)

Vol.II: “Esch o l’anarchia”

“Senza ordine nei registri non c’era ordine neppure nel mondo”

(Hermann Broch)

Vol.III: “Huguenau o il realismo”

“In un mondo assolutamente razionale non c’è sistema assoluto di valori, non ci sono peccatori, al massimo esseri nocivi.”

(Hermann Broch)

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