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Antonio Moresco, “Gli increati”

ANTONIO MORESCO – Gli increati – Mondadori

gli increati“So solo che avevo percepito che qualcosa era successo, anche se non sapevo cosa, avevo avuto per una frazione d’istante come per una fulminea intersezione di dimensioni e di piani la percezione che ero dentro qualcosa che era successo da qualche parte, succederà… Lo so, lo so che non ci sono le parole per dirlo, ma se non ci sono le parole per dirlo allora vuol dire che c’è qualcosa che si sottrae alla nominazione, alla nominazione e alla creazione e alla distruzione, alle parole vive e alle parole morte e anche alle parole immortali”.

“Gli increati” non rappresenta l’ultimo tassello di una trilogia iniziata con “Gli esordi” e continuata con “Canti del caos”, anche se si avvale, guadagnandone in spessore, profondità percettiva e fascino narrativo, della materia di cui i primi due volumi sono costituiti. “Gli increati” è insieme punto di arrivo e di partenza di una narrazione ciclica che ha un nuovo inizio dove ci si aspetterebbe una conclusione, che termina con un proemio, anzi con tre proemi, chiudendo un cerchio strutturale, che, in realtà, rimane inevitabilmente aperto. Con questo volume, Moresco perfeziona una costruzione narrativa che trova una sua splendida incompiutezza nella ripetizione, nella paziente riproposizione di infinitesimali lacerti di trame, nella turbinosa ricomparsa sulla scena di un’infinita popolazione di comparse, comprimari e protagonisti che, tassello, dopo tassello, contribuiscono alla creazione di una struttura plausibile, alla sua distruzione e al suo annullamento nella increazione.

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Franco Stelzer, “Matematici nel sole”

FRANCO STELZER – Matematici nel sole – Il Maestrale

matematici nel sole“Tutto sommato – pensa – alla fine noi non siamo che questo. Esseri che fanno di conto, avvolti nel chiarore. Piccoli eroi storditi e luminosi. Matematici nel sole”.

Mi piace Franco Stelzer, tra le altre cose, perché è uno scrittore coraggioso. Bisogna esserlo per scrivere, oggi, di amore e di morte, affondando le mani nella materia oscura che li accomuna. Se riesce a farlo, immagino, è perché possiede una certa dimestichezza con le materie oscure. Mi piace, pur riconoscendone quelle che mi appaiono come imperfezioni o, meglio, riconoscendo nella sua scrittura quei cali di tensione narrativa, quelle soste volute e cercate in territori inoffensivi in cui a volte indulge; ma il mio parere deriva da un gusto letterario maggiormente portato ad una narrazione che nasconda i suoi snodi, che rifugga dalle storie, che prenda spesso le distanze da ciò che può essere esplicito, che richieda insomma una sorta di esercizio di decifrazione da parte del lettore, lo stimoli e lo metta alla prova. Invece Stelzer è un potente accompagnatore, una guida nei boschi narrativi, una guida affascinante che non si può evitare di seguire. Perché questo è un libro che richiede l’abbandono del lettore e anche la sua fiducia, data la materia di cui è costituito che è, sotto i veli, gli infiniti veli che le parole le vanno tessendo intorno, dolorosa e definitiva. La materia di cui è fatto “Matematici nel sole” è la fine, con maggiore precisione, l’approssimarsi della fine della vita, vista nell’ottica della piena consapevolezza.

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Gianni Celati, “Narratori delle pianure”

GIANNI CELATI – Narratori delle pianure – Feltrinelli

Narratori delle pianure“Avevano fatto tanta strada venendo da lontano in cerca di qualcosa che non fosse noioso, senza mai trovar niente, e adesso per giunta chissà quanto tempo ancora avrebbero dovuto restare nella nebbia, col freddo e la malinconia, prima di poter tornare a casa dai loro genitori. Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così”.

Hanno il passo lungo di pianura queste pagine, quello che poggia il piede quasi senza attenzione e senza apprensione perché non si aspetta né inciampi né sorprese, il passo di chi alza gli occhi all’orizzonte sapendo già che cosa potrebbe capitargli di trovare, ma sapendo anche che comunque non gli sarà dato di raggiungerlo. La pianura dà forma ad un’anima speculativa e bislacca, forzatamente obbligata a cercare dentro di sé quel riposo che le lontananze esterne gli negano, a inventarsi curiosità e il modo di soddisfarle. Hanno il passo lungo di pianura queste pagine, di quella pianura che è però ormai quasi un ricordo, quella che è ormai solo residuale, ma che ancora resiste, violata forse ma non arresa, perché il grande fiume è il genio sacro che la rigenera. Queste pagine sollecitano allora anche il ricordo di quel passo lungo di pianura e forse per questo possiedono un fascino strano e restio, difficile da cogliere ad una prima distratta occhiata, perché la verità è che a nulla conducono se non al passo stesso con il quale procedono.

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Franco Stelzer, “Ano di volpi argentate”

FRANCO STELZER – Ano di volpi argentate – Einaudi

ano di volpi argentate“Voglio dire questo, che quando ti penso, vedo una distesa di boschi. Voglio dire che, in un punto oscuro di quei boschi, esiste veramente lo sfintere di una volpe. Certo, quel muscolo ha qualcosa di tremante. Esso è una stretta rapida. E’ un pensiero oscuro. Esso si stringe o si allenta, a seconda del caso. Quando la volpe muore, per esempio, lo sfintere si allenta. Ora, quando guardo una distesa di boschi, e quando penso allo sfintere delle volpi, mi vieni in mente tu. Voi due siete un pensiero oscuro. Una rapida stretta. Siete qualcosa di tremante che, dal buio, invia segnali verso l’alto”.

Questa scrittura, il rumore di questa scrittura, l’ansito di questa scrittura, è una stretta rapida e un pensiero oscuro. Questa pagina che l’autore sceglie come introduzione ai suoi scritti e, presumo, come presentazione di sé in quanto scrittore, ha il potere di lavorare nel tempo, senza fretta, perché stupisce e attrae chi conosce l’oscurità e il tremore, il lettore che ad ogni nuova stretta si predispone a quel piacere sottile che è aspettativa ma anche glorioso superamento di ogni aspettativa. La scrittura di Stelzer, si potrebbe definire una prosa poetica, una narrativa contaminata, dall’andamento sinuoso e destrutturato, accenni di trama condotti sul filo dell’intuizione, che chiedono, chiamano la partecipazione del lettore, anzi, in un certo senso, la esigono.

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Paolo Volponi, “Memoriale”

PAOLO VOLPONI – Memoriale – Einaudi

memoriale volponi“L’ultima sera dell’anno cominciò a nevicare. Dalla parte del lago non si vedeva niente; si sentivano le anatre selvatiche: forse si mischiavano due branchi o si preparavano a partire. Insieme al loro grido sentivo ancora, fermo sul lago, il mio, perché la neve conserva i rumori e le tristezze, come la paura”.

Considerato un luminoso esempio della cosiddetta “letteratura industriale”, “Memoriale”, un romanzo che ha indubbiamente al suo centro la fabbrica e le modalità di vita e di rapporti umani che essa impone, contestualizzate negli anni del boom economico italiano, come tutte le opere geniali dello spirito e della creatività umane trascende ogni definizione o etichetta e, pur alludendo nell’ambientazione, in alcune tematiche, nella scelta di personaggi emblematici, nel racconto di alcuni avvenimenti genericamente riferibili ai rapporti di classe all’interno del mondo della produzione industriale, al rapporto tra l’uomo e le strutture produttive, spezza le barriere dell’incasellamento di genere e ne prende quasi le distanze, senza negarne validità o senso ma sopravanzandolo in complessità.

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Guido Morselli, “Dissipatio H.G.”

GUIDO MORSELLI – Dissipatio H.G. – Adelphi

Dissipatio H. G.“Sono andato a prenderla, la mia ragazza dall’occhio nero, mi sono ridisteso sul letto con lei. Ho premuto la bocca sulla sua, a lungo. L’ho sollecitata col dito, una prima volta. Non abbastanza a fondo. E una seconda volta, sempre con la bocca sulla sua. Non la terza, perché d’un tratto l’ombra mi ha avvolto. E la quiete”.

E’ con questa immagine così affascinante e variamente allusiva, oltre che squisitamente letteraria, che gioca con una pluralità di significati, mescolando e confondendo vita e morte, amplesso ed autodistruzione, che Morselli cattura, per sempre, l’attenzione e in un certo senso l’affezione del lettore, imprigionato tra le pagine di un libro che brilla, nella assurdità attraente dell’invenzione apocalittica che lo sostiene, di una lucidità intellettuale cristallina, consequenziale e inconfutabile. Si potrebbe anche aggiungere giocosa, se la consapevolezza dell’atto di autoannientamento con cui l’autore porrà termine alla sua vita non costringesse a scorgere tutta la gravità di cui è depositaria la “ragazza dall’occhio nero” nel momento in cui, fuoriuscita dal giardino della letteratura, mostra il suo volto reale.

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Maurizio Salabelle, “Il maestro Atomi”

MAURIZIO SALABELLE – Il maestro Atomi – COMIX

atomi“Ai piedi aveva le sue solite pantofole dalla stoffa a strisce nere e marroni, ma tutte inzuppate d’acqua fredda e con le suole di plastica senza più adesivo. Sulla punta di una delle ciabatte si era formata della schiuma che sibilava producendo delle grosse bolle. Nella mano destra, che teneva sospesa elegantemente, stringeva una copia del giornale che comprava ogni giorno sotto casa nostra”.

Bastano poche righe per ritrovarsi nel mondo bislacco di Salabelle, poche righe scelte assolutamente a caso da una delle sue pagine. E’ un mondo rifinito e in sé concluso, comprensibile a chi accetta di rivestirsi dei suoi stessi colori – comprensibile ed addirittura accattivante – ma i colori sono quelli dello sbigottimento costante, candido, ingenuo e accomodante, della pacifica e rassegnata accettazione delle infinite occasioni di disgusto che si celano nella quotidianità e della disponibilità assoluta all’azione, convinta ed energica, anche se l’azione ubbidisce ad una necessità incomprensibile, se prevede un dispendio di tempo e di energie eccessivo, soprattutto se rapportato alla completa insensatezza del risultato che si propone di ottenere. Si può fare l’abitudine al senso di straniamento fino al punto di entrare nella logica della illogicità e della più gratuita stramberia? E si può convivere con il disgusto fino al punto di avvertire, ben nascosto sotto i rivoltanti aspetti del reale che lo alimentano, una infinita tenerezza per la povera umanità afflitta dal bisogno, da ogni genere di quotidiano, elementare e persino banale bisogno? Deve essere possibile perché è ciò che avviene se ci si inoltra nella produzione di questo splendido e “ovviamente” quasi dimenticato scrittore italiano. All’interno della quale, in un modo tutto speciale, “Il maestro Atomi” costituisce una sorta di romanzo di formazione, o meglio una raccolta di racconti di formazione che rendono conto di alcuni episodi rivelatori dello stravagante apprendistato a cui l’alunno Attriti Luigi, quasi suo malgrado, è costretto a sottostare insieme ai suoi compagni, frequentando le lezioni di una scuola a dir poco bizzarra.

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Angelo Maria Ripellino, “Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento”

ANGELO MARIA RIPELLINO – Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento – Einaudi

il trucco e l'anima“Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un’effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell’acqua della memoria. Ripensando ai maestosi edifici-spettacoli costruiti da grandi registi, vien voglia di chiedere, come nelle danze macabre del Barocco: dove sei, Mejerchòl’d? dove sei, Stanislavskij? Che resta, se non uno stridulo “cliquetis” di parole? Restano scheletri di partiture, stinte fotografie, lingue ingiallite di ritagli, e testimonianze (non sempre attendibili)”.

Si stenta a credere che un libro simile possa essere stato scritto, perché quello che si propone di fare – e che in effetti fa – sembrerebbe un compito impossibile: richiamare in vita fantasmi dimenticati, ridare loro spessore e visibilità per metterli a disposizione della conoscenza e della ammirazione delle presenti e future generazioni. Un libro simile richiede l’opera di uno studioso competente, capace di andare a scovare le fonti più adatte, ma anche appassionato, in qualche modo in sintonia quanto a intelligenza e sensibilità con il suo oggetto di studio e, non ultimo, dotato di uno stile che sappia trasformare il saggio in opera letteraria. Insomma questo libro è l’esito felice di un incontro perfetto. Ripellino si propone di indagare, anzi di riesumare, l’essenza del teatro russo dei primi trent’anni del Novecento, cioè di una stagione felice, “epoca d’oro dell’arte del mettere in scena”, accettando di affrontare l’arduo compito di dare conto dell’effimero, di ciò che, frutto di cultura, creatività e ingegno, è però destinato a durare per un tempo limitato e circoscritto dal numero delle rappresentazioni, e per quello aleatorio, legato alla memoria degli spettatori e per questo destinato a ridursi fatalmente.

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Maurizio Salabelle, “La famiglia che perse tempo”

MAURIZIO SALABELLE – La famiglia che perse tempo – Quodlibet

copertina_salabelle_b“Abbiamo solo cambiato casa trasferendoci dirimpetto, – sentenziò durante una cena nella quale eravamo tutti annoiati – eppure, come se si fosse verificato un rivolgimento tellurico, vediamo tutto secondo un altro punto di vista. Ciò dovrebbe indurci a riflettere, farci rendere conto dell’assoluta relatività di ogni visione del mondo”.

Con questo romanzo vede la luce la creatura letteraria di Salabelle, un essere talmente disarmato e disarmante da suscitare fin da subito una disperata affezione nel lettore che, pagina dopo pagina, si ritrova in bilico tra lo sconcerto per la sua inconcludente inettitudine, la risata per la irresistibile comicità delle situazioni che lo vedono coinvolto e l’irrimediabile pena, con tanto di stretta al cuore, per quella sua esibita incapacità di districarsi tra le inezie del quotidiano, per quello stupito candore con cui osserva il mondo. E considerando quel suo essere uno zero, uno zero spaccato, una nullità, come non pensare agli antieroi di Robert Walser, all’aria delle “regioni inferiori” che essi respirano, alla dismissione, alla resa, al loro chiamarsi fuori dalla lotta per la sopravvivenza, per il riconoscimento sociale, l’apprezzamento, il prestigio, per la realizzazione di sé; come non avvertire l’impressione liberatoria di una atmosfera straniante e allucinata, ma appena di un passo fuori dalla mischia, di una dimensione insomma insieme vagamente familiare e del tutto inedita e stupefacente?

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Romano Bilenchi, “Conservatorio di Santa Teresa”

ROMANO BILENCHI – Conservatorio di Santa Teresa – BUR

“Anche Santa Teresa con i suoi cortili silenziosi sfumava dolcemente nel suo ricordo. Immaginò di essersi definitivamente staccato da tutte le vicende che avevano formato la sua vita fino ad allora. Credette che senza di lui tutte quelle persone, gli alberi, gli stessi edifici nei quali viveva e che gli erano familiari avrebbero vissuto un’esistenza migliore e più libera”.

“Conservatorio di Santa Teresa” è un libro denso, densissimo; ogni suo capitolo possiede un peso specifico tale che lo rende illusoriamente ben più esteso dei tempi narrativi che lo delimitano e indispensabile nell’economia del romanzo, per quell’accumularsi di avventure della percezione che –  al di là dell’intreccio – ne costituiscono la sostanza. Avventure della percezione e non della crescita, perché ciò che rende avvincente questo romanzo – che pure ripercorre il passaggio dall’infanzia all’adolescenza del giovane protagonista – non sono gli accadimenti, ma il continuo, ininterrotto accumularsi di sensazioni, le infinite e mutevoli reazioni che, con una intensità e una frequenza esasperante ma al contempo affascinante, il contatto con il mondo esterno provoca nell’animo del protagonista, componendo nella sua memoria interiore, straordinariamente recettiva, un disegno sempre più complesso, confuso e contraddittorio. Bilenchi costringe il lettore a seguire questo percorso che è denso di scarti improvvisi, colpi di scena, soluzioni impreviste, di tutto ciò che si potrebbe definire avventura, se non fosse tutto chiuso all’interno di un’anima – e un’anima bambina – che è una sorta di tabula rasa che va rapidamente accumulando tutto ciò che dovrebbe servirle a farsi un’idea coerente e rassicurante del mondo, ma che in realtà contribuisce ad una sempre più raffinata esperienza di una irriducibile estraneità.

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