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letteratura ceca

Fuks, “Il Signor Theodor Mundstock”

LADISLAV FUKS – “Il Signor Theodor Mundstock”- Einaudi

“..Si tratta di un uomo smunto, con le guance grigie e gli occhi immobili rivolti in preghiera verso il cielo. La stella gialla degli ebrei cucita sul cappotto azzurro scuro è ricoperta di polvere, ma stranamente non reca tracce di sangue. La mano di qualcuno tra la folla chinata sull’uomo spolvera la stella, come se volesse far credere agli altri che cerca di scoprire l’identità del morto, e qualcuno quasi impercettibilmente mormora Yisgadal veyiskadash shmé rabbo, sia magnificato e santificato il Suo nome grande…”

Apparso nel 1963, e ambientato nella Praga dell’occupazione nazista, questo romanzo ha proiettato Ladislav Fuks alla ribalta della narrativa ceca del dopoguerra. Descrivendo in chiave paradossale e grottesca, quasi espressionistica, gli ultimi mesi di vita di un piccolo ebreo, il Signor Mundstock, pavido e sensibile antieroe, Fuks trasmette l’angoscia, tutta kafkiana, di una esistenza dominata dalla dimensione della paura e dai complessi di colpa.

Il Signor Mundstock è un uomo che scivola inosservato per le stradine e i viali della vecchia Praga in un brumoso autunno del 1941. Si comporta come un individuo sospetto, ma è un’anima semplice, un sognatore e, a tratti, un uomo ridicolo. In realtà si tratta di un ex procuratore di una ditta che produce canapa, corde e fili, costretto dalle leggi razziali a spazzare le vie cittadine, un ebreo praghese che vive in attesa della convocazione per il campo di concentramento.

Fuks, seguendo i passi del suo protagonista, riesce a spalancare la porta sulla dimensione metafisica della paura e a descriverla in tutte le sue parossistiche variazioni. Mundstock esorcizza l’attesa snervante della convocazione sdoppiandosi in una proiezione schizofrenica – l’ombra Mon – che sguscia dal buio per dialogare con il suo doppio e per smontare pezzo per pezzo tutte le deliranti illusioni con cui quest’ultimo cerca di allontanare l’evidenza della tragedia che sta per compiersi.

Le pagine allucinate di questo grande romanzo si alternano ad altre giocate sul registro della commozione, quando il suo autore ci fa entrare negli affetti con cui il Signor Mundstock cerca di riempire il vuoto di una vita solitaria. Quest’uomo, che pare una insignificante comparsa sul palcoscenico della tragedia dell’olocausto, vive in simbiosi con una gallinella allevata amorosamente nel suo stesso appartamento, riversando sull’animale il suo bisogno di calore umano. In realtà egli rifiuta contatti umani più profondi perché è paralizzato dall’angoscia per ciò che sta per accadere, è straziato dalla tenerezza per i suoi amici più cari, mima la vita che non sa vivere alimentando con il ricordo un passato asfittico, intessuto di gesti e sentimenti abortiti sul nascere.

Alla fine il Signor Mundstock trova una soluzione, un modo per sopportare meglio l’angoscia, per non essere più vittima degli eventi, per sottrarsi al presente: inventa il “metodo”, un cerimoniale minuzioso finalizzato ad eludere mentalmente la spaventosa prova. Il tratto caratteristico di Fuks consiste infatti nel rovesciare le prospettive, mettendo in campo un’umanità che vede il disastro, ma possiede anche una incontenibile disposizione al rimedio, alla razionalizzazione, all’accomodamento, tanto da finire nelle cadenze del comico, del patetico e del grottesco, prima di andare incontro alla tragedia. Il Signor Mundstock, in compagnia della sua gallina e della sua gentilezza, dopo aver compiuto un’infinità di esercizi di preparazione e di esorcizzazione (dorme su una panca per abituarsi al lager), dopo aver saggiato numerosi percorsi pratici e mentali (se un ebreo prende le botte da degli “squilibrati in divisa”, per esempio, secondo lui, può mettersi dei denti finti in bocca e sputarli all’occorrenza per evitare altre percosse) e dopo aver subito una propedeutica squalifica sociale per abituarsi alle umiliazioni, si avvia, alla fine, da solo, nel luogo di ritrovo in cui tutto sarà perduto. Tuttavia il dono di un cuore puro, nell’accezione talmudica del termine, se anche precipita Mundstock, con sventatezza inconsapevole, verso un epilogo fulminante e straziante, ne riscatta la marginalità. L’assurdo tragico del personaggio diventa atto d’accusa nei confronti di un mondo sigillato nell’opaca crudeltà dei carnefici e nell’ineluttabile rassegnazione delle vittime.

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Francecsco Luigi Bovi
Francecsco Luigi Bovi
11 years ago

Spero un giorno di poter capire il motivo – se mai c’è stato – per il quale l’Angelo Maria Ripellino (“Slavista! Mi gridano donne con frappe sul capo …”) si decise a farci conoscere il secondo romanzo del Fuks (Spalovač mrtvol, Praha, 1967; trad. it. Il Bruciacadaveri, Einaudi, 1972) anziché riportarci subito dalla magica Praga, a mo’ di chicca-souvenir, questa opera prima espressionista e tenebrosa come un fondale del Caligari di Wiene, ma che l’italietta editoriale avrebbe poi ‘scoperto’ solo nel 1997. Come anche, avrei preferito non dover aspettare gli anni ottanta per conoscere la “Leggerezza” del Kundera e sentire certe sentenze che ne denunciavano già la pubblica mistificazione: “È dunque uno scrittore ceco con una memoria boema e una prospettiva europea” (cfr. Sergio Corduas, L’Indice 1985, n. 5). E peggio ancora dover assistere al suo successo in libreria e conseguente rimpinguamento delle casse dell’Adelphi, addirittura per effetto di quel tormentone lanciato da Roberto D’Agostino nel salotto di “Quelli della notte” (cfr. Alessandro Catalano, Invisibile suo malgrado: note sulla letteratura ceca, in “l’immaginazione”, 2001 XVIII, 179 luglio-agosto, pp 1-2). Non ho potuto fare altro, dunque, che attenermi doverosamente alla lettura della tragica storia del Signor Mundstock nelle condizioni spazio-temporali dell’hic et nunc e sentendomi terribilmente orfano del prezioso introibo ripelliniano che mi avrebbe reso di sicuro fortunato spettatore, sebbene postumo, di quella splendida stagione culturale che fu la Primavera di Praga, conclusasi con l’arrivo dei carri armati sovietici in una notte d’agosto del ’68.
Cosicché, non potendo rifare la storia con protasi e apodasi ed errando solingo per le pagine fuksiane, ho effettuato un primo carotaggio del testo sulla base del quale mi son creduto autorizzato a leggere subito nel destino persecutorio del Signor Mundstock un ‘continuum’ con il dramma del popolo boemo, costretto a subire nuovamente la presenza di altri “pazzoidi in divisa” per le strade della città vltavina. Non ti nascondo, però, cara Anna, che non ho potuto fare a meno di ricorerre alle tue coordinate letterarie, seguendole pedissequamente per addentrarmi nell’introspezione del ‘carattere’ del protagonista. Mi resta, tuttavia, qualche interrogativo, a cui non saprei dare una risposta senza il tuo provvidenziale aiuto: riguardo alla ‘poetica’ del Fuks, ad esempio, si potrebbe affermare che essa deriva dall’interazione tra il regime poliziesco proprio degli anni del culto stalinista e la tradizione surrealista praghese (v. Nezval)? Inoltre, a quale tipologia di ‘pubblico’ di lettori poteva rivolgersi nel 1963 questa rievocazione metafisica e parecchio “kafkoide” dell’olocausto?
Sarebbe stato mio intendimento porti queste domande non prima di aver letto “Il Bruciacadaveri” (e sempre scortato dalle tue impressioni critico-letterarie qui pubblicate nel novembre scorso), ma non sono riuscito finora a reperirne alcuna copia sul mercato dei libri usati, neanche attraverso il web – a meno che non mi rivolga ad un “Antikvariát” di Praga per ordinarne una scollacciata prima edizione in ceco. Ciò dimostra che nessuno ha pensato fino ad oggi di disfarsi di questo prezioso ‘corallo’ einaudiano con la prefazione del Ripellino (“Slavista! Mi assalgono omini violacei …”), d’altra parte non è mica un Pocket Penguins!

Qries