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letteratura portoghese

José Saramago, “L’anno della morte di Ricardo Reis”

JOSÉ SARAMAGO – L’anno della morte di Ricardo Reis – Feltrinelli

Asterusher

“Quella sera, ormai tardi, Ricardo Reis scrisse alcuni versi, Come pietre che sul bordo delle aiuole mette il fato, e lì restiamo, questo solo, più tardi avrebbe visto se da così poco sarebbe riuscito a ricavarne un’ode, per continuare a dare questo nome a composizioni poetiche che nessuno saprebbe cantare, ma erano poi cantabili, e con che musica, com’erano state quelle dei greci, ai tempi loro. Vi aggiunse ancora, mezz’ora dopo, Compiamo ciò che siamo, nulla di più ci è dato, e scostò il foglio di carta, mormorando, Quante volte l’avrò già scritto in altri modi”.

Che il poeta portoghese Fernando Pessoa costituisca insieme ai suoi eteronimi una moltitudine, “una sola moltitudine”, è noto a tutti i suoi lettori ed estimatori. E che questa moltitudine sia in realtà una costellazione poetica che cerca tutte le strade possibili per dire ciò a cui una sola voce potrebbe a stento tentare di avvicinarsi è altrettanto noto a chi legge la straordinaria quantità di versi che la compongono, ritrovandosi sul limitare di sensazioni anch’esse multiple e non sempre facilmente definibili che oscillano tra una insopprimibile pena, una commossa condivisione e un senso di vertigine per effetto della lucidità e della profondità con le quali essi vanno tratteggiando il ritratto interiore di una individualità capace di osservarsi con disillusione e disincanto, senza però mai banalizzare se stessa e quel groviglio interiore che è insieme la sua ricchezza e la sua dannazione.

Se poi si ha la ventura, e la fortuna, di essere continuamente e nuovamente irretiti da questa costellazione, da lei nuovamente attratti, grazie alle opere di altri scrittori, ci si accorge che alcuni universi poetici, ma a ben vedere probabilmente tutti, possiedono la caratteristica della inesauribilità, qualità dall’immenso valore nel mondo letterario e non. Penso all’inestimabile lavoro di Antonio Tabucchi che ha permesso al lettore italiano di conoscere Pessoa poeta ortonimo e le altre voci dei suoi eteronimi, traducendo e pubblicando le raccolte “Una sola moltitudine, vol I e II”, le “Poesie di Álvaro de Campos” e “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares”, ma anche scrivendo quel “delirio”, così lui stesso lo definisce, che costituisce il tenerissimo e delizioso racconto dal titolo “Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa”, in cui l’autore immagina che il 28, 29 e 30 novembre del 1935 tutti gli eteronimi del poeta – il signor Manacés, Carlos Eugénio Moitinho de Almeida, Coelho Pacheco, Álvaro de Campo, Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Bernardo Soares e António Mora – si raccolgano intorno al suo letto di morte per porgergli l’estremo saluto.

Ma dieci anni prima, nel 1984, anche il grande scrittore portoghese, José Saramago, non si era sottratto al fascino di quella moltitudine di voci e ne aveva scelta una, quella di Ricardo Reis, per farla sopravvivere, anche se per poco, a quella del suo creatore. Da questa fascinazione è nato un romanzo potentissimo, dove verità e finzione, storia e invenzione si mescolano con una naturalezza estrema tanto che potrebbero prendere l’una il posto dell’altra, e forse lo fanno senza che il povero lettore se ne accorga; un romanzo che ha come protagonista un eteronimo, cioè un’identità fittizia – d’altra parte, come recita un verso di Pessoa “il poeta è un fingitore” – e come coprotagonista un fantasma – quello del poeta stesso – e che pure possiede una densità e una tangibilità che rende ogni pagina, ma addirittura ogni riga, stracolma di concrete tracce di vita, perché tutto qui trabocca e trasuda e si contiene a fatica. Lisbona – una straordinaria e davvero magica Lisbona – la pioggia che rabbuia l’universo e invita alla vertigine dello sguardo interiore, la fine della vita, appena oltrepassata e che si approssima, la poesia che insinuante persegue i giochi della parola, la tenerezza nata tra i corpi di un uomo e di una donna che sta per diventare comunione di anime, e la tenerezza nata tra due anime che sta per traboccare nella comunione di due corpi – l’amore insomma e le segrete vie che ad esso conducono – sono alcuni degli ingredienti al contempo così disperatamente umani ma anche così sfuggenti e rarefatti che contribuiscono a tratteggiare l’atmosfera davvero unica di questo romanzo.

D’altra parte il fascino che pervade le personalità multiple che compongono l’universo di Pessoa e l’altissimo livello della loro produzione poetica, così diversamente caratterizzata al punto che si stenta ad attribuirla ad un’unica seppur complessa individualità, non poteva sfuggire ad uno scrittore come Saramago, così appassionatamente curioso dell’animo umano e così partecipe e pietoso osservatore del suo dibattersi sul palcoscenico della sua vita interiore e su quello ben più ampio e indifferente della storia. Certo che il Ricardo Reis che vive in queste pagine acquista per il lettore una concretezza sempre più tangibile: da eteronimo, emanazione mentale di Pessoa, si fa personaggio, e da personaggio persona reale, perché al termine della lettura sarà poi per sempre naturale per il lettore attribuire il suo aspetto, la sua personalità, i suoi pensieri, il suo modo di stare al mondo, di sopportare la fatica di stare al mondo, a quelli del poeta stesso che l’ha creato. Così Saramago non gli rende solo uno straordinario omaggio, ma in qualche modo risolve e porta a compimento un’operazione che non è solo mentale, ma anche intima e affettiva, compone uno sdoppiamento, riporta Ricardo Reis alla sua origine, facendolo nuovamente coincidere con quella individualità, così ricca da non riuscire a contenere se stessa, da cui lui e gli altri eteronimi sono stati generati. “Non so chi sono, che anima ho. Quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo. Sono variamente altro da un io che non so se esiste (o se è quegli altri). Sento fedi che non ho. Mi prendono ansie che ripudio. La mia perpetua attenzione su di me perpetuamente mi indica tradimenti d’anima di un carattere che forse non ho, e che neppure essa crede che io abbia. Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti. Come il panteista si sente albero e addirittura fiore, io mi sento vari esseri. Mi sento vivere vite altrui, in me, incompletamente, come se il mio essere partecipasse di tutti gli uomini, in una somma di non-io sintetizzati in un io posticcio”, così scrive nel 1915 Pessoa in uno dei suoi appunti sparsi riportati da Tabucchi nel primo volume di “Una sola moltitudine”.

Ricardo Reis è uno degli esseri generati da questa molteplicità, una di quelle vite altrui che Pessoa si sente vivere. E la sua esistenza è talmente forte e reale da presupporre una biografia che sempre Tabucchi ricava dagli scritti del poeta e riporta insieme a quelle degli altri eteronimi in appendice a “Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa”: “Ricardo Reis nacque a Oporto il 19 settembre 1887 e fu educato in un collegio di gesuiti. Era medico, ma non sappiamo se si servì della sua professione per vivere. Dopo l’instaurazione della Repubblica portoghese si ritirò in esilio in Brasile per le sue idee monarchiche. Fu un poeta sensista, materialista e classico”. Secondo Pessoa, Reis era “latinista per educazione altrui e semiellenista per educazione propria”, era un poeta ma anche un filosofo, una sorta di epicureo malinconico, alieno da ogni eccesso nel dolore e nel piacere che cercava di darsi l’illusione della calma, della libertà e della felicità impossibili, che voleva essere l’incarnazione dell’equilibrio, del dominio sicuro delle passioni e della serena accettazione del proprio destino. Sono informazioni sulla sua poetica riportate da Libero Corsi nell’introduzione al volume da lui curato “Odi di Ricardo Reis”, pubblicato nelle Edizioni La Vita Felice, che offre al lettore italiano la possibilità di leggere in traduzione una parte significativa e rappresentativa di tale produzione.

Saramago raccoglie dunque questa sola moltitudine e la fa propria e, così facendo, aggiunge un’altra voce al coro, la sua. Sì perché nelle pagine del romanzo la presenza dello scrittore si avverte e, se non è predominante, ciò dipende solo dalla grandezza del poeta che in esse si muove e dalla evidente venerazione che l’autore dimostra nei suoi confronti. La sua voce è uno stile narrativo immediatamente riconoscibile, un narrare sussurrato, una sorta di continuo chiacchiericcio monocorde, un sottile rumore, come direbbe Manganelli che, se non raggiunge toni più alti, se non arriva mai allo strepito, non accenna però nemmeno mai a spegnersi o a sostare, indipendentemente da ciò su cui si posa. Nulla lo deve fermare e così citazioni o discorsi diretti o incisi non spezzano mai il ritmo di una prosa che è quasi unicamente scandita da un uso della virgola che il lettore di Saramago ben conosce e a cui si deve abituare chi realmente voglia imparare ad apprezzarlo. La sua voce è il modo in cui dissemina la sua prosa di poesia rendendola cantante ed armoniosa, perché il suo Ricardo Reis, mentre vive, va componendo di tanto in tanto i versi delle sue odi, ma lo fa d’impulso, in modo frammentario, appuntandosi qua e là delle parole che si vanno ad ordinare quasi da sé nei metri classici che lui predilige. E, soprattutto, lo fa usufruendo di una serie infinita di citazioni indirette tratte dall’intera opera poetica di Pessoa che riecheggiano tra le righe rendendole oltremodo suggestive ed anche enigmatiche perché invitano al riconoscimento, rappresentano una sfida al riconoscimento e sembra quasi di avvertire lo sguardo arguto e un po’ malizioso di Saramago che fissa il lettore e attende che in lui si illumini la consapevolezza di aver già letto parole simili, forse nelle poesie ortonime, o forse in quelle di Alvaro de Campos o nel diario di Bernardo Soares: “L’hai detto tu che il poeta è un fingitore, io lo confesso, sono intuizioni che ci escono di bocca senza sapere che strada abbiamo fatto per raggiungerle, il peggio è che sono morto senza aver capito se è il poeta che si finge uomo o l’uomo che si finge poeta, Fingere e fingersi non è lo stesso”, “Solo una vaga pena inconseguente indugia un poco alla porta del mio animo e dopo avermi un attimo fissato passa, sorridendo di nulla, ha mormorato”, “Il male peggiore è che l’uomo non possa stare sull’orizzonte che vede, sebbene, qualora vi si trovasse, desidererebbe stare sull’orizzonte che è, E’ la barca su cui non andiamo che sarebbe la barca del nostro viaggio, Ah, ogni molo, E’ una nostalgia di pietra”, “Fra ciò che vivo e la vita, fra chi mi trovo e sono, dormo in una discesa, discesa per cui non vado”, “La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice”, “Non dimenticare che tutte le lettere d’amore sono ridicole, questo è ciò che si scrive quando la morte sta già salendo le scale, quando diventa all’improvviso chiaro che veramente ridicolo è il non aver ricevuto mai una lettera d’amore”, e via di seguito…

Infine, la voce di Saramago risiede nell’invenzione da cui il romanzo trae origine e senso, suggestiva, arguta, spiazzante e avvincente come sono sempre le trame dello scrittore portoghese: Fernando Pessoa muore a Lisbona il 30 novembre 1935 e per questo, circa un mese dopo, Ricardo Reis torna dal Brasile dopo sedici anni di assenza per stabilirsi nella stessa città e, sono parole sue, “restare qui, vivendo della medicina, scrivendo versi, invecchiando, occupando, in un certo senso, il posto dell’altro che era morto, anche se nessuno si sarebbe accorto della sostituzione”. Saramago regala quindi a Reis otto mesi di vita autonoma, ma anche la straordinaria possibilità di incontrare lo stesso Pessoa che, essendo morto, può però ancora mostrarsi ai vivi per circa nove mesi, il tempo esatto della gestazione di una nuova creatura, il tempo durante il quale la nuova vita esiste ma non può ancora mostrarsi ai vivi. Un incontro sul limitare, nel tempo irripetibile in cui la morte sta per iniziare e la vita sta per finire, perché alla scadenza dei nove mesi, quando la morte di Pessoa sarà definitiva, anche la vita di Reis, necessariamente, finirà.

Gli eventi del romanzo sono scanditi da questi incontri, una decina circa, che si potrebbero chiamare apparizioni se la naturalezza con cui avvengono non facesse scordare la natura eterea di uno dei due personaggi e la realtà fittizia dell’altro. I colloqui tra i due sono una specie di lezione drammatizzata, un’immersione in profondità che conduce al cuore più intimo della personalità, della poetica, della sensibilità pessoana, della sua mente forse troppo lucida. Pessoa che si guardava vivere, lo fa ancora nelle pagine di Saramago guardando vivere quella parte di sé che è Ricardo Reis, e lo può fare parlando con lui, ascoltandolo come se ascoltasse se stesso e può anche provare per se stesso comprensione, affetto e pena. La materia è ardua, la prova difficile, l’esito decisamente esaltante, non solo perché Saramago è un narratore esperto e raffinato, ma anche perché mette in campo una straordinaria conoscenza delle opere del poeta unita ad una evidente ammirazione e comprensione umana nei suoi confronti. E anche perché mentre Pessoa e Reis si guardano l’un l’altro, Saramago stesso li guarda “con un sorriso a mezzo tra ironia e tristezza” e invita il lettore a guardare se stesso e il mondo con lo stesso sguardo.

Tutto questo potrebbe essere addirittura troppo per un unico romanzo ma “L’anno della morte di Ricardo Reis” è anche molto altro. E’ un luogo e un tempo ben precisi. Il luogo è Lisbona e il tempo è l’anno 1936. Lisbona, “città come una cicatrice bruciata, circondata da un terremoto, lacrima che non secca e senza una mano che la asciughi”. Ricardo Reis, negli otto mesi che gli sono concessi, percorre Lisbona con gli stessi occhi con cui il viaggiatore percorre il Portogallo nel bellissimo libro di Saramago “Viaggio in Portogallo”, consapevole che “il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono”. Ci si potrebbe armare di penna e di pazienza e prendere nota degli infiniti tragitti che l’autore ci fa compiere attraverso la città, delle strade e delle piazze, dei monumenti, dei locali, dei teatri e delle sale cinematografiche e ricavarne così una guida accurata per scoprire la città, che comunque non basterebbe perché per arrivare a capire che “Lisbona è un gran silenzio che rumoreggia, niente più”, per capirne davvero l’anima bisognerebbe attenersi alla raccomandazione contenuta nell’ultima pagina di “Viaggio in Portogallo”: “Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva […] Bisogna tornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre”.

Infine l’anno, quel 1936 così importante da essere protagonista indiscusso del titolo del romanzo. L’espediente che origina la trama, quegli otto mesi di vita regalati a Ricardo Reis sono ampiamente sufficienti per farlo assistere agli avvenimenti che coinvolgono il Portogallo e l’intera Europa in quel terribile anno: la dittatura di Salazar e la sua ideale alleanza con il nazismo e il fascismo, la guerra civile spagnola e il falangismo, l’Anschluss e la guerra di Etiopia. Vede sotto ai suoi occhi come il mondo sta cambiando o lo apprende dalla lettura dei giornali, sua occupazione immancabile, e, come suo solito, si limita a registrare le novità con una sorta di imperturbabile saggezza appena venata di ironia: “Ricardo Reis si sorprende di non riconoscere in sé alcun sentimento, forse è questo il destino, sapere quello che succederà, sapere che non c’è nulla che lo possa evitare, e restarsene tranquilli, a guardare, come semplici spettatori dello spettacolo del mondo, e intanto immaginare che questo sarà anche il nostro ultimo sguardo, perché insieme al mondo finiremo”. Ma le pagine dedicate all’affermarsi delle dittature e ai tempi oscuri che si vanno preparando per l’Europa e per il mondo si vanno nel romanzo via via intensificando di pari passo con il lento e quasi impercettibile svanire dell’ombra di Pessoa e con l’avvicinarsi di Ricardo Reis ai suoi ultimi giorni di vita. E mentre lentamente svanisce quell’aura di sommessa poesia che ha pervaso fin dall’inizio il romanzo, quella che si leva sempre più forte è la voce di Saramago, intelligente, ironica, derisoria, che assurge a denuncia della stoltezza di chi fa del potere l’unica ragione di vita trascinando i popoli verso la rovina. Poi, così com’era iniziato, il romanzo si conclude, come un cerchio che si chiude, con due versi che naturalmente si collegano e si compongono: “Qui il mare finisce e la terra comincia./ Qui, dove il mare è finito e la terra attende”.

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giacinta
6 years ago

“La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi”. Com’è vero!

Grazie per la bella lettura che mi ha riportato ai giorni, lontani forse più di vent’anni, in cui Ricardo Reis mi faceva compagnia. Del libro ricordo solo un dettaglio, un albergo, e poi naturalmente l’impressione che lasciano molti libri di Saramago, quella di una dimensione latente, non vista, che viene alla luce, che prende consistenza anche se effimera.

ilcollezionistadiletture

Il tuo suggestivo e plurimo commento, plurimo nelle evocazioni e nelle indicazioni che contiene, ma anche per la “multipla moltitudine” di Pessoa a cui rimanda, non poteva non farmi tornare a quello che è stato e resta il mio incontro con Pessoa e cioè “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares”, quel Bernardo Soares che compone la grande costellazione degli eteronimi di Pessoa.
Creando gli eteronimi Pessoa si svuota, si annulla, scompare e rinasce multiplo e plurimo in una molteplicità di io e di identità, che gli consentono di esprimere una varietà incredibile di figure e di esperienze che si fanno personaggi letterari, ma anche consentono di dare voce a una pluralità di anime poetiche che Pessoa possedeva e conteneva in sé.
Annullarsi quindi per liberarsi dall’illusione del raggiungimento di una verità su di sé, comunque destinata a restare frantumata e dispersa, nebulosa e indecifrabile, creando una immedesimazione in altri sé più potenti del suo proprio sé, perché nella parzialità e nella finzione in cui vivono sono liberi di esprimersi senza alcuna finzione.
Fa dire Pessoa a Bernardo Soares al Fr. 147 de “Il libro dell’inquietudine”: “Conoscersi significa errare e l’oracolo che ha detto “Conosci te stesso” ha proposto un compito più grave delle fatiche di Ercole e un enigma più oscuro di quello della Sfinge. Disconoscersi consapevolmente: questa è la strada”.
Ed è in questo disconoscimento consapevole che si muove Pessoa che gli consente, annullando la propria coscienza di sé, consapevole della sua illusoria unità e unitarietà, di liberarla nel sogno, nella creazione, nella bellezza della poesia e, in questo modo, di proteggere quella coscienza e di nutrirla nella e della sua diversità.
Come Pessoa stesso dice in quello splendido incipit di “Tabaccheria”, una delle più belle poesie del ‘900:

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.”

Grazie di avermi fatto ritrovare Pessoa e la sua poesia.

ilcollezionistadiletture

“Ma potrebbe mai vibrare qualche anima con le mie parole? Le ascolta qualcuno al di fuori di me?” ( Fr. 62 de “Il libro dell’inquietudine”)

Sogno che da qualche parte ci stia ascoltando.

Grazie a te Anna.

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