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letteratura ceca

Baum, “La porta verso l’impossibile”

OSKAR BAUM – “La porta verso l’impossibile” – SILVY edizioni

“Ognuno sconta le colpe di tutti”

Inevitabile per chi ama Kafka leggere il libro del suo amico Oskar Baum, che la nuova e interessantissima casa editrice SILVY sceglie di pubblicare in traduzione italiana come primo volume del suo catalogo, che già propone agli appassionati di cultura e letteratura mitteleuropea una scelta preziosa di testi. Ho letto questo libro cercando di evitare la tentazione ingiusta del confronto con Kafka, ma cedendo spesso e volentieri alla suggestione derivante dalla consapevolezza che queste pagine sono state da lui tanto apprezzate. Il fatto che i temi del romanzo siano la colpa, la pena, il sacrificio, la punizione, la redenzione, l’impossibilità di infrangere l’ipocrisia su cui la società si regge, la solitudine a cui è condannato chi non si adegua alla morale comune, il pericolo della strumentalizzazione e dell’annullamento dell’individuo prigioniero negli ingranaggi sociali, tutto ciò fa pensare naturalmente e in modo quasi obbligato alle tematiche e alla trama de “Il processo”.

Non so stabilire con certezza i rapporti cronologici tra i due testi, anche se sicuramente il romanzo “La porta verso l’impossibile”, pubblicato nel 1919, era già stato letto nel 1911 da Kafka che ne parla entusiasticamente all’amico in una lettera della primavera di quell’anno, mentre è noto che l’inizio della stesura de “Il processo” risale all’agosto del 1914. E’ comunque probabile che questi fossero alcuni dei temi dibattuti in quel “Circolo di Praga ristretto” di cui entrambi gli amici facevano parte, che di questo tipo di spiritualità entrambi si nutrissero. Kafka costruisce un romanzo il cui protagonista viene incarcerato e subisce un processo per una colpa a lui sconosciuta e Baum, specularmente, racconta la vicenda di un uomo che viene incarcerato perché confessa un crimine che in realtà non ha commesso. Restano entrambe, nel loro dipanarsi, vicende interiori, intime, quasi la concretizzazione di un pensiero che si dibatte e si rende oggettivo, si incarna in personaggi, si colloca in ambienti (prevalentemente interni), ma che mantiene le sue caratteristiche originarie di astrattezza. Pensieri che nascono, come dice Kafka, “nell’angolo di una stanza dove si sta dimenticati e si può partecipare tanto più intensamente a tutti gli avvenimenti”, così congeniali al grande scrittore e, nel caso di Oskar Baum, derivanti, anche, dalla sua cecità, che forse è all’origine della sua scrittura così “rarefatta”, spesso cerebrale, anche se costellata da personaggi che appaiono come sogni o visioni. Di sicuro l’alto funzionario Krastik, che vive solo, fa un lavoro d’ufficio che odia, ama senza speranza la bella e infelice Helrit, è un personaggio perfetto per assumersi il ruolo dell’individuo che prende su di sé le colpe del mondo, che trova ragione d’essere nel ruolo del capro espiatorio (e qui si rivela la spiritualità ebraica di Baum) e che difende fino alla fine questo suo ruolo, a dispetto del mondo e delle sue leggi, persino a dispetto della logica. Trovo l’incipit del romanzo e, nel complesso, i primi due capitoli, memorabili. Baum conduce il lettore con estrema abilità nel cuore assurdo della vicenda, usando l’allusione e gestendo dialoghi densi di sottintesi e del tutto privi di reale comunicazione. Non c’è infatti possibilità di intesa tra chi si sente colpevole e vuole espiare la sua colpa, ma non riesce a dimostrarla, e chi è innocente, ma vuole essere creduto colpevole. Il lettore viene trasportato in un mondo assurdo, o meglio, che ubbidisce ad una logica assurda ma rigorosa, che si apre, anche, in lampi di grande profondità: “Deve esserle indifferente chi sia a sopportare la pena, come a me è indifferente chi sia ad avere la colpa. Esiste solo un’infelicità per tutti, e gli uomini la sopportano a turno.” Si delinea persino la ribellione nei confronti dell’arbitrio divino, che decide come distribuire le sofferenze, al quale si contrappone l’arbitrio umano, che è in grado di decidere il sacrificio di sé per gli altri. Il sacrificio, come ribellione, ma anche come possibilità di dare senso ad una vita altrimenti insensata: “Pensa veramente che dovrebbe essere per me più importante il riprendere a fare quattro volte al giorno la strada per l’ufficio, e in mezzo leggere, rispondere, firmare lettere di estranei ad estranei su miserabili e infruttuose questioni, per poter guadagnare tanti soldi al mese che mi consentano di poter proseguire questo lavoro? Imbrigliato senza salvezza in questo riempire e sfogliare, con voci in entrata e in uscita, le pagine dei giorni? Lavoro privo di alcun senso, salvo quello della prosecuzione di questo lavoro privo di senso, avanti, avanti all’infinito. Oh! – se si trovasse una fede, un grande anelito al cambiamento di questa morte orribilmente viva! – cadaveri in movimento! Realtà sepolta! Nascosta dietro misconosciute maschere di paura e desiderio! Laddove solo si mostra, essa viene respinta come eccessiva, quanto meno come troppo faticosa!”. Poi la vicenda diventa pubblica e la struttura del romanzo si fa sempre più complessa; pagina dopo pagina, l’azione si perde, immersa in ragionamenti sempre più verbosi, si offusca e perde quella immediatezza quasi cinematografica delle prime scene. Rimangono però nella memoria frasi musicali, quadri di grande intensità, che si aprono improvvisi, come questo, che riporta i passi del lettore in una piovosa Praga notturna: “Bagliori di crepuscolo di erte, elevate, morte pareti d’inferno separavano la stanza dalla notte di fuori. La pioggia stava gradatamente cessando. Ormai gocciolava solo nell’oscuro silenzio, lente gocce pesanti sulla pietra, vicine, lontane e di nuovo vicine, più vicine, nell’aria mossa, attraverso un ampio fiume notturno fino ad un lungo, vuoto ponte avvolto in un silenzio di mezzanotte, pesanti gocce regolari, lente, misurate; forse il passo pattugliante della sentinella, al di là, sulla banchina”.

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