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letteratura russa

Iosif Brodskij, “Fuga da Bisanzio”

IOSIF BRODSKIJ – Fuga da Bisanzio – Adelphi

Traduzione di Gilberto Forti

Camminare

“L’arte non è un’esistenza migliore, ma è una esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova le parole”.

Per chi ama un poeta ed ha acquisito la consuetudine di ripercorrerne i versi fino al punto di sentirli realmente propri per una sorta di conquistato riconoscimento, fino al punto di giungere ad una pur minima convinzione di essere entrati in sintonia con quella splendida costruzione di allusioni – e forse anche un poco di illusioni – che è la sua poesia, poter leggere le sue prose diventa la privilegiata esperienza di poter accedere attraverso una porta spalancata ad un intero mondo fatto di pensieri, ricordi, esperienze intellettuali ed emozionali, a quel substrato insomma da cui la parola poetica trae per vie insondabili il proprio nutrimento e la propria urgenza espressiva. Oppure di essere riusciti, anche se solo per un tratto, ad intravedere l’altra faccia di un mondo, quella che si esplicita mediante la linearità sintattica della prosa ma che tradisce comunque, per intensità, profondità, complessità, capacità di cogliere ed esplicitare nessi e ramificazioni, di suggestionare e trascinare il lettore, la vitalità rigenerante della poesia.

Il presente volume comprende una parte di una più ampia raccolta di prose dal titolo “Less Than One” apparsa in America nel 1986; si tratta di sette saggi ordinati in una successione significativa che amplifica il loro valore e delinea un percorso di lettura. La raccolta si apre e si chiude con uno scritto autobiografico, il primo è seguito da una prosa dedicata a San Pietroburgo, città natale dell’autore, l’ultimo è preceduto dal saggio che dà il titolo alla raccolta, dedicato alla città di Istanbul, le tre prose centrali sono un omaggio alla poesia e alle figure di Osip Mandel’štam, Nadežda Mandel’štam e Wystan Hugh Auden. Una scelta che dona al volume una struttura compatta e al lettore la libertà di accorgersi che pagina dopo pagina quelli che si stanno delineando non sono solo saggi approfonditi su luoghi, opere, persone, ma i tratti di una personalità che parla di se stessa, delle proprie origini, dei propri luoghi dell’anima, della passione inesauribile per la poesia, evitando le costrizioni di un’autobiografia e permettendosi la felice libertà della divagazione. E le divagazioni, i cedimenti della struttura serrata, le notazioni ironiche, le riflessioni apparentemente svincolate dal contesto della trattazione, i numerosi passi denotati da un’alta intensità emozionale, le immagini dell’infinitamente grande ma anche dell’infinitamente piccolo destinate a permanere a lungo come i versi di una poesia, sono i luoghi in cui il lettore può vivere l’esperienza dell’incontro con la grande anima di Iosif Brodskij. O meglio, di un ulteriore incontro, in un territorio che attiene alla poesia ma che è anche altro, un luogo privato disseminato di tracce che chiedono di essere seguite, in un gioco che per il lettore è fonte di partecipato entusiasmo.

D’altra parte le prose di un poeta non possono che essere contaminate da quella felice e anarchica rivelazione che è propria della parola poetica e che in queste pagine esalta l’intensità, l’intelligenza e l’eleganza di ogni singolo brano, creando legami e assonanze intellettuali ed emozionali, comunicando l’impressione di essere al cospetto di una totalità, dove tutto possiede un senso, affascinante nel suo modo di manifestarsi per allusioni e improvvise illuminazioni. A partire dall’epigrafe scelta dall’autore per la sua raccolta, “E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe”, un verso tratto da “Elegia per N.N.” del poeta polacco Czesɬaw Miɫosz e inserito in una strofa che così recita: “Abbiamo imparato davvero molto, lo sai./ Come viene tolto, via via,/ Ciò che tolto non poteva essere, le persone, le contrade./ E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe./ Sorridiamo, sulla tavola ci sono tè e pane”. Il testo integrale della bellissima poesia è presente nella raccolta edita da Adelphi, curata da Pietro Marchesani, con una presentazione dello stesso Brodskij. Un verso che dà il là, che individua – meglio di qualsiasi accurata precisazione – l’ottica attraverso la quale i sette brani, o saggi o prose (si è già detto dell’impossibilità di definirli senza sminuirli) – possano o debbano essere letti. Forse l’ottica dell’altrove, l’altrove della memoria e della nostalgia, quello del desiderio, l’altrove dei luoghi persi per sempre e a cui non si potrà più tornare, e quello dei luoghi sognati e desiderati da cui non si può che fuggire, l’altrove dell’origine ormai lontana con i suoi segni indelebili e quello in cui permangono le persone amate e scomparse. Infine, su tutti, l’insondabile e inesauribile altrove della poesia.

L’origine, l’altrove e il sogno si incarnano per Brodskij nella città di San Pietroburgo e non credo esistano pagine più intense su questa eterea e “letteraria” città di quelle che compongono “Guida a una città che ha cambiato nome”: “…camminare sotto questo cielo, lungo gli argini di granito bruno di questo immenso fiume grigio, è di per sé un buon prolungamento della vita e una scuola che migliora la vista e la mente. Nella trama granulare del selciato di granito che corre accanto al flusso continuo, alla fuga costante dell’acqua, c’è qualcosa che infonde alle suole una voglia quasi sensuale di camminare. Dal mare soffia un vento di tramontana, odoroso di alghe, che qui ha guarito molti cuori soprassaturi di menzogne, disperazione e impotenza. Se è questo che congiura ad asservire, il servo può essere scusato. Questa è la città dove in qualche modo è più facile sopportare la solitudine che in qualsiasi altro posto: perché la città stessa è sola. Una strana consolazione viene dall’idea che queste pietre non hanno nulla a che fare col presente, e ancora meno col futuro. Quanto più le facciate s’inoltrano nel ventesimo secolo, tanto più appaiono schifiltose, indifferenti a questi tempi nuovi e ai loro interessi. L’unica cosa che le induce a venire a patti col presente è il clima, ed esse si sentono come non mai a casa loro nel tempo burrascoso del tardo autunno o della primavera precoce, con i suoi piovaschi misti a neve e le sue impetuose raffiche senza bussola. Oppure nel pieno dell’inverno, quando i palazzi e le residenze si stagliano sopra il fiume ghiacciato con i loro grevi alamari e scialli di neve, come antichi dignitari imperiali sprofondati fino alle sopracciglia in massicci mantelli di pelliccia. In gennaio, quando il globo cremisi del sole al tramonto dipinge di oro liquido le loro lunghe finestre veneziane, un viandante intirizzito che attraversa il ponte scopre all’improvviso che cosa aveva in mente Pietro I nel costruire questi muri: un gigantesco specchio per un pianeta solitario”. Nelle sue notti bianche è difficile addormentarsi “perché ogni sogno sarà inferiore a questa realtà”. Si leggono queste pagine e non si può non tornare a “Fondamenta degli incurabili” ed alla elegia veneziana che il libro rappresenta, al modo in cui l’autore possiede i luoghi che descrive; se ne impadronisce perché sono lo specchio in cui si riflette e perché la sua anima, in uno scambio intimo e vitale, in essi si riconosce.

Il corpo centrale della raccolta – cuore pulsante di un’intera esperienza esistenziale – è dedicato alla poesia, e si articola attraverso tre resoconti di altrettanti incontri, uno esclusivamente spirituale, culturale e letterario con Osip Mandel’štam, e gli altri due, con la sua vedova Nadežda e con Wystan Hugh Auden, anche reali. Un poeta che parla di poeti, di memoria e di passione intellettuale, di quelle oscure vie attraverso le quali si crea una predilezione, si sceglie un maestro, si cerca, se possibile, la sua vicinanza per individuarne i lineamenti, scrutarli, carpirne il segreto di una parola che sa farsi carne. Un poeta morto, l’incontro con la sua memoria vivente, un poeta vivo e l’opportunità di condividere, seppur sporadicamente e brevemente, lo stesso cielo. Mandel’štam e la potenza sovversiva della poesia: “Un poeta si mette nei guai non tanto per le sue idee politiche quanto per la sua superiorità linguistica e, implicitamente, psicologica. Il canto è una forma di disobbedienza linguistica, e le sue note gettano un’ombra di dubbio su ben altro che un concreto sistema politico: mettono in discussione tutto l’ordine esistenziale. E il numero degli avversari cresce in proporzione”. Mandel’štam e la tragedia della sua morte: “… questa voce nervosa, acuta, pura, intrisa d’amore, terrore, memoria, cultura, fede – una voce tremante, forse, come un fiammifero che brucia tra raffiche di vento, e tuttavia inestinguibile. La voce che resta quando il suo proprietario se n’è andato. Egli fu, si è tentati di dire, un Orfeo moderno: spedito all’inferno, non fece più ritorno, mentre la sua vedova cercava scampo in una lunga fuga attraverso un sesto della superficie terrestre, stringendo a sé la pentola dentro la quale erano arrotolati i canti del marito, imparandoli a memoria di notte per timore che fossero scoperti da Furie munite di un mandato di perquisizione. Queste sono le nostre metamorfosi, questi i nostri miti”. Nadežda Mandel’štam, immortalata in un necrologio che esalta il suo servizio alla memoria, perché “se c’è un surrogato dell’amore, è la memoria. Imparare a memoria, allora, significa ripristinare l’intimità”.

Infine Wystan Hugh Auden, per Brodskij la più grande mente del ventesimo secolo, da lui eletto a maestro a tal punto che, per compiacere la sua ombra, inizierà a scrivere in inglese: “Fu un grande poeta […] e io considero un’immensa fortuna quella di averlo conosciuto. Ma anche se non l’avessi mai incontrato, resterebbe la realtà della sua opera. Si deve essere grati al destino per averci esposto a questa realtà, per la profusione di questi doni, tanto più inestimabili in quanto non erano destinati a nessuno in particolare. Si potrebbe chiamarla generosità dello spirito, ma lo spirito ha bisogno di un uomo attraverso il quale rifrangersi. Non è l’uomo a diventare sacro per effetto di questa rifrazione; è lo spirito a diventare umano e comprensibile”. E quindi un suggerimento, da ricordare con tutte le sue implicazioni: “Il meno che si possa dire è che ogni individuo dovrebbe conoscere almeno un poeta dalla prima all’ultima pagina: se non per prenderlo a guida nel viaggio attraverso il mondo, almeno per avere un metro con cui misurare il linguaggio. W.H. Auden potrebbe assisterci egregiamente nell’uno e nell’altro regno, non fosse che per la loro rispettiva somiglianza con l’inferno e il limbo”. L’inferno del mondo e il limbo del linguaggio.

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giovanni baldaccini
5 years ago

Grazie!

giovanni baldaccini
5 years ago
Reply to  dietroleparole

sarà uno splendido incontro, specialmente – credo – con la “Lettera a Orazio”

giovanni baldaccini
5 years ago

Ciao Anna, sono sul nuovo blog “scritture immaginali”. Spero verrai a trovarmi https://wordpress.com/view/gion63064475.wordpress.com

giovanni baldaccini
5 years ago

il link è errato. questo è quello giusto gion63064475.wordpress.com

Renza
Renza
5 years ago

Cara Anna, che dire della perfezione di questa tua analisi? Come sempre, i tuoi scritti ampliano, approfondiscono, aprono scorci nuovi in testi anche conosciuti. Brava. Intanto, mi aspetta Fondamenta degli incurabili, appena avrò finito la rilettura di Morte a Venezia. Ciao, è sempre un arricchimento leggerti.

Renza
Renza
5 years ago

Sì, “Morte a Venezia” è un piccolo brillante, che manda lampi e che, ad ogni rilettura, si conferma come perfetto. Ti ringrazio molto della segnalazione. Ho stampato la bella recensione del collezionista di letture : davvero egregia. Presto lo scriverò anche a lui. Grazie, Anna, anche a te buoni giorni di estate e di letture. Renza

il barman del club
4 years ago

i grandi dell’umanità non scompariranno mai, e questi scritti sono un’essenza della nostra vita !

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