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letteratura russa

Iosif Brodskij, “Fondamenta degli incurabili”

IOSIF BRODSKIJ – Fondamenta degli incurabili – Adelphi

Fondamenta degli incurabili

“A poco a poco, con la lenta navigazione di una chiatta, la città si metteva a fuoco. Era in bianco e nero, come si addice a un’immagine che affiora dalla letteratura, o dall’inverno: aristocratica, un po’ fosca, fredda, in una luce scialba, con accordi di Vivaldi e Cherubini per sottofondo, con corpi femminili drappeggiati, quelli di Bellini/ Tintoretto/ Tiziano, al posto delle nuvole. E giurai a me stesso che se mai fossi riuscito a tirarmi fuori dal mio impero, per prima cosa sarei venuto a Venezia, avrei affittato una camera al pianterreno di un palazzo, in modo che le onde sollevate dagli scafi di passaggio venissero a sbattere contro la mia finestra, avrei scritto un paio di elegie spegnendo le sigarette sui mattoni umidi del pavimento, avrei tossito e bevuto; e quando mi fossi trovato a corto di soldi, invece di prendere un treno mi sarei comprato una piccola Browning di seconda mano e, non potendo morire a Venezia per cause naturali, mi sarei fatto saltare le cervella”.

Venezia è affetta da un male incurabile che contagia chiunque abbia la ventura di percorrerla, anche per poco, anche come meta di una sporadica e distratta gita, anche superficialmente attraverso i suoi luoghi più noti e risaputi, guardando con ottusa distrazione la materia di cui è fatta. Venezia è affetta dal male incurabile del suo eccessivo lirismo, della sua propensione al romanticismo più bieco e un po’ melenso. Si può partire prevenuti, si torna innamorati di lei, inevitabilmente, e, per gli spiriti più contorti, vergognosamente innamorati di lei. Come se fosse un poco indegno riconoscere di essere stati soggiogati, come tutti, dal suo fascino fulgido e un po’ decadente, dalla sua velata malinconia, da quel suo essere, come i porti di Pessoa, una malinconia di pietra. Un libro su Venezia scritto da un poeta potrebbe rappresentare quindi un pericolo ulteriore, una trappola inevitabile in cui cadere per poi trovarsi invischiati in un facile ma sporadico e momentaneo battito del cuore, in quella facile debolezza che solo superficialmente assomiglia all’ansito e alla potenza della vera poesia. Se questo poeta non fosse un russo, se non fosse Iosif Brodskij, se il suo omaggio a Venezia non fosse in realtà l’esito di una storia fatta di lontane suggestioni, di testarda determinazione e, infine, di pervicace consuetudine. Non un’illuminazione quindi ma una conquista, non una meta ambita ma una reale scelta di vita determinata per quanto possibile al radicamento. Perché questo succede quando un luogo diventa realmente luogo dell’anima, lo si vorrebbe possedere, ed il desiderio di possesso genera per sua natura uno sguardo diverso.

Nelle pagine di questo libro – dal titolo così bello, così triste e così definitivo, che tale sarebbe anche se non indicasse uno dei tanti luoghi che rendono Venezia meravigliosa – non c’è quindi spazio per un’elegia veneziana, o per un dettagliato diario di viaggio, ma tutto ciò che contengono procede col passo intenso e destrutturato della divagazione. Divagazione e suggestione guidano i passi liberi di Brodskij in quel suo continuo giungere e ripartire da un luogo in cui ha deciso di abitare per quanto possibile, per conoscerlo per quanto possibile, nei suoi spazi e nei suoi tempi, nelle diverse sfumature dei suoi cieli, nei volumi delle sue costruzioni, nei riflessi delle sue acque, per lasciarsi penetrare ed impregnare della sua bellezza. E’ l’autore stesso a definire, a suo modo, la natura del suo scritto: “Da queste pagine […] potrà non venir fuori un racconto, una storia, bensì il fluire di un’acqua limacciosa nella stagione sbagliata dell’anno. A volte appare azzurra, a volte grigia o bruna; invariabilmente è fredda e non potabile. Il motivo per cui mi ingegno a filtrarla è che contiene tanti riflessi, tra i quali il mio”. Perché il riconoscimento e la successiva identificazione sembrano essere all’origine di questo suo radicamento veneziano che per diciassette anni consecutivi lo costringe, come una necessità quasi fisica, a trascorrere in questa città almeno un mese invernale.

Il primo impatto, il primo sguardo sulla città, sono tali da distruggere qualsiasi immagine da cartolina turistica che inevitabilmente il nome di Venezia evoca nella nostra assuefatta immaginazione: “Era una notte di vento, e prima che la mia retina avesse il tempo di registrare alcunché fui investito in pieno da quella sensazione di suprema beatitudine: le mie narici furono toccate da quello che per me è sempre stato sinonimo di felicità, l’odore di alghe marine sotto zero”. Sono infinite le vie del riconoscimento, infinite ma certe ed evidenti quando per avventura capita di imboccarne una: “e io avevo la sensazione di essere entrato nel mio stesso autoritratto sospeso nell’aria fredda”. Forse è questa la chiave per comprendere la natura tutta particolare e unica nel suo genere di questo libro che riporta i pensieri di un viaggiatore che non è più tale e ripercorre una meta che non è più tale, perché qui viaggiatore e meta fin dall’inizio coincidono e si fondono l’uno nell’altra, Venezia, da luogo sognato e immaginato, diventa una dimensione del vivere, un filtro attraverso il quale decantare ed anche esaltare i sentimenti, i ricordi, la cultura di una personalità profonda, disincantata e ironica, disillusa ma pronta a cogliere e a seguire ogni suggestione, e Venezia è una suggestione, Venezia, per certi versi, è un’illusione, forse proprio una delle città invisibili di Calvino.

Inevitabilmente questa città, magica ben oltre tutto ciò che possiede di noto e di risaputo – i canali, i ponti, le gondole, i palazzi, ecc. – si offre all’occhio dell’autore, ma è essa stessa occhio che guarda dentro di lui – “la faccia di questa città” – e lo sollecita a raccontarsi e quindi a mostrarsi al suo lettore con un tono che unisce le confidenze intime alle considerazioni di un erudito e, non poteva essere altrimenti, ai vertiginosi voli della poesia. Di consonanze e di riflessi, ecco di che cosa è fatto questo scritto, e non è detto che le consonanze risiedano nelle sensazioni dell’uomo e che i riflessi siano quelli dell’acqua su cui Venezia sembra galleggiare, perché è vero anche il contrario. Venezia è uno specchio, la Venezia di Brodskij è uno specchio e chi la guarda vede se stesso. “Io non sono un essere morale (anche se tento di tenere la mia coscienza in pareggio) o un saggio; non sono un esteta né un filosofo. Sono soltanto un uomo nervoso, per effetto delle circostanze e dei miei atti, ma sono osservante. […] Le pagine che seguono, quindi, hanno a che fare con l’occhio piuttosto che con qualche convinzione, comprese quelle sul modo di gestire un racconto. L’occhio precede la penna, e non permetto alla mia penna di mentire circa la sua posizione”.

Un “osservante” dunque si muove nella città invernale, in quella che lui definisce “una stagione astratta”, “che subordina i nervi ai tuoi istinti”, mosso dalla certezza che “alle basse temperature la bellezza è bellezza”; si muove e sente, prima ancora di comprendere, di trovarsi nel proprio elemento: “E’ anche colpa – o merito – di tutto questo marmo, pizzi di marmo, intarsi, capitelli, cornicioni, rilievi e modanature, nicchie abitate e disabitate, santi, non santi, vergini, angeli, cherubini, cariatidi, frontoni, balconi con i loro robusti polpacci al vento, e relative finestre, gotiche o moresche. Perché questa è la città dell’occhio: le altre facoltà vengono in seconda linea, e molto distanziate”. Un “osservante” nella “città dell’occhio” non può che incappare nella bellezza, quella bellezza che è riposo e sollievo per l’occhio, che è eccezione alla regola, per Brodskij è affine al dolore, è la premonizione del dolore, e l’ammirazione si accompagna alla lacrima: “In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, una lacrima è il modo con cui la retina […] ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza”. Godere della bellezza procura dolore perché “nel mondo in cui viviamo, questa città è il grande amore dell’occhio. Dopo, tutto è delusione. Una lacrima anticipa quello che sarà il futuro dell’occhio”. Esattamente allo stesso modo il commiato dalla persona amata provoca dolore.

Ci si deve affidare a questo “osservante”, bisogna fidarsi di lui e seguirlo mentre si addentra in tutte quelle meraviglie nascoste e oscurate dal fasto prorompente del paesaggio veneziano, mentre ci parla di albe e di tramonti, di nebbie e di specchi, di campane e di creature da incubo, mentre percorre la topografia veneziana e oltrepassa la soglia di antichi palazzi, mentre percorre le gallerie di vecchie stanze e si perde tra mobili e tendaggi polverosi, mentre vive i suoi giorni veneziani già da subito offuscati dal pensiero dell’inevitabile commiato: “Poiché siamo esseri finiti, una partenza da questa città sembra ogni volta definitiva; lasciarla è un lasciarla per sempre”. Bisogna seguirlo fino alla bellissima conclusione di queste pagine, omaggio definitivo alla città del suo cuore: “Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama”. Si chiude il libro con tristezza e commozione: il poeta non sarà più costretto a lasciare una città da lui tanto amata perché la sua salma riposa nel cimitero veneziano dell’Isola di San Michele.

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giovanni baldaccini
5 years ago

Un “luogo dell’anima”, Anna; forse di Venezia si può dire: certamente lo si può dire di questo libro che ti accompagna in un viaggio impossibile. un viaggio che non è un viaggio ma una permanenza. E non puoi più andare via.
Grazie.

giovanni baldaccini
5 years ago
Reply to  dietroleparole

mi piace questa tua frase:”uno sguardo che prima non c’era”. Somiglia molto a una mia definizione del “poeta” di qualche anno fa: “Un poeta è colui che mette nel mondo quello che non c’è” Ciao Anna, e grazie per aver ricordato Brodskij.
P.S. Pensa che un critico letterario di un certo nome, a proposito di un mio articolo su Brosdkij, Blanchot e Kafka, mi riconosceva il “merito” di parlare di autori “dimenticati”… !!!

giovanni baldaccini
5 years ago
Reply to  dietroleparole

Si, fa paura anche a me…

Renza
Renza
5 years ago

Difficile, cara Anna, scindere la suggestione della scrittura di Brodskij dalla tua. Separare la materia dal modo di rappresentarla, un modo- il tuo- che è sempre non solo “alto”ma anche intenso, sensibile.
Ci parli di un piccolo testo, prezioso non solo perché è di Brodskij; non solo perché tratta di Venezia ma anche perchè si sofferma su un tema che io trovo molto affascinante: l’ attrazione fatale per una città o un luogo a cui non ci leghino memorie familiari e/o di provenienze. Vi sono fascinazioni che nascono e che racchiudono misteri e ragioni.
Certo, il Nostro ha una particolarissima capacità nel descrivere le anime delle città : è indimenticabile il suo atto d’ amore nei confronti di San Pietroburgo/ Leningrado (“Guida a una città che ha cambiato nome” in “Fuga da Bisanzio”). “ In notti simili” ( le notti bianche)” è difficile addormentarsi perché c’ è troppa luce e perché ogni sogno sarà inferiore a questa realtà”. Leggerò presto questo piccolo libro. Grazie!

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