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letteratura spagnola

Julio Llamazares, “La pioggia gialla”

JULIO LLAMAZARES – La pioggia gialla – Passigli Editori

Traduzione di Pier Luigi Crovetto

La pioggia gialla

“Come un fiume che di colpo ristagna, il corso della mia vita si era fermato e ora, davanti a me, si stendeva soltanto l’immenso e desolato paesaggio della morte e l’autunno senza fine dove dimorano insieme gli uomini, gli alberi disseccati e la pioggia gialla dell’oblio”.

“La pioggia gialla” è un libro impietoso che non concede al lettore soste, rifugi o nascondigli, se non nella sua stessa bellezza. E’ un libro che possiede radici penetranti e le ancora saldamente intorno alle paure più profonde che ogni uomo, più o meno consapevolmente, porta con sé nei suoi giorni. La morte, e ancor di più la solitudine estrema sono gli spettri che queste pagine rendono vivi ed evidenti, drammaticamente inevitabili, tragicamente vissuti come compagni inseparabili. Un libro che possiede parenti illustri che richiama alla memoria, e non solo per ambientazione o tipologia narrativa, quanto per le atmosfere dense, vibranti, che dalla desolazione sanno estrarre il succo di una bellezza disadorna ma anche accesa da un ultimo anelito di vita, quanto basta per evocare, inventare e condurre allo scioglimento castelli narrativi, che sorti dal nulla, al nulla riportano. Ma il tragitto lungo il quale giungono a compimento e la dilazione del tempo a loro concesso sono il terreno su cui la letteratura fiorisce.

Parenti illustri e ugualmente straordinari, come “Pedro Páramo” di Juan Rulfo (come sottolinea Paolo Collo nella sua postfazione), o “La lucina” di Antonio Moresco, che sanno evocare la vita dalle tracce lasciate dalla vita nel lento trascorrere del tempo e che sanno inventarsi una sorta tutta particolare di lirismo della natura, resa nuovamente selvaggia e padrona delle povere vestigia umane. Andrés de Casas Sosas è l’uomo che muore solo in ognuna di queste pagine, che muore sempre un po’ di più, insieme ad Anielle, il paese di cui è rimasto l’ultimo abitante. “Ainielle esiste. Dal 1970 è stata completamente abbandonata, ma le sue case sono ancora in piedi, a marcire in silenzio, sommerse dall’oblio e dalla neve, sui Pirenei di Huesca, che chiamano Sobrepuerto”, così l’autore, nella precisazione che precede l’inizio del romanzo, in cui dichiara anche la natura immaginaria dei suoi personaggi che però “potrebbero benissimo essere reali”.

Un paese morto, come Vegamian, il paese originario di Llamazares, nella provincia del Leon, scomparso nel 1969 sotto le acque della diga di Juan Benet. Chissà se da questa coincidenza viene il seme destinato a generare l’idea del romanzo, a cantare quella sorta di atroce malinconia che esala da tutto ciò che l’uomo abbandona, oggetti, stanze, luoghi, dopo averli a lungo maneggiati e abitati, dopo averli impregnati di sé. Chissà se da qui deriva la convinzione che nulla di ciò che è stato scompare per sempre, e che tutto però continua anche a provare l’angoscia dell’abbandono.

Potentissima, fin dall’incipit, si leva dal paese morto la voce narrante che pare anch’essa quella di un uomo morto, ma che poi nel lento trascorrere del tempo, scandito da pagine desolate ma accese dalla forza tenace, anche se disillusa, del sopravvissuto, si rivela per quello che in realtà è: la voce di Andrés de Casas Sosas che, il giorno prima di morire, rende conto, in un crescendo tragico, in una tensione che l’abilità dell’autore mantiene e accresce a dismisura, della sua inutile resistenza contro il nulla che da molto tempo ormai va distruggendo tutto il suo mondo. Ma sarebbe arduo, e in fondo inutile stabilire se sia lui il protagonista del romanzo, e non piuttosto Ainielle, il paese che muore vivendo la sua lunghissima e solitaria agonia, e che si impone fin dalle prime pagine nell’immaginario del lettore, non tanto come paesaggio o fondale in cui la vicenda si snoda, quanto come un vero e proprio organismo vivo, che sente e soffre e che guarda il vano trascorrere dei giorni del suo ultimo abitante che gli assomiglia sempre di più. “Vista da lassù, Ainielle appare sospesa sul precipizio, come un dirupo di pietre e di ardesie torturate, e soltanto nelle case più basse, franate a valle, calamitate dall’umidità e dalla furia del fiume, il sole riuscirà a strappare un ultimo pallido riflesso ai vetri e alle ardesie. Nient’altro turberà la pace e il silenzio. Non un rumore, non un filo di fumo, una presenza o un’ombra per le strade. Neanche l’impercettibile scorrere di una tenda o il gonfiarsi di un lenzuolo teso da una finestra all’altra ad asciugare”. Solo quiete, silenzio e ombre e “i terribili morsi dell’oblio su questo triste cadavere insepolto”. Ainielle si specchia nello sguardo di Andrés che a sua volta vede se stesso nei tetti sfondati, nelle mura cadenti, nella ruggine e nella polvere, nelle pietre intaccate dalle “larve della rovina” e questo gioco di riflessi, che ritorna come una costante nelle pagine del romanzo, amplifica la pena e la suggestione di cui sono impregnate: “E oggi, sulla soglia della fine e dell’oblio, risuona ancora alle mie orecchie l’urlo delle pietre sepolte nel muschio e il lamento senza fine delle travi e delle porte che marciscono”.

Eppure questa vita che si va spegnendo è contrassegnata da accadimenti e da presenze che a loro modo donano un ritmo e una progressione ad una narrazione che parrebbe poggiare su basi inesistenti. Sono ombre e memorie che con Andrés interagiscono e che sembrano possedere, anch’esse, una loro vita. Il silenzio di Ainielle in realtà è pieno di sussurri, bisbigli, mormorii; i suoni dei momenti più dolorosi e spaventosi del passato continuano a farsi sentire, le ombre di chi non esiste più tornano a frequentare i luoghi in cui hanno vissuto, tanto che la casa di Andrés, mentre cede all’opera di distruzione del vento e della neve, accoglie di nuovo le parvenze delle persone da lui più amate: “In cucina […] c’erano solo ombre morte, ombre nere, silenziose, sedute in cerchio davanti al camino, che, nel momento in cui aprii la porta alle loro spalle, si girarono all’unisono a fissarmi. Distinsi senza difficoltà i volti di Sabina e di tutti i morti di casa”.

Fantasmi, evocati dalla memoria, rimasti tra le pareti, tra i vicoli, negli orti e nelle stalle, che hanno la dignità e la consistenza delle figure dantesche, che spaventano al loro apparire, generando orrore per il loro non essere vivi e neppure del tutto morti, perché l’oblio non li ha ancora risucchiati. Ma il tempo che scorre lento finisce per rendere anche le ombre parte integrante di una quotidianità malata, impossibile, già prossima alla sua estinzione; così come lo sono “la casa stregata, le voci, il cimitero, il sangue, una natura ostile e velenosa, il delirio, l’abisso”, tutti elementi che Paolo Collo giustamente riconosce come tipici del genere horror. Sono tratti che vanno comunque a comporre e a definire una quotidianità che l’abilità dell’autore rende plausibile, che generano un orrore realistico e forse per questo sicuramente meno spettacolare ma più penetrante. In fondo le ombre e i fantasmi si fondono con i ricordi così come la morte si fonde e si confonde con la vita e in questo permanere sul limitare, su questo confine inabitabile risiede gran parte dell’atmosfera cupa ma affascinante di questo romanzo.

Difficile non riconoscere la potenza di questo personaggio, di questa voce e anche di quella pioggia gialla che compare ad accenni fin dalle prime pagine e che poi va imponendosi sempre più sulla scena fino a permeare tutto di sé e ad impadronirsi dei sensi e dell’anima del protagonista. Dapprima semplice colore delle foglie autunnali che preannuncia l’inverno, poi tonalità che sbiadisce le fotografie e il ricordo di chi non c’è più, infine simbolo dell’oblio e della morte, perché non ricordare il passato è cominciare a morire: “Giorno dopo giorno, a partire da quella notte sulle sponde del fiume, la pioggia ha sommerso la mia memoria e ha colorato il mio sguardo di giallo. E non solo il mio sguardo. Le stesse montagne. E le case. E il cielo. E i ricordi che ognuna di queste cose si porta con sé. Dapprima lentamente, poi con lo stesso ritmo con il quale i giorni passavano attraverso la mia vita, tutto intorno a me si è andato tingendo di giallo come se lo sguardo non fosse altro che la memoria del paesaggio e il paesaggio un semplice specchio di se stesso”.

E quando tutto è ormai compiuto, una frase che trova i toni della tragedia chiude come suggello, o come un sudario, la vita di Ainielle e di Andrés, la stessa frase che, all’inizio del romanzo, ne aveva preannunciato la fine: “Ombre livide avanzeranno come onde attraverso le montagne e un sole stremato e disfatto, iniettato di sangue, si trascinerà davanti a esse aggrappandosi ormai senza forze agli sterpi e al cumulo di macerie e di calcinacci, resti di quello che fu (prima che l’incendio sorprendesse nel sonno l’intera famiglia e tutte le bestie) la solitaria casa di Sobrepuerto”.

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vengodalmare
4 years ago

Sempre interessante ciò che scrivi

rubinetto d'oro
3 years ago

bell’articolo. grazie per la condivisione.

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