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letteratura francese

GEORGES PEREC, “La vita istruzioni per l’uso”, BUR

Traduzione di Dianella Selvatico Estense

“Le scale per lui, a ogni piano, erano un ricordo, un’emozione, qualcosa d’antico e impalpabile, qualcosa che palpitava chissà dove, alla fiamma vacillante della memoria: un gesto, un profumo, un rumore, un luccichio, una giovane donna che cantava arie d’opera accompagnandosi al piano, un ticchettio maldestro di macchine per scrivere, un odore tenace di cresile, un clamore, un grido, un frastuono, un fruscio di sete e di pellicce, un miagolio lamentoso dietro una porta, dei colpi contro le pareti, dei tanghi suonati e risuonati su fonografi sibilanti o, al sesto a destra, il ronzio ostinato della sega a due tempi di Gaspard Winckler cui, tre piani più in basso, al terzo a sinistra, rispondeva ormai solo un silenzio insopportabile.”

Abitare in una vecchia casa significa chiedersi spesso chi abbia già vissuto, gioito e sofferto nel passato – in uno dei tanti passati che qui si sono susseguiti – tra le sue mura, quali storie si siano consumate nelle sue stanze, quali voci e quali silenzi siano qui risuonati, o addirittura quali mobili e oggetti abbiano lasciato nel tempo le loro impronte, tempo ben più lungo di quello concesso ai loro proprietari, perchè gli oggetti inanimati sopravvivono a chi li possiede, le scale a chi le percorre, le finestre a chi vi si affaccia, come del resto il cielo agli occhi che osservano il cammino delle nuvole. Questo nella vita, che è un tassello immemore impossibilitato a cogliere il disegno complessivo che spazi e tempi compongono nel loro divenire e nel loro trasfigurarsi, impossibilitato a cogliere se non minimi e provvisori mutamenti, a seguire e a decifrare poche e labili tracce, pochi e labili lacerti di storie. Tutto il resto lo può fare la letteratura se si pone un obiettivo nel contempo ambizioso, arduo e agli occhi dei più forse incomprensibile nella sua apparente inutilità, se non fosse che nel perseguirlo crea pagine di assoluta grandezza che vanno ben al di là di ciò che inizialmente il lettore può cogliere dell’intento che ha mosso e motivato la scrittura del loro autore.

Questo, e molto di più lo fa Perec con questo libro tanto amato e apprezzato da Italo Calvino che ne parla diffusamente nelle sue “Lezioni americane”, individuandolo come esempio di iper-romanzo, di testo che realizza quella molteplicità da lui considerata, insieme a leggerezza, rapidità, esattezza e visibilità, uno dei valori, delle qualità e delle specificità della letteratura del nuovo millennio. E le motivazioni che Calvino dà alla sua predilezione sintetizzano appieno le qualità di un testo che interroga e destabilizza fin da subito il lettore: “.. il disegno sterminato e insieme compiuto, la novità della resa letteraria, il compendio d’una tradizione narrativa e la summa enciclopedica di saperi che danno forma a un’immagine del mondo, il senso dell’oggi che è anche fatto di accumulazione del passato e di vertigine del vuoto, la compresenza continua d’ironia e angoscia, insomma il modo in cui il perseguimento d’un progetto strutturale e l’imponderabile della poesia diventano una cosa sola”.

Perec sceglie come ambientazione – ma anche come elemento generatore – del suo romanzo un edificio ottocentesco parigino situato in Rue Simon-Crubellier, 11 (una via immaginaria collocata nel XVII arrondissement), uno stabile di dieci piani comprensivi di cantine e di camere di servizio, e con scrupolo certosino descrive le stanze che compongono i vari appartamenti e le variazioni che le stesse hanno subito nel corso del tempo, presenta gli abitanti che le animano e che le hanno animate, racconta le loro storie che finiscono per costituire dei romanzi all’interno del romanzo (d’altra parte il titolo originale dell’opera è seguita dal sottotitolo “romanzi”), tutto questo in un arco temporale che va dal 1875 al 1975, praticamente il secolo di vita dello stesso stabile.

Il lettore che si inoltra nella materia lussureggiante e per molti versi fuorviante di questo libro sterminato e affascinante impiega del tempo per intuire che essa è retta da una sorta di schema, che le fila di tutto quanto sono saldamente governate dall’abilità dello scrittore che si muove come un giocatore di scacchi attraverso le cento stanze in cui sono suddivisi i dieci piani dell’edificio. Una complessa e rigorosa struttura sostiene dunque quell’opera di camuffamento e di svelamento che rende la multiforme materia del romanzo una serie di enigmi e di scoperte gettati in pasto al lettore che è costretto a sostare su alcune pagine, a proseguire e a retrocedere come se anche lui si muovesse sulle caselle di una scacchiera immaginaria. La pianta del caseggiato parigino è una sorta di contenitore, all’interno del quale abita la vita e si sviluppa formalmente la scrittura. Perec dedica un capitolo per ogni stanza dei vari appartamenti, enumera mobili e suppellettili, racconta la vita dei proprietari attuali e precedenti, passa da una stanza all’altra, da un appartamento all’altro, seguendo un ordine non lineare, sembra giocare e divertirsi a confondere il lettore, dandogli però alla fine con magnanimità schemi e strumenti per orientarsi, per approfittare del suo gioco, per prenderne parte.

Si viene trascinati all’interno di appartamenti che nel corso del tempo, al variare degli inquilini subiscono modificazioni strutturali, cambiano il colore delle tappezzerie, la mobilia, i quadri, le lampade, i tappeti, le cornici, le fotografie, gli infiniti oggetti che la vita vi ha accumulato e Perec si perde e ci perde nella scrupolosissima compilazione di cataloghi e di descrizioni, perchè l’enumerazione dettagliata di tutti i particolari, dal più infimo al più denso di significato obbedisce al compito di esaurire spazi e tempi, di far convivere passato e presente, di cogliere l’insieme e le sue continue trasformazioni. Ci sono oggetti muti ed altri che parlano perchè trattengono storie che devono essere raccontate, ci sono libri e quadri che non sono oggetti ma porte attraverso le quali far irrompere altre vite ed altre storie, in un delirio di accumulazione, che rivela l’ambizioso intento di non tralasciare nulla, assolutamente nulla degli spazi ben delimitati e ben strutturati che l’autore ha deciso di esaurire, di comprendere totalmente, di fare propri – e anche nostri – con l’evidente ribellione, giocosa e seria insieme, di chi ben sa che nella vita tutto sfugge e poco, o pochissimo, è dato comprendere appieno e tantomeno trattenere.

“Il demone del collezionismo” scrive Calvino nelle sue Lezioni “aleggia continuamente nelle pagine di Perec [..] ma collezionista lui non era, nella vita, se non di parole, di cognizioni, di ricordi; l’esattezza terminologica era la sua forma di possesso; Perec raccoglieva e nominava ciò che fa l’unicità d’ogni fatto e persona e cosa. Nessuno più immune di Perec dalla piaga peggiore della scrittura d’oggi: la genericità”. Inutile precisare che un romanzo del genere si fa apprezzare con lentezza, richiede pazienza ed abnegazione da parte del lettore che deve lasciarsi guidare dall’autore, deve fidarsi di lui, immergersi nelle enumerazioni, menus di pasti, programmi di concerti, tabelle dietetiche, bibliografie vere o immaginarie, nelle citazioni, nelle testimonianze della sua infinita erudizione e negli enigmi formali tra i quali non è immediato districarsi, per essere infine abbondantemente premiati e cogliere la libertà narrativa che si sviluppa e rigenera in continuazione proprio a partire dalle regole su cui il romanzo è costruito e persino la poesia che a tratti ne scaturisce.

Questo succede anche perché, come afferma Calvino, il modello formale scelto e perseguito con estrema perizia dall’autore coincide con il tema dell’intreccio principale del romanzo che, immerso e inizialmente confuso tra cento e più storie, assume lentamente rilevanza e si impone all’attenzione del lettore che lo individua, lo riconosce e lo segue con sempre maggiore interesse. Perec dà alle sue descrizioni e narrazioni la struttura di un puzzle, suddividendole in sezioni che mescola come se fossero delle tessere e lasciando che si compongano man mano, passando da una casella all’altra. E proprio il puzzle è al centro dell’attività folle alla quale si dedica per tutta la sua vita Bartlebooth che diventa ben presto il vero protagonista del romanzo, l’uomo che nel suo stesso nome rivela la parentela con lo scrivano di Melville e con la sua indifferenza nei confronti di tutto ciò che per gli altri uomini è importante: “Immaginiamo un uomo la cui fortuna fosse pari solo all’indifferenza verso quello che generalmente la fortuna permette, e il cui desiderio fosse, con molto più orgoglio, cogliere, descrivere, esaurire, non la totalità del mondo – progetto che il suo stesso enunciato è sufficiente a mandare in rovina – ma un frammento costituito di quest’ultimo: di fronte all’inestricabile incoerenza del mondo, si tratterà allora di portare fino in fondo un programma, ristretto, sì, ma intero, intatto, irriducibile. Bartlebooth, in altre parole, decise un giorno di organizzare tutta la sua vita intorno a un progetto unico la cui necessità arbitraria non avrebbe avuto uno scopo diverso da sè”.

Un progetto che avrà a che fare con degli acquarelli, con la laboriosa costruzione di puzzle, con la loro distruzione, in una sorta di gioco complesso e impegnativo che avrà lo scopo di realizzare, sperperando sostanze e cinquant’anni di vita “la perfezione gratuita dell’inutile”. Si chiude il libro con una domanda che rimane senza risposta: forse la stessa letteratura è un gioco complesso e impegnativo, perfetto e gratuito, privo di utilità pratica, senza alcuna garanzia di riuscita, così come lo è la vita stessa, nonostante esistano delle istruzioni per l’uso.

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