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letteratura tedesca

Uwe Tellkamp, “La torre”

UWE TELLKAMP – La torre – Bompiani

“Cercando, il fiume sembrava tendersi nella notte che principiava, la pelle si sgualciva e crepitava; pareva voler precedere il vento che si alzava in città, quando il traffico sui ponti era ridotto a poche auto e sporadici tram, il vento proveniente dal mare che circondava l’Unione Sovietica, l’Impero Rosso, l’Arcipelago, venato inframmezzato pervaso da arterie vene capillari del fiume alimentato dal mare, nella notte, il fiume che portava i rumori e i pensieri alla superficie scintillante, il riso, la serietà e l’allegria nella crescente oscurità…”

 Queste sono le note d’apertura dell’ouverture che dà inizio alla lunga e complessa sinfonia di un romanzo musicalmente strutturato, costituito da una ouverture, un primo movimento, un interludio, un secondo movimento e un finale. Una struttura necessaria a contenere e a trattenere una materia narrativa debordante e lussureggiante. “La torre” è un romanzo recente, è stato pubblicato nel 2008 e ha permesso al suo autore, Uwe Tellkamp (nato a Dresda nel 1968), di ricevere nello stesso anno il Premio Uwe Johnson. Tre anni prima, per il romanzo “Der Eisvogel”, gli era stato assegnato il Premio Ingeborg Bachmann. Premi dedicati a nomi di grande prestigio della letteratura tedesca contemporanea che, se non possono certo essere da soli una garanzia di merito per l’autore, predispongono però favorevolmente il lettore che si appresta all’impresa di inoltrarsi nel mondo de “La torre” (un viaggio lungo circa 1300 pagine).

Il romanzo è ambientato a Dresda, negli ultimi sette anni di vita della Repubblica Democratica Tedesca, conclusasi il 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino. La torre è un quartiere residenziale che si trova sulle pendici di una collina con vista sull’Elba, dove vivono famiglie appartenenti alla borghesia intellettuale della città tedesca. Un tempo lussuoso quartiere residenziale, la torre è ormai ridotta a un insieme di ville fatiscenti che conservano nomi fiabeschi, “Caravella”, “Casa dai mille occhi”, “Casa dei delfini”, ecc.., ma che sono destinate ad una irrimediabile decadenza e conservano solo una lontana eco del loro originario splendore. Sulla collina vicina vivono gli esponenti più in vista del regime e gli intellettuali più accreditati. Tellkamp racconta le vicende degli Hoffmann, i membri di una famiglia residente nella torre e della moltitudine di personaggi che ruota intorno a loro, tratteggiando in questo modo un quadro della società della DDR, dello Stato come struttura e delle persone che vi vivono. Va subito detto che inoltrarsi nelle pagine di questo romanzo provoca un iniziale sconcerto per la scelta dell’autore di scrivere un libro-enciclopedia, di trascrivere e fissare nelle sue pagine un intero universo, di immergere il lettore in una miriade di dettagli e informazioni, di seguire i rivoli di mille vicende. Una ricerca di totalità decisamente anacronistica come modalità narrativa che inizialmente disorienta e sorprende ma che, lentamente, affascina. Di fatto “La torre” è un Bildungsroman (uno dei tre protagonisti, Christian Hoffmann, all’inizio del romanzo ha sedici anni e, alla fine, ventitrè) che rispecchia la migliore tradizione narrativa tedesca per contenuti e struttura. L’innovazione, la modernità, la chiave interpretativa che danno valore al romanzo risiedono nella capacità di Tellkamp di condensare simboli e valori della cultura tedesca in un tempo e in uno spazio circoscritti come in un’isola nel fluire della storia, di mostrarli come racchiusi sotto vetro in un laboratorio, isolati dalla corrente della vita, osservati attraverso una lente d’ingrandimento. La famiglia Hoffmann e tutti i personaggi del romanzo vivono in una sorta di nicchia che insieme isola e preserva; una nicchia, una torre, una montagna incantata. Questo forse ha significato per i Tedeschi vivere nella DDR. Lo stesso Tellkamp, nato nella Germania dell’Est, afferma in un’intervista a “La Repubblica” del giugno 2010: “La vita era piena di contraddizioni. Da una parte il tempo era rallentato, e questo rallentamento provocava uno strano spostamento temporale. Leggevamo Thomas Mann, Bassani, Tomasi di Lampedusa e ci sembrava che parlassero di noi, del nostro tempo. Anche noi ci sentivamo abbandonati a noi stessi, sentivamo che qualcosa stava finendo, come il Gattopardo celebravamo mondi e valori dissolti ed eravamo perciò condannati alla malinconia. Mentre la giovinezza è il momento della spontaneità, in cui ci si innamora, si commettono errori, la vita appare una promessa nella quale buttarsi con frenesia. Invece arrivavano i controllori a frenarci: questo non puoi, quest’altro nemmeno, quello che puoi siamo noi a deciderlo”. “La torre” di Tellkamp è quindi, al pari de “La montagna incantata” di Thomas Mann, un luogo di detenzione, ma anche di possibilità; come nel sanatorio di Davos, anche nella torre di Dresda vigono divieti e imposizioni e l’impossibilità di immergersi nella vita che fuori di lì continua il suo corso. Gli ammalati, come i residenti, continuano però a celebrare, nella lentezza di un tempo sospeso, i riti che rendono sopportabile la vita, continuano ad approfittare di tutto ciò che la cultura del passato mette loro a disposizione, percorrendola, scandagliandola, assaporandola. Gli abitanti della torre vivono rivolti al passato, coltivano il gusto per la scienza e la filosofia, la letteratura, la musica e l’arte, trasformano le vecchie stanze che ancora sono a loro disposizione (le altre, seguendo i dettami del socialismo, vengono sequestrate ed assegnate ad altri inquilini) in piccoli musei dove conservano collezioni di reperti di Scienze naturali, in biblioteche dove raccolgono preziose edizioni di libri che diventano sempre più rari, in sale da concerto, perché nell’aria della sera le vie del quartiere risuonano delle note di musica classica, provenienti da vecchi giradischi, accuditi con cura perché i pezzi di ricambio sono ormai quasi introvabili. E’ sempre Tellkamp ad affermare: “… bisogna distinguere tra il paese e lo Stato. Il paese aveva i suoi lati silenziosi, modesti, confortanti. Per le persone che vi vivevano ho grande rispetto: ne La torre ho cercato di descriverli, anzi ho voluto erigere loro un monumento. Ma lo Stato in cui dovevano vivere era meschino, dittatoriale, ottuso, penetrato da una mostruosa rete di spie. Non merita rimpianti”. E forse qui – nella denuncia di un potere statale illiberale e dittatoriale – risiede l’altra eco letteraria che sembra risuonare nel titolo del romanzo. Non si può infatti evitare di pensare all’omonimo dramma di Hugo von Hofmannsthal e al principe prigioniero nella torre perché gli astri l’hanno indicato come colui che rovescerà l’ordine costituito, il dramma che descrive la perdita di legittimità di un potere politico come crisi estrema di tutta la civiltà europea nell’epoca della dissoluzione dell’Impero. Nella DDR del romanzo di Tellkamp, il regime non risparmia gli abitanti della torre, costretti a vivere nel pericolo, cercando di districarsi tra censure, delazioni e durissime condanne. L’isola della torre galleggia e sopravvive a stento nelle condizioni imposte dal socialismo reale, dove la difesa del bene comune è diventata solo una maschera che nasconde la corruzione e l’arroganza del potere. L’autore di questo romanzo-fiume riesce a condurre il lettore all’interno di una torre dai molteplici significati. Chi si lascerà trascinare in questo viaggio, troverà, condensata e preservata, quella cultura tedesca, soprattutto ma non solo, letteraria e musicale, che ha continuato a vivere, isolata e difesa, all’interno della DDR; troverà il ritratto di un mondo che, dopo la caduta del muro, è scomparso (la moderna Atlantide del sottotitolo), un mondo che l’autore rievoca nei suoi mille dettagli e che denuncia nelle sue mille ingiustizie e contraddizioni; infine troverà un linguaggio capace di utilizzare con naturalezza vari registri, da quello realistico, a quello epico e lirico. Forse perché, come dice l’autore: “Alla scrivania taccioni le inquietudini giornaliere. Il foglio bianco diventa un rifugio e una sorgente che si apre nel profondo. Falle venire, le parole, così che la lingua si pieghi e nel loro fluido cominci una nuova vita”.

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Giulia
11 years ago

Che bello… dei Buddenbrook del Novecento.

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