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letteratura svizzera

Friedrich Dürrenmatt, “La visita della vecchia signora”

FRIEDRICH DÜRRENMATT – La visita della vecchia signora” –  Einaudi

 La visita della vecchia signora “Il tuo amore è morto molti anni fa. Il mio amore non ha potuto morire. Ma neanche vivere. E’ diventato qualcosa di malvagio come me stessa, come i pallidi funghi e i ciechi volti delle radici di questo bosco, soffocato dai miei miliardi d’oro. Che ti hanno afferrato coi loro tentacoli, per prendere la tua vita. Perché essa appartiene a me. In eterno. E ormai sei preso, sei perduto. Presto non resterà di te altro che nel mio ricordo un essere amato e morto, un mite fantasma in una forma spezzata”.

Claire Zachanassian, la vecchia signora, è una delle più potenti figure femminili di tutta la produzione teatrale, e forse anche narrativa, dell’autore svizzero e nessun lettore, o spettatore, può sfuggire al suo fascino perverso, come non può fare a meno di chiedersi per tutto il tempo dei tre atti durante i quali, presente o evocata o attesa, s’impone come indubbia protagonista, da che cosa esso derivi. Di fatto quello che intorno a lei sembra costruirsi con assoluta ineluttabilità e naturalezza è un meccanismo perverso e malvagio, una favola grottesca, una trama diabolica e paradossale. Durrenmatt è un grande provocatore, un disturbatore della quiete, malizioso e maligno, se si tratta di mettere a nudo l’ipocrisia e l’avidità che si annidano nel cuore dell’uomo e di smascherare la falsità della società perbenista. E qui lo fa con un’evidente felicità creativa baloccandosi con i tre generi teatrali fondamentali, servendosene a piene mani, contaminandoli, piegandoli al proprio estro, cosicché lo spettatore si trova progressivamente privato dei consueti punti di riferimento. Perché assiste ad una romantica storia d’amore rievocata e rivissuta, che si risolve nei toni cupi della più efferata vendetta, che si compie nei modi amari e grotteschi di uno scioglimento surreale.

“La visita della vecchia signora” è infatti una commedia, una tragedia e una farsa: la commedia di un amore tradito, la tragedia di una violenza assurda che pretende di essere commessa, la farsa di un’intera società ipocrita e connivente. E sempre, al centro esatto della scena, la vecchia signora muove i suoi fili e attende che la vendetta da lei orchestrata si compia; dominando situazioni, personaggi e impalcature sceniche che hanno l’esemplarità e la stralunata eccentricità del teatro dell’assurdo, destabilizza lo spettatore con la sua ieratica e disturbante determinazione, con la sua incrollabile convinzione che il verdetto da lei emanato alla fine si compirà. E’ lo stesso autore, come riporta la nota introduttiva al presente volume scritta da Luigi Forte, a spiegare la vera essenza della sua creatura: “Essa non impersona né la giustizia né il piano Marshall e tantomeno l’apocalisse, è semplicemente la donna più ricca del mondo e grazie al denaro può agire come un’eroina della tragedia greca, assoluta, crudele. Medea mettiamo. Se lo può permettere”. Una Parca dunque, o la dea della vendetta catapultata a Güllen, una piccola cittadina immersa nella più nera miseria che ancora ricorda un suo recente passato di agi e di una certa rinomanza culturale. Durrenmatt accende un riflettore sulla natura fatale della sua eroina perché ben sa a quale molteplicità di ulteriori significati il meccanismo perfetto da lui escogitato è in grado di alludere. Tutta la vicenda ha infatti a che fare con l’amore, con l’abbandono, con l’odio e la sete di vendetta, ma anche con la psicologia della folla, con il potere del denaro, con il cinismo capitalistico e si ammanta allora di orrore e di pietà per la sorte individuale dei protagonisti, e di amara derisione nei confronti di una società malata, pronta a speculare sulle proprie vittime.

“Era inverno, molto tempo fa, quando lasciai questa cittadina, vestita alla marinara con le trecce rosse; ero gravida di parecchi mesi, gli abitanti sogghignavano al mio passaggio. Tremavo di freddo nel diretto per Amburgo, ma quando i contorni del fienile dei Peter scomparvero dietro le incrostazioni di ghiaccio del finestrino giurai di tornare un giorno. E adesso son qua. Adesso sono io che pongo le condizioni, che detto i termini dell’affare”. La dolce Claretta Wäscher, sedotta e abbandonata da Alfred Ill, suo coetaneo e concittadino, diventata Claire Zachanassian, vecchia miliardaria, cinica e dissoluta che tutti compra e piega ai suoi voleri, torna al paese natale per cercare l’amato che tanto tempo prima l’ha rinnegata condannandola a vivere di stenti e di prostituzione, e per fare giustizia. “La vita è andata oltre, ma io non ho dimenticato niente, Ill. Né il bosco di Konradsweiler, né il fienile dei Peter, né la camera da letto della vedova Boll, né il tuo tradimento. Ora siamo vecchi ambedue, tu ormai miserabile ed io dilaniata dai coltelli dei chirurghi, ed ora voglio la resa dei conti: tu hai scelto la tua vita e costretto me alla mia. Tu volevi che il fluire del tempo venisse sospeso, or ora, nel bosco della nostra gioventù, pieno di passato. Ora io l’ho sospeso, ed ora voglio giustizia, giustizia per un miliardo”. Grandissima e terribile con questa sua eloquenza che veicola il massimo grado di malvagità, lo spirito crudele della vendetta, attraverso i toni intensi della poesia, e che la fa risaltare su tutti gli altri personaggi, gli abitanti del villaggio e soprattutto le autorità civili e religiose che, al suo confronto, hanno la consistenza del pagliaccio, o peggio, del burattino.

Chi conosce i romanzi di Durrenmatt, sa che le sue trame sono perfette macchine narrative, costruite intorno a trappole congegnate per svelare i luoghi oscuri del cuore umano. Claire Zachanassian è perfettamente in grado di far scattare una di queste trappole: “Un miliardo per Güllen, se qualcuno uccide Alfred Ill”, e la raffinata vendetta coinvolge il singolo e l’intera comunità, l’avidità inoculata è come un virus che tutti contagerà, costringendo gli stessi concittadini a giustiziare colui che si è macchiato della colpa primigenia da cui tutto ha avuto inizio. “E siccome il mondo ha fatto di me una puttana, adesso io ne faccio un casino”. Poste le basi di questo gioco cinico, il disordine, lo sconcerto, la tentazione, addirittura la seduzione della ricchezza fanno il resto, Claire Zachanassian deve solo attendere che la società passi dall’indignazione, al dubbio, all’autoconvincimento, alla determinazione che trova persino il modo di autoassolversi. Una vita viene sacrificata sull’altare del benessere e lungo la strada che a questo conduce, Durrenmatt ha buon gioco per scatenare la sua graffiante ironia “che trasforma Güllen in una kermesse dell’ipocrisia e della menzogna”, perché le prede da tutti ambite con urgenza e avidità sono i simboli del consumismo, gli oggetti che sanciscono il raggiungimento di uno status sociale in un mondo vuoto di cultura e di valori: è così che “il benessere si erge minaccioso”. Per smascherare la realtà bisogna deformarla e stravolgerla nel grottesco, darle cioè, come afferma l’autore stesso, “il volto di un mondo senza volto”.

Ma non è finita qui, un’altra trappola deve scattare, e in questa si trova catturato il lettore/spettatore che si è convinto di trovarsi di fronte unicamente alla rappresentazione della corruttibilità dell’uomo. Invece l’inaspettato avanza, declinato da un congegno teatrale che sembra procedere per la sua stessa forza d’inerzia, a piccoli passi, con una progressione impercettibile. L’inaspettato sbaraglia i ruoli, e il colpevole di un tempo, diventato la vittima consenziente di una giustizia inderogabile sancita dalla stessa collettività, china la testa di fronte alla carnefice, la asseconda e forse persino un poco la ama. Claire Zachanassian non avrebbe la stessa potenza scenica se non potesse contare sulla spalla che le offre la natura cangiante e via via sempre più intensa di un Alfred Ill braccato da un senso di colpa costruito artificiosamente da chi lo circonda, frutto della manipolazione che opera su di lui la comunità a cui appartiene, a sua volta succube della potente manipolatrice: “Ormai è giunta l’ora. Per l’ultima volta sediamo nel nostro vecchio bosco pieno di cuculi e di stormir di fronde. Questa sera si riunisce l’assemblea. Verrò condannato a morte ed uno mi ucciderà. Non so chi sarà e dove succederà, so solo che concludo una vita senza senso”. Ma anche la stessa dolcezza, sparsa qua e là tra le battute di questa commedia tragica è frutto dell’abilità manipolatrice di un drammaturgo capace di creare per lo spettatore un raffinato paradosso, dove il denaro è la macchina invisibile di “una giustizia degradata a compravendita della vita di un uomo, e proiezione impalpabile dell’abiezione interiore di una società borghese soffocata dal mito del benessere”, per usare le parole di Ferruccio Masini, tratte da “Gli schiavi di Efesto”. Tutto il resto è solo illusione.

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