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Philippe Jaccottet, “Austria”

PHILIPPE JACCOTTET – Austria – Bollati Boringhieri

Traduzione di Fabio Pusterla

Camminare

“Ah! Certo, non è una carta geografica piana che ci accingiamo a percorrere o a disegnare; bensì, piuttosto, a immagine delle montagne e delle foreste, un dedalo della profondità e dell’estensione, un monumento il cui centro si nasconde e i cui contorni sfuggono, incompiuto, mobile, una rovina forse, ma sontuosa, come la grande opera nella quale l’Austria ha potuto riassumersi grazie a Musil, quella commedia funebre, leggiadra, melanconica, senza inizio né fine: un monumento barocco”.

Esattamente vent’anni prima del “Danubio” di Claudio Magris, nel 1966, veniva edito in Francia questo libro, miracolosamente ancora reperibile senza difficoltà alcuna dal lettore italiano, che di “Danubio”, per ciò che concerne l’Austria, appare come un felice precursore. Apparentato all’opera di Magris, ma anche a “Praga magica” di Ripellino, a “Viaggio in Portogallo” di Saramago, e persino a “Lisbona” di Pessoa, a “Fondamenta degli incurabili” di Brodskij e a chissà quanti altri che non ho avuto ancora la fortuna di incontrare, questo agile ma densissimo volumetto fa parte di quella famiglia di libri che, sotto l’apparenza di guide turistiche, nascondono una ben più profonda anima che appunto dal turismo rifugge, non per snobismo intellettuale, ma per la necessità che li genera: quella di provare ad immergersi in una realtà che semplicemente non può essere né sfiorata né avvertita dall’atteggiamento consumistico e frettoloso che il turismo impone. Sono libri che si adattano molto meglio al viaggiatore, al viandante che non conosce l’ansia del possesso ingordo ed effimero, ma che va alla ricerca di qualcosa di più prezioso ed appagante, l’anima di un luogo, di una terra, di una città, sapendo che potrebbe anche non manifestarsi e che, in ogni caso, richiede come pegno il tempo, la pazienza, la disponibilità a tornare sui propri passi e persino a perdersi seguendo strade poco battute. L’andamento di questo libro “è apparentemente divagante, casuale, simile a quello di un viaggiatore che senza fretta attraversasse un territorio fatto di geografia, esseri umani e storia culturale, lasciandosi catturare dagli imprevisti, evitando le mete più ovvie e rinomate, cercando piuttosto ciò che sfugge, ciò che si nasconde, ciò che può rivelare un segreto”, così scrive nell’Introduzione al volume il traduttore Fabio Pusterla.

In realtà “Austria” di Jaccottet, come tutti quei libri alla cui famiglia appartiene, è una guida per sfuggire al turismo di massa, per defilarsi in direzione contraria, una guida che, a sua volta si lascia guidare dall’occhio del letterato, o del poeta, che sostituisce l’obiettivo della macchina fotografica o, peggio, del telefono, con la memoria e a lei affida tesori di arte e di cultura. Così l’occhio del poeta o del letterato più che trovare, ritrova, più che scoprire, riscopre, perché a sua volta è guidato dalle direzioni e dalle tracce che la letteratura e l’arte sanno così bene indicare ed imprimere per sempre nella memoria e nell’anima. Avviene così che libri come questo, lungi dal semplificare la vita al viaggiatore, in realtà la complichino, invitandolo ad avventurarsi lungo itinerari complessi, perché i luoghi che essi attraversano o nei quali consigliano di sostare appaiono vivi, mutevoli e coinvolgenti, così come lo sono le pagine di certe opere, pregne di una ricchezza invitante e misteriosa, che non smette di attrarre ad ogni rilettura perché possiedono il dono raro della inesauribilità. E l’autore, accingendosi ad iniziare il suo viaggio in Austria, “il paese d’elezione di ciò che è incompiuto” – il paese che possiede la capacità di sfuggire alle definizioni e alle semplificazioni – afferma di se stesso: “È stato soltanto un viaggiatore curioso che attraversava un paese sconosciuto, e che guardava con i propri occhi tutte le volte che ciò era possibile; e, quando gli è stato necessario prendere in prestito occhi altrui, ha preferito che fossero quelli dei romanzieri, dei poeti e dei saggisti austriaci”.

Quindi nel suo libro su un paese tanto amato quanto enigmatico Jaccottet non si sottrae al compito di suggerire itinerari ai suoi lettori – finendo naturalmente, nel contempo, per rendere pressante per gli amanti della letteratura mitteleuropea la necessità di frequentare più da vicino quella sorta di repertorio di opere e di autori che egli va idealmente compilando – ma li racchiude in uno spazio delimitato da “emblemi” letterari, affidando all’ottocentesco Adalbert Stifter, “il più grande paesaggista della letteratura austriaca” e a un allora giovane e promettente scrittore – trentacinquenne nel 1966 e già rivelatosi con la pubblicazione della sua opera prima, “Gelo” – il compito di creare quella suggestione fatta di “immagini di rocce e di foreste” alla quale il lettore non potrà più sottrarsi, così come non può fare l’autore stesso che indulge in queste pagine iniziali ad una sorta di voluto lirismo: “Donde quel che si sente, irresistibile, di salubre su questi pendii, dove pare che nulla dovrebbe potersi aggrappare, in queste foreste simili a stracci frementi, finchè, innalzandosi progressivamente, non si raggiunge infine, calata la sera, l’ultimo villaggio, tra le conche d’un verde più povero, più giallo, di pascoli estremi”.

È però inoltrandosi nel Tirolo – “Lo spirito dei boschi” – e iniziando il viaggio che si scopre l’anima nascosta di questo libro che appare sempre più simile ad una scatola cinese per la sua capacità di rivelare e di svelare: l’autore appare determinato nel voler distruggere la facciata stereotipata di una terra pittoresca ad uso e consumo del turista in cerca di conferme, percorrendo la difficile strada del disincanto: “… ho visto scale consunte, muri ammuffiti, camere miserabili, balconi traballanti, fatti di assi semisfondate, dove bambini in camicia da notte giocavano con dei piccioni, mentre vicini litigiosi si davano sulla voce di finestra in finestra”, e ancora: “Ho visto quelle strade colorate, graziose, animate […] ma anche mendicanti deformi, malati, che si trascinavano attorno alla terrazza di un caffè dove famiglie intere erano a tavola davanti a enormi porzioni di patate fritte o di crauti (anziane contadine che lo stupore di trovarsi in città rendeva maldestre, mariti appesantiti e sbracati, grondanti sudore sotto il föhn)”. Forse perché dissacrare l’ovvietà di un’immagine a tutti i costi limpida e serena è l’unica strada per accorgersi delle ombre, che incupiscono, ma danno anche spessore e che in questa terra permettono di cogliere quel tema “violento e funereo” che pure appartiene all’Austria e che Jaccottet ci vuole mostrare, ricorrendo quando occorre a Musil, a Trakl, al “Wozzeck” di Alban Berg, indicandoci il luogo nascosto dove si può iniziare ad intuire il vero spirito del Tirolo, il castello di Ambras, dell’arciduca Ferdinando del Tirolo che coltivava “il fascino del fantastico, dello strano, dell’ignoto” nelle sue sale chiuse sottochiave, nei grandi ritratti di famiglia che raffigurano “esseri perseguitati da sogni angosciosi o fantastici, mantenuti a carni frolle e spezie orientali”. Il Tirolo, figlio delle sue montagne ha generato “una razza quasi selvaggia, dura, taciturna, ma permeabile alle leggende, esposta ai sogni, agli spaventi…”.

Infine l’autore consiglia al lettore che lo sta seguendo nel suo viaggio di non lasciare il Tirolo portando con sé una cartolina, bensì una scena, che lui definisce “come una delle più belle di tutta la storia dello spirito moderno”, quella che riunisce tre grandi e solitarie figure, il filosofo Ludwig Wittgenstein – l’autore del “Trattato logico-filosofico” – e due poeti, Rainer Maria Rilke e Georg Trakl. La scena è quella del filosofo che rinuncia alla cospicua eredità paterna e sceglie di vivere da asceta, accontentandosi di lavorare come maestro di scuola in un villaggio sperduto delle montagne tirolesi, devolvendo l’ingente somma ai due poeti.

Il viaggio prosegue e conduce a Salisburgo, la città barocca, con la sua “gaiezza malinconica”, in una sorta di pellegrinaggio alla casa natale di George Trakl, la guida cupa alla città dopo la guida luminosa dello spirito di Mozart; a Graz, lungo la via del ferro; in Carinzia, a Klagenfurt, città natale di Musil, ma anche di Ingeborg Bachmann, che Jaccottet, in queste pagine del 1966 definisce come una delle migliori poetesse della letteratura tedesca attuale; a Nord, verso il lago di Neusiedl; per discendere poi il Danubio e giungere a Vienna. “Non bisogna aspettarsi da Vienna il genere di bellezza che offrono Parigi o Roma; e più di ogni altro luogo d’Austria, è necessario vederla nella profondità della storia, come una città piena di fantasmi cupi o brillanti”: la sosta nella capitale costituisce il cuore pulsante del libro e occupa quattro capitoli che devono essere letti come una appassionata e coinvolgente guida culturale (“Alla ricerca di Vienna”, “L’Austria non è davvero un paese per i geni”, “Una serata al Burgtheater”, “Il canto segreto della tenacia”). Vengono qui chiamati in causa, distillati nella loro più profonda essenza, messi in relazione e resi imprescindibili testi e autori che della grande Vienna hanno assorbito il respiro e che soli possono restituircelo per guidare i nostri passi consapevoli lungo le sue strade: Hermann Broch , Hugo von Hofmannsthal, Heimito von Doderer, Ferdinand Raimund, Johann Nestroy, Franz Grillparzer, Adalbert Stifter, solo per citarne alcuni, ma, su tutti, Robert Musil, colui che appare un po’ come il nume tutelare di questo viaggio che percorre luoghi ma li legge attraverso ciò che di meglio ha prodotto la cultura austriaca.

Il viaggio e il libro si concludono con un interrogativo che riguarda il futuro, che è a ben vedere il nostro presente, una domanda sul posto che nel futuro avranno le opere antiche “che non cessano di incantarci”, o le forme di vita tradizionali, quelle che ancora fanno amare l’Austria forse più di ogni altro paese: “Ma, davvero, non riesco a immaginare che l’uomo, per quanto preso dalle sue corse di missili, per quanto in fuga il più lontano possibile dal passato, per quanto in grado di accumulare prodigi di calcolo, possa sfuggire a quell’ombra interiore che lo riduce a un essere degno di compassione, ombra alla quale sembra che il passato dell’Austria, il passato di tutti noi, non abbiano del tutto smesso di opporre le loro luci. In questo caso, non saremo stati colpevoli di esserci voltati indietro, come facciamo anche adesso, nell’atto di varcare la frontiera, per scorgere un’ultima volta le sue insegne di erba e di legno”.

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giovanni baldaccini
5 years ago

Non posso dire che mi piace, ma neppure il contrario. Non posso dire niente. L’Austria è per me un’incognita, un inafferrabile, una contraddizione, un assurdo, una provocazione, un’attrazione cui è impossibile sottrarsi e comunque detestabile. L’Austria è un luogo che non apprezzo, ma è anche un non luogo che amo, perché l’Austria è un satellite imperial/fascio/nazista, ma è anche la culla delle più grandi menti scientifiche e letterarie del novecento, Dunque, l’Austria non dovrebbe esistere, ma è anche impossibile farne a meno.

giovanni baldaccini
5 years ago

Non ho letto il libro e quindi non posso esprimermi altro che in quello che ho detto. Parlavamo dell’Austria, ma ogni paese ha le sue contraddizioni e in genere è proprio dalle contraddizioni che nasce qualcosa di nuovo, per fortuna.
Ho percepito in alcune precisazioni una leggera punta di dissenso a quanto ho scritto, ma forse è dovuto solo al mio umore odierno non proprio brillante. Se poi fosse, sarebbe comunque legittimo: un commento e una risposta possono anche non essere del tutto graditi.
Buona serata Anna.

giovanni baldaccini
5 years ago

E già, mia cara, l’Austria è argomento scottante e tocca svariate sensibilità, almeno in me. Tu sai quanto io ami Roth, Bernhard, Musil; forse non sai quanto io detesti il nazifascismo. Visti i fatti di questi ultimi mesi, sarà una buona serata? Speriamo ( ma questo col libro non c’entra affatto…!) 🙂

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