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ELSA MORANTE, “L’isola di Arturo”, Einaudi

Introduzione di Cesare Garboli

“Si riudì l’urto dei flutti, giù, contro i piccoli golfi: e io, a quel suono, vidi nel pensiero la figura dell’isola distesa nel mare, coi suoi lumini; e la Casa dei guaglioni, quasi a picco sulla punta, con le porte e le finestre chiuse nella grande notte d’inverno. Come una foresta toccata dall’incanto, l’isola nascondeva sepolte in letargo le creature fantastiche dell’estate. In tane introvabili sottoterra, o negli anfratti delle mura e delle rocce, riposavano le serpi e le tartarughe e le famiglie delle talpe e le lucertole azzurre. I corpi delicati dei grilli e delle cicale si sfacevano in polvere, per rinascere poi a migliaia, cantando e saltando. E gli uccelli migratori, spersi nelle zone dei Tropici, rimpiangevano questi bei giardini. Noi eravamo i signori della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostra tana meravigliosa. L’inverno, che finora m’era sempre apparso una landa di noia, d’un tratto stasera diventava un feudo magnifico.”

La scrittura della Morante, in questo ma anche in altri suoi magnifici romanzi, sembra aggirarsi costantemente nei pressi di un paradiso tutto terrestre e perciò umanissimo, a volte, ma per breve tempo, goduto con pienezza, altre ardentemente desiderato oppure crudelmente rimpianto. Un paradiso che è una sorta di stato di grazia, connesso all’origine, alla sicurezza, alla pienezza, alla sperimentazione di quell’amore assoluto che domina, o dovrebbe dominare, il tempo lungo e leggendario dell’infanzia. Il tempo in cui essere amati non richiede ricerca, sforzo o fatica, perchè è naturale, connesso con la vita stessa, e non conosce il crudele dolore della disillusione.

Ma è in questo romanzo che lo stato di grazia originario, sognato e di fatto irraggiungibile, da metaforico diventa in qualche modo reale, perché l’isola di Procida nella penna della Morante viene ad assumere tutte le valenze di un vero e proprio paradiso terrestre. E non si tratta solo di ambientazione: l’isola pervade di sé tutte le pagine del romanzo, dall’inizio alla conclusione, respira tra le righe, si impone all’immaginario del lettore con i suoi profumi, il suo silenzio, le mille sfumature del suo mare e dei suoi cieli nel lento e pigro trascorrere delle stagioni. La penna della Morante non descrive, piuttosto evoca, si attarda, pigra e ammaliante, rende con le parole – con la sua scrittura “esotica e familiare, naturale e iperbolica”, come la definisce Garboli nell’introduzione – l’atmosfera senza tempo di una terra che appare nello stesso tempo naturale e mitica, ricchissima e misteriosa.

Assolutamente unica perché unico è lo sguardo di Arturo, il protagonista, che ha con lei un rapporto che potremmo definire viscerale, unico lo sguardo con cui il lettore se ne impossessa attratto dalla potenza e dal fascino di una scrittura che guarda al reale attraverso le maglie di un’immaginazione sfrenata e avventurosa: “I fumi dei piroscafi di linea che fanno il solito giro quotidiano, e i loro lunghi fischi attraverso l’aria, sembrano segnali di rotte misteriose, fuori dalla tua sorte: passaggi di contrabbandieri, di cacciatori di balene, di pescatori eschimesi: tesori e migrazioni! Questi segnali ti portano un’allegrezza d’avventuriero, e, a volte, invece, uno sgomento, come fossero luttuosi addii”. L’isola è la terra madre che in queste “Memorie di un fanciullo” – sottotitolo del romanzo – accoglie, nutre, accompagna nei suoi giorni solitari, teatro di infinite avventure, Arturo, prima bambino, poi adolescente e infine giovane, surrogato di una madre mai conosciuta perché morta al momento della sua nascita, luogo perfetto per trascorrere i lunghi giorni di quell’età eroica che è la fanciullezza, surrogato a molte mancanze che diventeranno però via via sempre più evidenti e dolorose.

René de Ceccatty nel suo libro biografico “Elsa Morante. Una vita per la letteratura” riporta, a questo proposito, una considerazione di Moravia intorno al romanzo: “Per Elsa Morante la fanciullezza è l’età eroica dell’uomo […] è per sua natura un’età poetica cioè creatrice di miti, che tutto trasfigura, glorifica ed eroicizza, per la quale ogni mulino a vento è un gigante, ogni Maritorna una Dulcinea e ogni osteria un castello incantato. La fine della fanciullezza è la fine di questa facoltà eroicizzante e mitologizzante; dopo la fanciullezza non vale più la pena di vivere perché soltanto nel mito, cioè nell’esaltazione della realtà, la vita è sopportabile”.

Sarà per questo che appare difficile ascrivere “L’isola di Arturo” alla categoria del romanzo di formazione perché in effetti il suo protagonista vive una fanciullezza anomala, in una solitudine indipendente arricchita e animata da una natura prorompente e generosa e da una immaginazione propensa al sogno che lo rendono a suo modo risolto negli anni del suo primo approccio consapevole con il mondo, esattamente al centro di una mitologia tutta personale avventurosa ed esaltante. E’ con la crescita e la crescente consapevolezza di che cosa è fatta la realtà delle cose e di qual è la natura dei rapporti umani che questo mondo si incrina, svaniscono gli eroi, i sogni perdono il loro fascino ed Arturo apprende progressivamente quanto è amaro il sapore della disillusione. Un processo di formazione certo, che assomiglia molto però ad una perdita irrimediabile, perché per Arturo farsi uomo significa uscire dal proprio personale paradiso e si risolve in definitiva con l’abbandono dell’isola che ne è lo specchio fedele: “Ci si spiega così come “L’isola di Arturo”, e il destino di Arturo, finiscano nel momento in cui la vita di un uomo dovrebbe cominciare”, scrive Garboli nell’introduzione al romanzo.

Nella vita del fanciullo, quando ancora è “re e stella del cielo”, padrone assoluto di quel pezzo di terra incantato in cui è stato catapultato dalla sorte, non ci sono madri, anzi, a ben vedere, non c’è alcuna traccia di un accudimento femminile e per lunghi anni le donne appaiono ai suoi occhi come esseri appartenenti ad una specie sconosciuta e del tutto inutile, esiste però un padre, figura affascinante ai suoi occhi, una sorta di eroe che appare e scompare all’improvviso, al quale la sua immaginazione attribuisce ogni sorta di virtù cavalleresca che lo fanno eccellere rispetto al resto dell’umanità. La Morante si ritrova così tra le mani una materia letteraria che è a lei ben congeniale perché attiene all’origine e alle infinite e diverse possibilità che all’origine possono essere offerte a chi inizia il cammino della vita. Quella che sceglie per il suo Arturo, per il suo fanciullo pervaso da una grazia che appare al di là dal tempo, è un’origine deprivata da genitori presenti, ma colma di opportunità che lui stesso sfrutta creandosi da solo quell’insieme di certezze e di punti di riferimento che gli adulti non hanno potuto o voluto dargli. “A portare l’inconfondibile impronta di Elsa Morante, in questo suo secondo romanzo, sono le pagine di fantasticherie in solitudine, di contemplazioni poetiche, di elucubrazioni infantili” –  afferma René de Ceccatty nel suo libro biografico – processi mentali che si innescano sempre a partire dalla lettura solitaria con cui il fanciullo sistematicamente occupa gran parte del tempo che trascorre nelle stanze disadorne della grande casa in cui abita da solo, la “Casa dei guaglioni”.

Ci sono libri in quella casa, una sorta di biblioteca raccogliticcia e multiforme composta da volumi “vecchi e squinternati”, ci sono racconti polizieschi e di avventura, e ancora opere classiche, “atlanti e vocabolari, testi di storia, poemi, romanzi, tragedie e raccolte di versi, e traduzioni di lavori famosi […] io questi libri, li lessi e li studiai tutti; e certuni, i miei preferiti, li ho riletti tante volte, che ancora oggi, li ricordo quasi a memoria”. Sono le trame dei libri, i loro racconti straordinari, popolati da “orchi, fate e principi affascinanti”, l’apprendistato di quest’anima bambina alla ricerca intransigente di assoluto, di ciò che possa rendere esaltante e degna una vita in realtà segnata dall’abbandono; nelle fiabe e nella letteratura cavalleresca Arturo cerca indicazioni per costruirsi la propria percezione della realtà. Signore assoluto di questo universo è il padre, amatissimo e ammirato, reso modello insostituibile di una vita futura da adulto da trascorrere condividendo con lui mille esaltanti avventure e lunghi viaggi in terre lontane ed esotiche.

Arturo, il diletto fanciullo della Morante, sembra l’incarnazione di un’anima che, pervasa dal fascino innegabile dell’immaginazione letteraria, si nutra a tal punto di lei da eleggerla a verità assoluta, attendendo che la vita si riveli e si compia al pari di un racconto straordinario. Un inganno in cui solo un essere immaturo, ingenuo e tremendamente solo può cadere, ideato dalla penna di una scrittrice stregata dalla letteratura e che ad essa ha dedicato la vita. Si può dire che la trama di questo straordinario romanzo, che accompagna l’apprendistato di Arturo, il suo avvicinamento all’età adulta, consista in fondo in un dolorosissimo risveglio, “il tradimento del paradiso che è stata l’infanzia”, come afferma René de Ceccatty. Un processo di formazione che prevede la scoperta di sentimenti prima del tutto sconosciuti al fanciullo: la gelosia, l’invidia, l’offesa insanabile per il tradimento, la disillusione, la disperazione per un amore negato e impossibile, la scoperta che non esistono eroi, che il futuro non riserva imprese eccezionali, che fuori dall’isola non esistono terre esotiche, che la realtà in definitiva è pervasa da una grigia e imperfetta normalità.

E’ la cacciata dal paradiso. Inevitabile per Arturo la decisione di abbandonare l’isola e di nascere al mondo, avvertendo, radicata per sempre nel cuore,  l’irriducibile nostalgia per il suo piccolo pezzo di terra incantata: “Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me! La rena sarà di nuovo calda, i colori si riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritorno dall’Africa, ripasseranno il cielo… E in simile festa dorata, nessuno: neppure un qualsiasi passero, o una minima formica, o un infimo pesciolino del mare, si lagnerà di questa ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! In tutta l’immensa natura, qua intorno, non resterà neppure un pensiero per A. G. Come se, per di qua, un Arturo Gerace non ci fosse passato mai!”.

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vengodalmare
3 years ago

Che sogno quel libro, indimenticabile. Insieme ad Arturo abbiamo goduto e perso lo stesso paradiso, e siamo cresciuti con quella nostalgia che sarà la misura di ogni esperienza futura.
Grazie, Anna, per questo ricordo.

dietroleparole
3 years ago
Reply to  vengodalmare

Grazie a te per la condivisione, hai ragione: è un libro indimenticabile. Ho colpevolmente trascurato la Morante per troppi anni. Un carissimo saluto!

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