Category Archives: letteratura italiana

GIORGIO MANGANELLI, “Centuria. Cento piccoli romanzi fiume”, Adelphi

Introduzione di Italo Calvino

Nota al testo di Paola Italia

“Libriccino sterminato, insomma; a leggere il quale il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio, nei luoghi ove si appartano capitoli elegantemente scabrosi, pagine di nobile efferatezza, e dignitoso esibizionismo, lì depositate per vereconda pietà di infanti e canuti.”

Primo e unico libro di narrativa di Manganelli, definito a ragione da Paola Italia, nella ricca Nota al testo, un “coacervo di materiali narrativi”, “Centuria”, che si compone, come dice il sottotitolo, di “cento piccoli romanzi fiume”, è considerato dallo stesso autore “una vasta ed amena biblioteca” e, a prima vista, appare al lettore anomalo rispetto al resto della sua vasta produzione. Perché in queste pagine Manganelli, che ha fatto della metaletteratura il suo terreno di gioco ed esplorazione, mostrandosi refrattario alle trame e alle strutture tradizionali, sembra voler dare spazio alle infinite possibilità che gli vengono offerte dalla propria capacità di elaborare invenzioni narrative, condensate, essenziali, in nuce, densissime ma tutte passibili di uno sviluppo che potrebbe trasformare ognuna di loro in un vero e proprio romanzo.

Una sorta di enciclopedia manganelliana quindi, di casistica narrativa, l’intero universo di trame di uno scrittore che però, anche qui, inventa linguaggi, gioca con le parole e con le idee e che rimane quindi, sempre e comunque riconoscibile. “Eppure si tratta più che mai di Manganelli: l’universo in cui i cento romanzi d’una sola pagina si situano è lo stesso in cui in altri libri si scatena la sua tregenda di metafore come un sabba di streghe”, così scrive Calvino nell’Introduzione. “Centuria” è anche il libro che attesta e testimonia la vicinanza letteraria e la stima reciproca che legano Manganelli e Calvino, che li fanno procedere, in anni fortunatissimi di felice scrittura per entrambi, in direzioni parallele, portandoli forse persino ad influenzarsi reciprocamente. E’ innegabile la vicinanza di ispirazione tra i cento romanzi fiume manganelliani e i dieci romanzi iniziati e mai finiti che compongono “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Calvino, come è impossibile non ritrovare, in alcune centurie, città immaginarie che potrebbero non sfigurare accanto alle magiche architetture de “Le città invisibili”: “Nella città semiabbandonata, devastata dalla peste e dalla storia, vivono poche persone che cambiano continuamente abitazione. La tetra storia della città ha fatto sì che i sopravvissuti, e i pochi che sono accorsi ad abitarla, inclinino ad un atteggiamento astratto e meditativo. Poiché le abitazioni sono innumerevoli, anche se tutte un poco fatiscenti, ciascuno si cerca una abitazione congeniale all’umore, alla ricerca, all’angustia del momento”. 

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ELSA MORANTE, “L’isola di Arturo”, Einaudi

Introduzione di Cesare Garboli

“Si riudì l’urto dei flutti, giù, contro i piccoli golfi: e io, a quel suono, vidi nel pensiero la figura dell’isola distesa nel mare, coi suoi lumini; e la Casa dei guaglioni, quasi a picco sulla punta, con le porte e le finestre chiuse nella grande notte d’inverno. Come una foresta toccata dall’incanto, l’isola nascondeva sepolte in letargo le creature fantastiche dell’estate. In tane introvabili sottoterra, o negli anfratti delle mura e delle rocce, riposavano le serpi e le tartarughe e le famiglie delle talpe e le lucertole azzurre. I corpi delicati dei grilli e delle cicale si sfacevano in polvere, per rinascere poi a migliaia, cantando e saltando. E gli uccelli migratori, spersi nelle zone dei Tropici, rimpiangevano questi bei giardini. Noi eravamo i signori della foresta: e questa cucina accesa nella notte era la nostra tana meravigliosa. L’inverno, che finora m’era sempre apparso una landa di noia, d’un tratto stasera diventava un feudo magnifico.”

La scrittura della Morante, in questo ma anche in altri suoi magnifici romanzi, sembra aggirarsi costantemente nei pressi di un paradiso tutto terrestre e perciò umanissimo, a volte, ma per breve tempo, goduto con pienezza, altre ardentemente desiderato oppure crudelmente rimpianto. Un paradiso che è una sorta di stato di grazia, connesso all’origine, alla sicurezza, alla pienezza, alla sperimentazione di quell’amore assoluto che domina, o dovrebbe dominare, il tempo lungo e leggendario dell’infanzia. Il tempo in cui essere amati non richiede ricerca, sforzo o fatica, perchè è naturale, connesso con la vita stessa, e non conosce il crudele dolore della disillusione.

Ma è in questo romanzo che lo stato di grazia originario, sognato e di fatto irraggiungibile, da metaforico diventa in qualche modo reale, perché l’isola di Procida nella penna della Morante viene ad assumere tutte le valenze di un vero e proprio paradiso terrestre. E non si tratta solo di ambientazione: l’isola pervade di sé tutte le pagine del romanzo, dall’inizio alla conclusione, respira tra le righe, si impone all’immaginario del lettore con i suoi profumi, il suo silenzio, le mille sfumature del suo mare e dei suoi cieli nel lento e pigro trascorrere delle stagioni. La penna della Morante non descrive, piuttosto evoca, si attarda, pigra e ammaliante, rende con le parole – con la sua scrittura “esotica e familiare, naturale e iperbolica”, come la definisce Garboli nell’introduzione – l’atmosfera senza tempo di una terra che appare nello stesso tempo naturale e mitica, ricchissima e misteriosa.

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Paolo Miorandi, “Verso il bianco – diario di viaggio sulle orme di Robert Walser”

PAOLO MIORANDI – Verso il bianco – diario di viaggio sulle orme di Robert Walser – Exòrma.

“Negli anni in cui il male di vivere si era fatto più intenso e la sottile scorza che ricopre la nuda vita si era crepata, forse nulla mi ha dato più conforto dei libri di Robert Walser. Li ho letti come un credente legge le vite dei santi, per rinnovare la preghiera di una bellezza al termine dell’angoscia, di un felice oblio nella resa di ogni volontà e scopo, di una gioia ancora possibile nella sottomissione alle nuvole, al vento e alle strade che non conducono da nessuna parte.”

L’anima schiva, delicata e gentile di Walser che inseguì così tenacemente l’aspirazione a divenire uno zero assoluto, che da un angolo in disparte osservò il mondo e la vita con gli occhi di un povero poeta disconosciuto, non avrebbe forse mai immaginato che i suoi scritti, dopo quella sua morte così commovente e così misteriosamente affine alla sua essenza più profonda, avrebbero suscitato un’ammirazione quasi religiosa in quel tipo di lettore che per insondabili motivi prova una sorta di consolazione al cospetto della purezza che li contraddistingue. E non si può certo negare che quella invisibilità agli occhi del mondo a cui tanto aspirava non sia stata raggiunta, unitamente però, nel corso del tempo, all’inevitabile attenzione – ammirata e anch’essa discreta, quella che si dà allo splendore fragile di ciò che è irripetibile e inimitabile – di grandi del calibro di Kafka, Benjamin, Musil, Hesse, e ancora, Canetti e Sebald, che gli hanno riservato un posto privato, del tutto avulso da correnti e tematiche, tra i grandi scrittori della letteratura tedesca del Novecento. 

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Marco Steiner, “Isole di ordinaria follia”

MARCO STEINER – Isole di ordinaria follia – Marcianum Press

La pioggia gialla

“Su quest’isola il vento e la rabbia hanno arato la terra con unghie sfibrate, hanno seminato note in un vuoto spartito,/ e la terra s’è mossa rotolando nel vento, ha raggiunto la riva, s’è infilata/ nel mare, s’è imbevuta di nuvole e sale, ha allungato alghe e radici per/ raggiungere e afferrare Venezia, perchè Venezia è l’utero delle storie di/ mare.”

Ci sono libri che nascono da una passione intelligente, dal desiderio di assecondarla, di nutrirla, di condurla ad esiti inaspettati e di lasciare che poi continui a percorrere la sua strada. In questo libro – che parla di follia, che si avvicina al buio spaventevole della follia, anzi, che ad esso aderisce penetrandolo – si avverte, decantata e modulata, la passione per il mare, per quella città sempre sognata e forse mai del tutto compresa nella sua inesauribile essenza che è Venezia, per le vite degli uomini spesso avviluppate intorno ad un nucleo doloroso, per il mondo circoscritto delle isole, luoghi conclusi serrati in se stessi, così affascinanti per qualsiasi immaginario letterario, per le tracce indelebili che la letteratura è in grado di incidere nella mente e nell’anima e, infine, per il viaggio, reale o metaforico che sia.

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Carmelo Samonà, “Fratelli e tutta l’opera narrativa”

CARMELO SAMONÀ – Fratelli e tutta l’opera narrativa – Oscar Mondadori

Fratelli
“Immagini un angelo caduto,” – disse lentamente – “non per superbia, ma per un errore del caso. Conserverà la bellezza delle sue origini, la parola alata, i movimenti fatui; i suoi occhi nasconderanno un mistero, il suo corpo sarà fragile come un cristallo. Ma è un angelo caduto: dunque una creatura anomala, dolorosa e goffamente sublime. E’ umana? Certamente è composita, e dunque è anche umana, ma fra i propri simili rimarrà sola e sperduta e sarà punita e reietta.” (da “Casa Landau”)

Carmelo Samonà, riconosciuto come uno tra i maggiori studiosi di letteratura spagnola in ambito internazionale, pubblica il suo primo romanzo, “Fratelli”, all’età di circa cinquant’anni, nel 1978. Ad esso seguirà “Il custode”, nel 1983, e “Casa Landau”, pubblicato postumo nel 1990. I tre volumi risultano attualmente ancora reperibili, sia pur con qualche difficoltà, da chi voglia conoscere l’opera di un autore coltissimo e raffinato che ha fatto della letteratura per molti anni l’oggetto di uno studio appassionato, per trovare poi una propria voce, personalissima, evocativa e profondamente intensa, in grado di creare uno spazio letterario inedito. 

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Valerio Aiolli, “Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia”

VALERIO AIOLLI – Il carteggio Bellosguardo. Henry James e Constance F. Woolson: frammenti di una storia – Italo Svevo – Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile

Camminare

“Nell’aprile 1880 Constance prese alloggio a Firenze, in qualcosa di molto simile a una camera con vista. Venne a sapere che anche Henry era in città. Lei lo considerava il più grande scrittore del suo tempo. Lo ammirava senza riserve. Desiderava ardentemente conoscerlo, e gli aveva già inviato diverse lettere in cui gli chiedeva un incontro. Lui non aveva mai detto di no. Gliene inviò un’altra”.

Ho scelto di leggere questo piccolo libro per devozione nei confronti di Henry James e per il titolo accattivante della collana di cui fa parte. In un mondo editoriale di annunci roboanti e di quarte di copertina che apparentano nuovi sconosciuti autori a giganti indiscussi della letteratura, ponendo salde basi per smentite e delusioni, l’inutilità, affermata con un pizzico di ironia, è senza dubbio una virtù. Come lo sono l’onestà intellettuale e la misura, quando si tratta di rendere conto, se non di una fascinazione, senza dubbio di un acceso interesse –  e di lasciarlo decantare ridando voce ad avvenimenti, occasioni e atmosfere –  senza snaturare il suo oggetto ai propri fini. Ho trovato un piccolo libro delicato e in qualche modo gentile, raffinato nella grafica e nella impaginazione; piccolo, denso ed equilibrato.

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Michele Mari, Francesco Pernigo “Asterusher – Autobiografia per feticci”

MICHELE MARI, FRANCESCO PERNIGO – Asterusher – Autobiografia per feticci – Corraini Edizioni

Asterusher

“Perché questo noi siamo: la nostra scrittura e le nostre cose; questo il nostro lascito e, ben più esattamente che in una nota biografica, il nostro curriculum”.

Inizio col dire che, per struttura, forma, composizione, scelta di materiali e colori che lo fanno assimilare ad un piccolo catalogo d’arte, il libro soddisfa sia il senso estetico che la curiosità del lettore e appare, semplicemente al tocco o anche al primo frettoloso sguardo, particolarmente accattivante. Una simmetria piana e ordinatrice sembra deputata a contenere, senza disperderla e senza soffocarla o immiserirla, una materia iconografica e linguistica sovrabbondante che respira e agisce ben oltre il primo sguardo o la prima lettura. Si tratta di case, o meglio, di interni di case, delle due in cui la vita di Mari è trascorsa e trascorre, di case e di oggetti in essa contenuti – “Le case sono mie: mia la vita trascorsavi; miei gli oggetti e il senso che li investe” – quella di Nasca, la casa avita, di campagna, e quella di Milano. Ad esse sono dedicate le due sezioni del volume, i due repertori fotografici, identici nel numero di pagine, ventitré per ogni casa, e nella impaginazione (le fotografie – bellissime, di Francesco Pernigo – occupano gran parte della pagina e sono introdotte da didascalie che, per la loro natura, non tanto e non solo esplicativa, costituiscono la parte letteraria del volume).

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Michele Mari, “Rondini sul filo”

MICHELE MARI – Rondini sul filo – Mondadori

Rondini sul filo – Michele Mari

“[…] suadente come seguisse una musica che sente lei sola, esperienza inquietante ascoltarla, quasi le sue parole avessero dita che ti frugano il cuore… prima un solletichino bello, grazioso… poi certe lame! che non hai scampo! che diventi un Francis Bacon! che ha ragione lei! sempre! la gran filosofessa! mica poco triste sta donna, malinconica molto, sempre in comunione con le altitudini… gliela dettano le altitudini la sua malinconia iridescente, le angelelle dorate gli zefiri rosa… bella quando è così dolente, ispirata… la nobilissima virgo vestale! che allora puoi fare il confronto fra l’epidermide che ti è data in sorte e tutti i Misteri che si tiene per sé, allora soltanto! allora ch’è un’Altra! che ti senti un lombrico da tanto volteggia leggera, si libra… creatura affatata, esistita da sempre… vede tutto sa tutto… antica, anteriore… futura… poter salire con lei, un pochino, alleggerire la mia vita dannata…”

“Rondini sul filo” è un monologo delirante, lungo 346 pagine, senza soste o remissione, fluviale e dirompente, che non ammette ostacoli, che non tollera indugi e che richiede al lettore di condividere la sua stessa energia con la disposizione a lasciarsi travolgere. Non esiste altra possibilità: o si corre col cuore in gola appresso a queste righe, o si chiude il libro e non si procede oltre. Ogni libro possiede il suo ritmo e il suo respiro, ogni linguaggio detta i suoi tempi. In questo romanzo di Mari, la cifra costitutiva è la frenesia di una lingua che definire lussureggiante è ben poca cosa. Perché in effetti è lei che signoreggia la pagina, è lei che avvolge il suo oggetto – sostanzialmente la donna amata dall’io narrante, o meglio dire parlante – ed è sempre lei che si fa carico di quella ossessione che è il tema dominante del romanzo, sostenendola e declinandola all’infinito, in mille e mille modi, con una creatività che dilaga, su se stessa ritorna, trova nuovo slancio e costruisce nuove architetture.

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Ermanno Cavazzoni, “Storia naturale dei giganti”

ERMANNO CAVAZZONI – Storia naturale dei giganti – Guanda

 La visita della vecchia signora

“Passa febbraio, coi suoi gatti, e i suoi coriandoli lungo gli scoli. E io me ne sto qui scapolo, contro ogni legge impellente della natura, contro l’istinto, che dice che in febbraio ci si congiunge, con la prima che passa. Qui non passa nessuno”.

Non c’è alcun dubbio: i libri di Cavazzoni riservano al lettore il piacere di un intrattenimento scanzonato che trascina e avvince come farebbero le parole di un abile conversatore del tutto scevro da magniloquenza, amante dei ritmi lenti, nemico dell’effetto e felicemente riluttante al rigore canonico della disquisizione. La leggerezza coinvolge, contagia, libera e predispone al puro godimento intellettuale. A patto che la sua natura non derivi dall’inconsistenza o dalla banalità. Ma non è certo questo il caso, perché il divagare scanzonato di Cavazzoni ha una base colta, anzi coltissima, il suo oggetto – i giganti – è pescato direttamente dalla tradizione letteraria cavalleresca italiana, e non solo, del XV e XVI secolo, in poesia ed in prosa, comprensiva di origini ed epigoni, e la sua scrittura, diciamo così, affabulatoria, si dipana a partire da una accurata ricerca filologica, testimoniata anche dalle appendici al volume che riportano rispettivamente l’Indice dei giganti citati nel testo (e sono ben 132), e quello delle principali opere citate (65). E colta è anche l’intenzione, manifesta nel titolo, di compilare un trattato di storia naturale di questi esseri fantastici, ormai estinti nell’immaginario letterario. “Eppure sono stati una cosa gloriosa, a quanto dicono i poemi di cavalleria; una popolazione gloriosa di cui oggi poco si sa, purtroppo, dei loro usi, costumi, caratteri fisici, tendenze sessuali, sistemi riproduttivi, manie, sociologia; e poi decadenza e scomparsa; perché a questo mondo tutto finisce”, scrive l’autore nell’introduzione al libro che funge da “Dedica futura”, perseguendo poi il suo intento mediante una suddivisione del testo in paragrafi che richiamano seppur vagamente alla mente la trattazione scientifica tesa ad indagare intorno alla natura di animali pregiati in via di estinzione.

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Ermanno Cavazzoni, “Il poema dei lunatici”

ERMANNO CAVAZZONI – Il poema dei lunatici – Bollati Boringhieri

il poema dei lunatici“Ma la mia educazione l’ho avuta dai tetti, e mio padre era davvero l’aria del cielo, e mia madre l’odore che viene d’estate su dalla terra. E io stavo tra mio padre e mia madre sui tetti della città, e mi sono educato così”.

Lieve come una bolla di sapone, e come lei iridescente, della stessa sostanza del fumo e della nebbia, come suggerisce l’epigrafe ariostesca, felicemente demente ma estremamente fedele alla propria strutturata illogicità, che si esalta in un crescendo spumeggiante per poi spegnersi in una dolce e lenta bruma malinconica, l’opera di Cavazzoni mi appare come un inaspettato e riuscitissimo esempio di epopea padana. Questa piana che allontana l’orizzonte e induce a fughe e inseguimenti, macina il tempo e invita all’operosità, così chiara, aperta, a se stessa uguale e prevedibile, così parca di nascondigli e così ostile al deviante vagare, svela in queste pagine una sua dimensione fantastica che è propria “dei recessi e dei segreti del mondo”, invisibile ai più, irriverente e irridente, candidamente estranea alla logica, ma anche caparbiamente intenta alla sua opera di smascheramento della realtà, o meglio, di svelamento di una realtà parallela.

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