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letteratura slovena

Drago Jančar, “Aurora boreale”

DRAGO JANČAR – Aurora boreale – Bompiani
Traduzione di Darja Betocchi e Enrico Lenaz
Prefazione di Claudio Magris

Aurora boreale

“E in questa città, tra non molto, il passo di parata volgerà in vorticosa e folle danza di sangue; tutti coloro che oggi marciano al suono di canti e bande diverse, tra non molto si salteranno alla gola. Tedeschi e sloveni, comunisti, nazionalsocialisti, jugoslovenarij, serbi, bulgari, cosacchi, operai e contadini, sportivi e camerieri, compagni di scuola e colleghi, fratelli e sorelle, madri e figlie, padri e figli, l’uno con l’altro e tutti con tutti, si sgozzeranno biascicando con voce strozzata le parole delle loro marce, le labbra spaccate, gli occhi cavati, i crani sfondati, i ventri lacerati, e le loro gole squarciate esaleranno in un rantolo i giovani, luminosi, eroici canti delle mattinate domenicali del 1938.”

Bastano le prime pagine, basta lo splendido incipit e subito il lettore si rende conto di trovarsi tra le mani qualcosa che da tempo non sperimentava più, di essere catapultato e invischiato in atmosfere dense, corrusche, premonitrici, che riecheggiano per potenza l’aria dei grandi romanzi della letteratura mitteleuropea. Non a caso lo scrittore sloveno è così apprezzato da Claudio Magris che introduce il presente volume (uscito in Italia nel 2008) facendo anche riferimento alla raccolta di racconti dello stesso autore pubblicata da Ibiskos Editrice Risolo, dal titolo “L’allievo di Joyce” (2006); non a caso un altro romanzo di Jančar, “Il ronzio” (Forum, 2007) è inserito nella collana “oltre” – oltre i confini, al centro dell’Europa – diretta da Luigi Reitani. Nomi che sono una garanzia e che predispongono il lettore all’incontro con un’opera di grande valore, quella che lo stesso Magris definiva, in un articolo apparso nel 2006 sul “Corriere della sera”, “la discesa in un abisso, in cui un’umanità sofferente e sbandata affonda, si corrompe e si distrugge”. 

L’azione – se così possiamo chiamarla – è racchiusa entro limiti temporali ben precisi: dal 1° gennaio 1938 a qualche giorno prima di Pasqua dello stesso anno; tutto si svolge a Maribor, la città slovena al confine con l’Austria – che dieci anni dopo darà i natali allo stesso autore – allora appartenente al Regno di Jugoslavia, posta al confine tra il mondo slavo e quello tedesco. E’ all’interno di questi limiti spaziali e temporali che si dispiega la struttura narrativa di un romanzo che procede con i movimenti lenti di una spirale: ad ogni passo la realtà si confonde sempre più con la visione e con la premonizione, ad ogni passo si avverte sempre più chiaramente quanto si faccia più vicino l’abisso che inghiottirà il protagonista e il suo mondo, che è poi il nostro mondo in bilico sull’orrore del secondo conflitto mondiale e delle aberranti ideologie che ad esso hanno condotto. 

Jančar affida ad una figura apparentemente secondaria, ma di grande potenza letteraria, il compito di aprire e chiudere il romanzo, di mantenere viva quella cifra metafisica che lo rende inquietante ma anche straordinariamente tragico, patetico e persino poetico: Fedjatin, il folle in Cristo, che sembra uscito direttamente dalle pagine di un romanzo russo per testimoniare con le sue parole che “i presentimenti esistono proprio per condurci con certezza verso ciò che è inevitabile”. Il suo incontro con il protagonista, Josef Erdman, all’alba del primo gennaio 1938, riempie le prime impareggiabili pagine del romanzo di una cupa e sottile angoscia amplificata dalle facciate scure e fatiscenti delle case di Maribor, dalla via sudicia ricoperta da uno strato di fanghiglia nevosa, dal buio denso che allarma i sensi. Un uomo dal viso “deforme e ispido”, dal corpo “che s’agitava senza posa, smanioso”, con “piccoli occhi, vuoti e profondi, come fossero l’orlo di un abisso, o di una tenebra senza fine”, “gli occhi di chi teme qualcosa […] che semplicemente, fatalmente avverrà, e che non è possibile eludere”. Fedjatin, “nunzio mattutino, messaggero della resurrezione”, forse un pazzo, un idiota, un ubriaco, o forse solo un uomo accecato dalla luce della rivelazione, mette in allarme, all’alba dell’anno che precede la catastrofe – quella che Magris definisce nel titolo della sua introduzione “L’aurora di sangue della Storia” – e continuerà a farlo comparendo nelle pagine del romanzo, per poi concluderlo, agitandosi e urlando il suo annuncio messianico, perchè “nel 1938, pazzi, assassini e demoni certo non mancarono…”. 

Parte da qui la costruzione, articolata e densissima, di un romanzo che, con estrema abilità percorre la lenta e dolorosa dissoluzione della mente di Josef Erdman, di una città, dei suoi abitanti, di una socialità sempre più malata e indolente, oppure vittima di pregiudizi e demoniache ideologie, senza intelletto e senza pietà, inconsapevole specchio di un mondo intero che si agita sull’orlo della rovina. Perchè i mondi finiscono, con allarmante ripetizione, perchè la letteratura, per insondabili motivi, mentre accompagna e racconta questa fine, fiorisce e la illumina con il bagliore del grande stile: “Restò là, solo, appoggiato al muro sull’Aleksandrova, pervaso da un inestinguibile stupore per il poderoso e roboante silenzio di quel mattino, per quel vibrante silenzio sospeso sulla Mitteleuropa, che echeggiava sui muri delle vie di Praga e, fluttuando basso, s’insinuava inavvertibile a consumare la costa di Duino”, così Jančar, osservando il suo protagonista che si accinge a scivolare, letteralmente, “nel baratro limaccioso della Storia”, dice l’universo a cui appartiene, come uomo e come scrittore, così nel 1984 ripercorre le premonizioni del 1938, ma non può fare a meno di ripensare e di celebrare, per gli splendidi frutti letterari che ha generato, l’epocale fine di un mondo precedente e da noi così lontano, quello della Praga di Kafka e della Duino di Rilke, di quella mitteleuropa che si apprestava a sbriciolarsi, a perdere la sua antica identità politica e culturale e a sopportare i frutti di una ferocia forse mai prima sperimentata. Ed è proprio alla tradizione del romanzo mitteleuropeo che guarda l’autore sloveno, alla sua capacità di fondere, come sottolinea Magris nella sua introduzione, poesia e conoscenza; si nutre di questa tradizione e la rinnova, organizzando la sua materia narrativa in una struttura che appare storica e metaforica insieme, così che il lettore possa essere stimolato, avvinto, ma anche messo in allarme, perturbato e infine posto di fronte ad interrogativi che non possono non investire la nostra stessa attualità. 

Potentissima, pur nella sua inafferrabilità, è la figura del protagonista, Josef Erdman, un commesso viaggiatore che torna a Maribor, sua città natale, per un supposto incontro di lavoro e che, di fatto, attende qualcuno che non arriverà mai, cerca qualcosa che non riesce a trovare inseguendo i suoi ricordi d’infanzia, viene inseguito non si sa da chi, sospettato dalla polizia e controllato per crimini supposti e non commessi. Un uomo senza qualità, dunque, incerto persino della propria identità, “ignoto a se stesso”, fatalmente adatto ad essere coinvolto e trascinato dalla montante onda di dissoluzione che come un’ombra sta calando sulla città. Josef (come Josef K, il protagonista de “Il processo di Kafka”) Erdman (come Nicolaj Erdman, lo scrittore sovietico autore della commedia “Il suicidio”) è in realtà la vittima collaterale di un male pubblico che diventa privato e che lentamente riempie il vuoto della sua coscienza, la sua inconsistenza, la sua fragile personalità, incline alla perdizione. Jančar riesce con estrema abilità a cogliere le prime avvisaglie del male assoluto, a graduare la sua intensità fino al completo manifestarsi del suo potere di corrompere le coscienze, di invadere lentamente con la sua ombra la stessa sanità mentale del protagonista, lo conduce verso il più aberrante contagio della vita dei singoli, fino a provocare un atroce delitto immotivato che ricorda le pagine più cupe dei romanzi di Dostoevskij. 

La vittima, Margherita Samsa (Margherita come la protagonista del “Faust”, ma anche de “Il maestro e Margherita” di Bulgakov; Samsa come il protagonista de “La metamorfosi” di Kafka), infelice, bellissima e disillusa, amata disperatamente da Erdman, dona al romanzo pagine di poesia malinconica e struggente, perchè anche l’amore e la passione non riescono a sottrarsi a quell’ombra livida che pervade tutto: “Fumavamo, lei sollevava con movimenti morbidi la mia mano e la contemplava a lungo, come se volesse imprimerne le forme nella propria memoria. Anche il suo sguardo era morbido. Parlava quasi sussurrando. Mi ha raccontato di un paesino del Pohorje, sul versante meridionale della montagna, nel quale era nata. Mi ha raccontato dello stormire degli abeti sul Pohorje, dove il vento non si abbatte a raffiche come si abbatteva in quel momento sul ballatoio sospeso sul cortile, ma soffia e canta attraverso i rami degli alberi, in una sorta di ululato ora malinconico e lieve, ora tetramente lugubre”. 

E poi tutto tracima e il romanzo cambia ritmo, diventa travolgente, grottesco e persino apocalittico, poi arriva l’aurora boreale, secondo gli antichi “foriera di guerre, di calamità e d’ogni genere d’umana tragedia sul nostro pianeta”, il fenomeno luminoso che, del tutto improbabile e inaspettato a latitudini così basse, compare effettivamente nei cieli della mitteleuropa il 25 gennaio 1938, evento che nella penna di Jančar dà vita a capitoli di una terribile bellezza. Confusa a Maribor con la luce di un incendio spaventoso, con il terrificante preambolo della fine del mondo – “Ecco quanto avverrà in quel giorno: non vi sarà luce, ma freddo e gelo. E sarà un giorno unico, non sarà nè giorno nè notte, e sulla sera verrà la luce”, i versetti dell’Apocalisse di San Giovanni accompagnano la narrazione rendendola più drammatica – l’aurora boreale, “l’orrore rosso sangue”, scatena il panico tra gli abitanti della città, esalta il folle in Cristo, convinto che la redenzione sia ormai vicina, accelera la discesa della mente di Erdman verso la follia: “Questa terrificante luce ti rimane nei bulbi oculari, e le tue sclere saranno per sempre rosse e insanguinate, chiunque sia la persona su cui leverai lo sguardo. Perciò questa, è un’angoscia impossibile da dissipare. Perchè proviene dall’aldilà, dall’imperscrutabile. Penetra in te, nelle tue cellule, e poi rimane lì acquattata. Quando si ridesta, incomincia a vibrare, trasmettendoti un tremito che ti fa vacillare sull’orlo di un pauroso baratro, il baratro che ogni essere umano ha dentro di sé”. Un grandioso auto da fè foriero della catastrofe che di lì a poco si verificherà. 

Quando il fenomeno cessa, lascia strascichi di disumanità e violenza che l’autore condensa nelle pagine altrettanto belle e terribili del carnevale di sangue. L’alcol, il torpore, la mancanza di ogni freno danno vita a una festa grottesca e lugubre, orde di maschere, “come cupe apparizioni pagane”, invadono le strade e le bettole della città, lasciandosi trasportare dalla loro ebbrezza, come guidate dal volere di un nuovo demone, ancora più potente di tutti quelli da loro conosciuti, che li incita alla violenza immotivata. Non sembra più un carnevale ma una ridda di pericolosi indemoniati: “Le vie erano brulicanti di maschere, di gente ubriaca e di visi sorridenti. Cercavo di evitarli, perchè mi pareva che alcuni di essi, sotto la maschera, stessero diventando violenti. Soprattutto un boia col coltellaccio da macellaio alla cintura, che faceva saltare i passanti schioccando una frusta sotto i loro piedi”. E sembra davvero in alcuni punti di ritrovare nelle pagine dello scrittore sloveno l’atmosfera e il ritmo del gran ballo di Primavera raccontato da Bulgakov ne “Il maestro e Margherita”, dove i crimini commessi dall’umanità sfilano al cospetto del diavolo. Ma ormai nel mondo si è aperta una crepa e in essa si è insinuato il male, la morte avanza a grandi passi e la gioventù del ‘38 ama “il passo vigoroso, il canto gagliardo, il muscolo teso, la voce chiara” e questo grande romanzo è un grido che si leva alto per denunciare ciò che è stato, per mettere in guardia con le armi della grande arte dai nazionalismi di qualunque forma e colore e dalle ideologie totalitarie: “Da oriente a occidente, i giovani marciano al passo. La gioventù marcia per i rossi, marcia per i neri, marcia per il socialismo tedesco, marcia per quello russo. Per l’espansione del territorio nazionale, per la difesa del territorio nazionale, per la salvaguardia dello spazio vitale, marcia e intona canti di vittoria. Dietro al capobanda, che sopravviverà, marcia una gioventù che non sopravviverà. La città in cui marcia oggi, non è altro che l’eco della vasta regione mitteleuropea, che risuona e rintrona di marce che i giovani perfino in sogno vanno ripetendo e con cui accompagnano la banda a capo della parata”.

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vengodalmareM
4 years ago

Un’altra grande curiosità si è accesa in me, grazie.

Renza
Renza
4 years ago

La bellezza terribile di questo romanzo, cara Anna, è anche prodotta, io credo, dalla bellezza sontuosa di questa tua recensione. Ho preso nota di un testo che non leggerò subito. Tremenda la vicenda e poi da poco ho avuto un’ esperienza non felice con un romanzo croato ” Ruta Tennenbaum”, di Miljenko Jergovic. Faticoso nello stile, confuso e piuttosto ” autoctono” nei riferimenti storici. Un limite mio, naturalmente. Grazie per le recensioni suggestive che ci riservi.

ornella_spagnulo
3 years ago

Mi emozionano molto le foto dell’aurora boreale

ornella_spagnulo
3 years ago
Reply to  dietroleparole

Bene! Passa dal mio blog se ti va

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