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letteratura austriaca

Hugo von Hofmannsthal, “La donna senz’ombra”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – La donna senz’ombra – SE

donna-senz'ombraElogio dell’ombra, dell’imperfezione e del limite, perché solo l’ombra, l’imperfezione e il limite, e quindi l’idea della morte, intesa come consapevolezza della ineluttabilità della fine, hanno in sé i germi della fecondità e quindi la forza capace di generare la vita, e quella irrinunciabile vita dello spirito che è la creazione artistica. A circa un secolo dalla pubblicazione della “Storia straordinaria di Peter Schlemihl” di Adelbert von Chamisso, Hugo von Hofmannsthal si impadronisce di questo fecondo topos letterario, lo reinterpreta, lo rielabora, lo stravolge e se ne lascia conquistare, creando la prosa cristallina e rarefatta del suo ultimo testo narrativo, apoteosi e vertice di una produzione che sarà successivamente dedicata unicamente al teatro. Nata contemporaneamente al libretto per l’omonima opera di Richard Strauss (rappresentata per la prima volta a Vienna il 10 ottobre 1919), “La donna senz’ombra” si trasforma ben presto nelle mani di Hofmannsthal in un racconto autonomo che sottopone il suo autore ad uno sforzo compositivo notevolissimo, testimoniato dagli stralci tratti dai suoi epistolari, riportati nella Postfazione alla presente edizione curata da Elisabetta Potthoff. Un lavoro che procede nel segno della sottrazione, della decantazione e della purificazione di una trama nata sotto l’insegna della potenza icastica della fiaba e della vertigine della polisemia, dell’accumulo di significati e quindi di possibili interpretazioni.

Alla penna di Hofmannsthal è affidato il difficile – e riuscitissimo – compito di far convivere due istanze così apparentemente opposte: la leggerezza e la pregnanza di significato. Perché “La donna senz’ombra” è una favola eterea, colma di lucori e di riflessi, di apparizioni, trasformazioni, metamorfosi e scomparse, di ambientazioni rarefatte, raffinate e preziose come i fondali di una stampa cinese, sostenute da uno stile alto, da un linguaggio cesellato e che rimane tale sia che si tratti di percorrere le stanze dei palazzi imperiali, oppure i vicoli maleodoranti della città o di soffermarsi nella povera casa del tintore. Una favola dolce e felice che sembra scorrere indulgendo sulle ali della più fervida fantasia e che a tratti ricorda il mondo magico del “Flauto” mozartiano, ma anche il “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare. Ma sono solo echi, impressioni ed analogie, perché in realtà le fonti alle quali Hofmannsthal si ispira sono ben altre e l’accurato lavoro della Potthoff le fornisce al lettore, dandogli l’opportunità di entrare nella biblioteca dello stesso autore e di seguire la progressiva evoluzione della sua fantasia creatrice attraverso le annotazioni da lui scritte a margine di una serie di volumi. Privilegio raro ed anche emozionante che permette di entrare in contatto con quelle che probabilmente sono state in nuce la prima origine di una idea compositiva. Le tappe successive sono nascoste nel mondo inaccessibile della creazione artistica; a noi lettori è però dato sapere – dalle lettere dello stesso Hofmannsthal, molte delle quali dirette a Richard Strauss – che questa favola era giudicata dal suo autore “un lavoro tanto ricco” da procurargli “una profonda gioia”, ma anche il lavoro più difficile che avesse mai intrapreso. E’ quindi lui stesso ad indicare indirettamente le sue principali fonti di ispirazione: “Le fiabe” di Carlo Gozzi, la “Favola” e il “Divano occidentale-orientale” di Goethe, oltre all’oriente de “Le mille e una notte”, l’esotismo del “Vathek” di Beckford e “Il matriarcato” di J.J. Bachofen (che contiene le credenze degli egizi e in particolare le teorie per le quali “un uomo mortale non può trasmettere ad una dea immortale il principio della fertilità e proprio da questa impossibilità prenderà avvio la favola”, scrive la Potthoff) e, infine, un testo di Silberer (“Problemi della mistica e dei suoi simboli”) che fornisce un ricco repertorio di motivi simbolici.

La favola, nella sua leggerezza, o meglio nel suo aristocratico distacco da ogni tentazione realistica, è in realtà, come tutte le favole, una discesa, una immersione nel mondo degli archetipi e nelle figure del subconscio; questo, nella Vienna dei primi decenni del Novecento rappresentava la capacità di cogliere i più moderni fermenti culturali, assorbirli e trasformarli in nutrimento ed ispirazione per un artista che aveva da tempo denunciato, con la “Lettera di Lord Chandos” l’incapacità della parola di dire il mondo. E invece le parole de “La donna senz’ombra” non sono solo in grado di dire, ma anche di alludere, sono portatrici di una pluralità di senso, richiedono ipotesi interpretative, affascinano con le immagini che sono in grado di creare ma anche – e forse ancora di più – con gli enigmi che da queste immagini scaturiscono. E’ lo stesso autore ad affermarlo in una sua lettera del luglio 1914, dove, parlando della sua opera ne evidenzia e sintetizza la sua natura peculiare: “Nella favola, dove ora voglio con ogni mia forza immergermi totalmente, sono solo – posso e devo impadronirmi del suo contenuto fantastico, realmente senza limiti, in tutta la sua profondità e certo non riuscirò a riportare del tutto in superficie il suo significato, ma riuscirò forse a mostrarne la bellezza – certo non in modo diretto, bensì attraverso lo stadio misterioso della creazione: attraverso l’analogia”.

Certo, perché se l’idea goethiana dell’impossibilità per l’uomo di vivere con pienezza la vita se non a patto di perdere tutte le più alte prerogative della propria umanità  – l’anima, lo spirito – barattandole nel patto con il diavolo ha dato alla letteratura la potenza e la terribile bellezza del “Faust” (oltre a innumerevoli altre figure, sue prolifiche variazioni, una fra tutte il “Peter  Schlemihl” di von Chamisso), che cosa può succedere, quali abissi di senso possono aprirsi se è la perfezione, l’immortalità, il puro spirito a desiderare, inseguire ed infine conquistare l’ombra, simbolo della corporeità, della creaturalità dell’uomo, che non si è dato la vita, non è in grado di trattenerla ma, opportunità  straordinaria, è in grado di perpetuarla? Può solo avvenire un completo stravolgimento di un topos letterario: l’ombra diventa un irresistibile oggetto del desiderio perché la magia è infeconda, può trasformarsi e immedesimarsi, ma non può connettersi con il vivo fluire dell’esistenza, non può generare un’altra vita per poi dissolversi, avendo però contribuito al perpetuarsi della catena vitale. “Saldare la fine all’inizio” è il motore che muove i diversi motivi della macchina narrativa di Hofmannsthal, “unica grande metafora dell’umano esistere”.

Detto questo, che è moltissimo se si pensa all’altezza metafisica, ma anche, come sostiene Hermann Broch, morale del tema, che non viene affidato ad una trattazione filosofica, ma ad una narrazione fantastica, la penna di Hofmannsthal si inoltra nei territori onirici del subconscio e del sogno, riportando alla superficie figure capaci di avere una vita autonoma, ma anche di collegarsi le une alle altre, come le due parti di un doppio. Prime fra tutte le due figure femminili, protagoniste di tutta la vicenda nelle loro opposte istanze riguardo alla maternità: l’imperatrice, fata e figlia del potente signore degli spiriti, che per amore del suo sposo deve guadagnarsi la propria ombra mortale, scindere i suoi legami con il regno degli spiriti e diventare un vero e proprio essere terrestre concependo un figlio, pena l’avverarsi di una terribile maledizione, la pietrificazione del suo amato, la sua morte per inaridimento, l’estinzione del suo spirito; e la moglie del tintore, condannata ad una vita di stenti, legata ad un uomo incapace di comprenderla e di soddisfarla, destinata a veder sfiorire la propria bellezza e quindi decisa a preservarla il più a lungo possibile non concependo figli che la possano mettere in pericolo. Non c’è posto per il diavolo nella favola di Hofmannsthal, perché il patto viene stabilito tra queste due donne, incarnazione di due aspetti che coesistono drammaticamente nella femminilità, nelle sue istanze di autorealizzazione e di donazione di sé: “Guarda, sono bella, e questo non è cosa per gente come te, perciò non hai saputo sciogliere i nodi del mio cuore. La mia bellezza ha attirato un altro, perché è un potente sortilegio […] quindi ho stretto un patto e cedo la mia ombra e gli indesiderati [i figli non nati] con essa; è stabilita una ricompensa, e te la voglio dire: è la morbidezza eterna delle guance e i seni che non sfioriranno mai, davanti ai quali tremano quelli che devono venire a salutarmi”. Non c’è bisogno del diavolo, forse perché la carne e lo spirito sono potentemente dominati dalla femminilità e dai suoi rapporti con gli amati/odiali partners, anche loro – imperatore e tintore – dualisticamente compenetrati in questa ricerca di quella genitorialità che appare loro come l’unica possibilità per immergersi in modo fecondo, e quindi dotato di un senso, nel fluire della vita. L’ombra, potentemente simbolica, oggetto di desiderio e di ripulsa è al centro esatto della favola, fulcro unitario e custode del suo significato più profondo, oltre che motivo a cui è legata la risoluzione positiva della trama. L’ombra che dà spessore e consistenza, ritaglia i volumi, ancora alla terra, costringe lo spirito a fare i conti con la corporeità e che, nel delirio interiore che il subconscio schiude, può essere, anche se illusoria e fugace, una prova tangibile di esistenza.

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