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letteratura ceca

Pavel Kohout, “La carnefice”

PAVEL KOHOUT – La carnefice – Editori Riuniti

“Non è la prima volta, in cinquantatrè anni di vita, che reagisco a un disastro con un libro. Per me, evidentemente, scrivere è un esercizio elementare di autoconservazione” (P. Kohout)

“… eccola qui, la nostra prima futura esecutrice, e molto probabilmente anche la prima carnefice del mondo”. Sì, eccola qui, Lízinka Tachecí, l’esile fanciulla poco più che adolescente, con i suoi gomiti e le sue ginocchia fragili, il visino ancora infantile che si perde in una massa di lunghi capelli d’oro, la deliziosa fanciulla dal viso d’angelo, la brava bambina della media borghesia praghese, priva di cultura e anche di senno, ma dotata di una splendida bellezza e di una istintiva praticità, priva di passioni ma pervasa di innocenza, l’innocenza dell’indifferenza. Eccola, la promettente candidata ad assumere l’ambìto ruolo di prima donna boia, destinata ad eccellere alla scuola di formazione del perfetto carnefice. Lízinka, prima splendida apprendista e poi acclamata diplomata, che non ucciderà mai, se non una gallina e una capra durante l’esame di ammissione alla scuola e nel saggio di fine anno, quando impiccherà in modo pulito, rapido e impeccabile il suo ex docente. Una protagonista perennemente presente nelle pagine del romanzo, a partire dal titolo, che regge incredibilmente la scena, dà un ordine alle fila della narrazione senza pronunciare mai una sola parola – se non la grottesca battuta che la conclude – senza elaborare un pensiero di senso compiuto – la sua mente sembra solo reagire meccanicamente a stimoli, perlopiù visivi, ripercorrendo sempre i binari dell’analogia – assolutamente impermeabile alle sensazioni e ancora di più ai sentimenti.

E’ intorno allo stolido e imperturbabile nulla dell’animo di Lízinka che Kohout costruisce il mirabile, arguto e sorprendente edificio del suo romanzo, è intorno a questa protagonista così priva di complessità, di sfaccettature, di luci e di ombre, di fascino insomma, che restano invischiati come in una rete tutti, assolutamente tutti i numerosi personaggi del romanzo. E’ seguendo la fosca vicenda che la vede coinvolta che il lettore, nell’affastellarsi di ipotesi interpretative che il testo, pur godibilissimo anche solo per la sua trama avvincente e serrata, fin da subito sembra richiedere, viene catapultato nel mondo delle vittime e dei carnefici, della punizione e della colpa, del diritto e della prevaricazione e, su tutto, nel labirinto senza via d’uscita della crudeltà, nuda e cruda, asettica e persino teorizzata, resa inevitabile e, in una logica tutta interna al romanzo, necessaria.

Poiché Pavel Kohout è uno scrittore ceco, è difficile, leggendo alcune di queste sue pagine, non ritrovarvi l’eco potente del racconto kafkiano “Nella colonia penale” e la satira brutale del  romanzo di Ladislav Fuks “Il bruciacadaveri”. Senza voler mettere in atto un tentativo di ricostruzione di fonti letterarie o, peggio, voler istituire inutili e impossibili confronti, mi limito a segnalare che il tema della crudeltà, resa oggettiva, quasi intima, sfrondata dalla sua valenza emozionale, affidata alla dettagliata descrizione del funzionamento di macchine deputate alle esecuzioni, quasi a voler rimarcare la naturalezza, l’insindacabilità della punizione, della pena, e, quindi, della colpa dalla quale è inevitabilmente provocata, così da assolvere da qualsiasi responsabilità morale il carnefice, è anche una delle più forti suggestioni del racconto kafkiano; mentre l’agghiacciante costruzione sociale che rende tranquillamente accettabile la teorizzazione della crudeltà, dandole non solo una motivazione ma anche una dignità storica, scientifica e letteraria, il grottesco condotto fino al punto da suscitare una dolorosa ilarità, appartiene anche al romanzo di Fuks, alla sua utopia negativa.

Pavel Kohout, scrittore, poeta e drammaturgo, attivamente impegnato nella primavera di Praga e per questo espulso nel 1969 dal Partito Comunista cecoslovacco, è stato uno dei primi firmatari di Charta ’77, la più importante iniziativa degli intellettuali del dissenso ceco. Sottoposto per questo a continue persecuzioni, nel 1978 è costretto ad abbandonare il paese. Nello stesso anno “La carnefice” viene pubblicato a Lucerna, in tedesco, e l’anno successivo l’autore viene privato della cittadinanza cecoslovacca, perché il romanzo viene giudicato antisocialista e antinazionale. “Motivazione infondata.” – commenta Kohout – “Non sono un bambino, e so di aver espunto meticolosamente tutti gli accenni e le circostanze che potessero avere il sapore del pamphlet. Il tema non è cecoslovacco e non ha rapporti elettivi con il socialismo: è un tema universale. Purtroppo”. Ricavo queste illuminanti informazioni dalla voce stessa di Kohout, per una di quelle fortunate coincidenze che rendono ancora più avventurosa ed appagante la ricerca dei libri nell’usato. La copia in mio possesso – l’edizione è del 1980 – contiene un articolo accuratamente ritagliato e ripiegato dal precedente proprietario del volume, firmato da Vittorio Sermonti e pubblicato su “l’Unità” (purtroppo sul ritaglio non è leggibile la data), un’intervista allo scrittore ceco dal titolo “Pavel Kohout, perché ho scritto La carnefice”.

Il romanzo nasce dalla riflessione intorno alla figura del boia, colui che esercita una professione che gli permette di esprimere una pulsione atavica che cova nel profondo di moltissimi, senza mai, perlopiù, risalire dall’inconscio. Il boia è colui che uccide ordinatamente, non viola nulla, preservando comunque una coscienza immacolata. “Purtroppo”, afferma Kohout, “anche in società dove la pena di morte è stata abolita e con lei la figura istituzionale del boia, sbocciano singoli assassini o gruppi di assassini pedanti e meticolosi, che ammazzano in nome di una qualche legalità ulteriore, imitando le procedure dei vecchi apparati giudiziari, parafrasandone il linguaggio, imitandoli magari anche nell’esercizio preliminare della tortura, che praticano perlopiù secondo tecniche molto sofisticate”. Dall’articolo si apprende che le fonti del romanzo vanno ricercate nel campo sterminato di una vera e propria scienza, la “Penologia”, perché la pena di morte con il suo corredo dottrinale e tecnico, affonda le sue radici nella storia umana. In un’epoca in cui il terrore ha perso peso e risalto perché i messaggi dei mass media lo prospettano come un fenomeno ordinario, l’autore ha deciso di presentare “la pena di morte e le inesauribili pratiche della esecuzione nel modo più normale, al pari di una qualsiasi disciplina; le fasi e le modalità dell’apprendimento dovevano avere i caratteri d’un qualsiasi corso d’avviamento professionale: piccole emulazioni, innamoramenti, sotterfugi, pedanterie, esami un po’ truccati, esibizione di fine corso alla presenza dei genitori”. Insomma, l’intento di Kohout è, si può dire, la realizzazione di un paradosso costruito con il massimo scrupolo scientifico, per esprimere l’orrore per l’assuefazione all’orrore, per l’assimilazione dell’orrore alla banalità quotidiana. La costruzione del romanzo utilizza un’accattivante tecnica di montaggio che rivela, tra l’altro, la prevalente natura teatrale di un autore che nasce come drammaturgo e che quindi conta sul contributo dello spettatore nella costruzione e nella riuscita del suo spettacolo. In queste pagine naturalmente questa funzione è esercitata dal lettore che è costantemente sollecitato a ricostruire i nessi narrativi, ad attivarsi per seguire il passo dinamico e fantasioso dell’autore. Un percorso che si snoda tra “l’oro barocco” e “il fumo di torba”, per riprendere due belle espressioni usate da Giovanni Giudici nella sua Prefazione, per designare quell’impasto di eleganza e crudezza, sensualità e sadismo, clownismo e fredda follia che è forse l’anima della grande letteratura ceca.

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Alessandra
9 years ago

Come sempre un’analisi accurata e approfondita. Ma sbaglio o questo volume è fuori catalogo da molti anni, qui in Italia?

viducoli
9 years ago

Spesso metti a dura prova la mia (quasi) ferma intenzione di non leggere opere scritte dopo la seconda guerra. Questa recensione apre un’altra piccola breccia.

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