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letteratura austriaca

Peter Handke, “Prima del calcio di rigore”


PETER HANDKE – Prima del calcio di rigore – Feltrinelli

prima del calcio di rigore“Di colpo tutto ciò che lo circondava gli riusciva insopportabile. Si chiese se si fosse svegliato proprio perché a un determinato momento, cioè poco prima dell’alba, tutto diventava di colpo insopportabile. Il materasso su cui giaceva era avvallato, gli armadi e i cassettoni stavano a grande distanza contro le pareti, il soffitto sopra di lui era insopportabilmente alto. C’era tanto silenzio nella stanza semibuia, fuori nel corridoio e soprattutto fuori sulla strada, che Bloch non ce la fece più. Una violenta nausea lo afferrò”.

L’ansia del portiere, la sua paura prima del calcio di rigore, a questo allude il titolo originale di un romanzo con il quale Handke stravolge, declinandolo con modalità del tutto inedite, un racconto che all’apparenza potrebbe ascriversi al genere poliziesco, o meglio, al thriller. E’ una questione di sguardo e quello dello scrittore austriaco è sempre esageratamente aperto sulla realtà, con una visione talmente nitida da renderla estraniante, ma anche esageratamente attento a cogliere le tracce di quella oscurità interiore che rende il vivere enigmatico e inquietante. “Quei suoi occhi da poeta, da mistico, da fantasma, da angelo sullo spettacolo fuggevolissimo ed eterno del mondo”, per usare alcune delle parole che gli dedica Chiusano in “Literatur”.

Un giallo, perché da un delitto efferato prende l’avvio il romanzo, ma che l’autore sottrae agli schemi tradizionali del genere, perché il delitto qui appare del tutto privo di movente, talmente improvviso e imprevedibile da sorprendere il lettore -“Improvvisamente la strangolò”… – come non esiste traccia di investigazione, di ricerca di indizi, di prove e persino di risoluzione del caso e di arresto del colpevole; così che Handke si ritrova tra le mani un contenitore, un accenno di trama, completamente vuoto, aperto ad ogni ulteriore possibilità di stasi o di sviluppo. E quella che sceglie è la più invitante ma nello stesso tempo più straniante – invitante, straniante e ricca di suggestioni come lo è ogni metafora – cioè quella di porre il suo protagonista assassino, “l’elettroinstallatore Josef Bloch, che era stato un portiere di qualche fama”, nella posizione del portiere che attende l’attacco, senza poter indovinare da quale parte possa arrivare, mentre gli occhi di tutti sono sul pallone, e lui è solo ad attendere il calcio di rigore, che di sicuro arriverà.

Solitudine, incertezza, isolamento, sospensione del tempo, la sensazione di trovarsi e di vedersi fuori dal vivere comune, di vivere un tempo deformato, in uno spazio improvvisamente colmo di allusioni e rimandi, in una imprecisa attesa di una improbabile soluzione, come in universo parallelo, immerso però nella più quotidiana normalità: è in questa dimensione alienata che si snodano le vicende di cui Josef Bloch è il cupo, instabile e disturbato protagonista ed è esattamente in questa stessa dimensione alienata che Handke fa precipitare fin dalle prime pagine del romanzo il suo lettore. Perché gli occhi del suo assassino sono come una macchina da presa dotata di una lente deformante ed è attraverso di essa che i lettori-spettatori vedono lo spicchio di mondo teatro della vicenda e coloro che lo abitano, comparse che assurgono a ben altro ruolo nel momento in cui vengono inquadrate da una distanza esageratamente ravvicinata che dà loro spessore e, soprattutto, una sorta di magico potere nella dinamica della narrazione, perché incarnano ed oggettivano l’irritazione, il disgusto, la nausea di tutto che permeano l’interiorità disturbata di chi li osserva e ha a che fare con loro.

Allo stesso procedimento vengono sottoposti gli oggetti, ogni più piccolo particolare, tutto ciò che gli occhi di Bloch incontrano, tutto è necessario per quella oggettivazione che serve a tradurre in immagini inequivocabili il fastidio esistenziale di cui l’assassino è vittima, o meglio che lo riempie e sembra persino dargli consistenza: “Tutto ciò che vedeva gli dava fastidio; cercava di percepire il meno possibile”. Non c’è più traccia di naturalezza nelle azioni, anche le più comuni possono condurre alla esasperazione che lo stile di Handke traduce, mediante sequenze volutamente ripetitive. E’ nel loro svolgersi un po’ ipnotico, nella loro stessa forma, trascrizione irritata di semplici dati sensibili, che risiede e va ricercato ciò che l’autore sottende, nasconde, lasciando al lettore il compito di interpretarlo, oppure soltanto di sentirlo, come farebbe di fronte ad una sequenza cinematografica: “La cameriera andò dietro il banco. Bloch posò le mani sul tavolo. La cameriera si chinò e aprì la bottiglia. Bloch spinse via il portacenere. La cameriera, passando, prese da un altro tavolo un sottobicchiere. Bloch spostò indietro la propria sedia. La cameriera tolse il bicchiere dalla bottiglia su cui l’aveva capovolto, posò sul tavolo il sottobicchiere, appoggiò il bicchiere sul sottobicchiere, versò la bottiglia nel bicchiere, appoggiò la bottiglia sul tavolo e andò via. Si ricominciava! Bloch non sapeva più che fare”.

A ben vedere c’è qualcosa in questo romanzo che decisamente lo allinea al thriller: una sorta di permanente tensione che lo anima, tangibile e insinuante, una attesa vibrante che però non appare legata allo svolgersi degli avvenimenti e tantomeno al compimento dell’indagine poliziesca, di cui non vi è praticamente traccia, se non in due brevi accenni, quanto alla declinazione e al progressivo sviluppo, che è una lenta degenerazione, delle percezioni sempre più stranianti e straniate del protagonista, ossessionato sì, ma certo non dal senso di colpa per l’atto compiuto, quanto piuttosto dalla sua stessa interpretazione della realtà, sempre e comunque volta a suo danno: “Tutto ciò che vedeva era letteralmente straordinario. Le immagini non apparivano naturali, ma come se fossero state preparate apposta per lui. Servivano a qualcosa. Quando le guardava gli saltavano letteralmente all’occhio”. Fastidio, sbigottimento, trasalimento, furia, incapacità di sopportare l’invadenza delle parole e delle cose, nervosismo, disgusto, sensazione di essere caduto vittima di malintesi, irrequietezza, strane manie, innaturalezza nei gesti e nei discorsi, estraneità – “Era così distante dagli avvenimenti, che lui stesso non compariva più in ciò che vedeva o sentiva” – disgusto verso se stesso – “Il suo essere lì faceva di lui qualcosa di lascivo, di osceno, di sconveniente, qualcosa di assolutamente scandaloso; sotterrare! Pensò Bloch, vietare, rimuovere!” – è il succedersi a ritmo serrato di percezioni simili, concretizzate in immagini che sono in realtà rivelazioni, a costituire la trama incalzante di un romanzo che in questo suo essere, pure a suo modo, avvincente e consequenziale, rivela la sua appartenenza al genere poliziesco.

Una analoga valenza, in grado di accrescere l’atmosfera densa del romanzo, risiede nella marginalità che si respira dall’inizio alla fine, ad ogni minima svolta della vicenda o ad ogni impercettibile mutare della perturbata percezione del protagonista. Marginalità che, in linea con la oggettivazione che è la cifra distintiva di questa scrittura, è riservata prima di tutto ai luoghi. Vienna, per l’evento delittuoso, ma una Vienna periferica e un po’ sordida, delineata attraverso luoghi anonimi popolati da una umanità avventizia in mezzo alla quale il protagonista si aggira sfiorandola, osservandola ma rimanendone comunque ai margini: luoghi di aggregazione casuale e di passaggio – bar, stadio, mercato, stazione, cinema, caffè, la stanza di un albergo –  e la località meridionale di confine, meta del viaggio, della fuga o del camuffamento, non meglio precisata ma probabilmente situata in Carinzia, nei luoghi di origine dell’autore. Ai margini, sul confine, nella più lontana e oscura provincia, Bloch si aggira tra paesi rurali e locande di campagna, in una scenografia campestre che potrebbe parere inoffensiva, addirittura bucolica, se non fosse deformata da uno sguardo obliquo che legge e interpreta tutto a partire dal suo delirio. E così si popola di storie cupe, di personaggi inquietanti, di fatti luttuosi, di leggende disperate e l’atmosfera si fa grottesca e inesorabile e persino, in alcuni brevi incisi, quasi voci di sottofondo, sembra di essere catapultati al centro di un racconto bernhardiano: “L’oscurità dei boschi di abeti – citò il portinaio a memoria – l’aveva fatto uscire di senno”.

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