Categories
letteratura austriaca

Thomas Bernhard, “Camminare”

THOMAS BERNHARD – Camminare – Adelphi

Traduzione di Giovanna Agabio

Camminare

“Pensare, e sempre di più e sempre di più con intensità sempre maggiore e con una sempre maggiore spietatezza e con un sempre maggiore fanatismo conoscitivo, dice Oehler, ma non spingersi troppo lontano col pensiero neppure per un istante. In ogni istante possiamo spingerci troppo lontano col pensiero, dice Oehler, semplicemente andare troppo lontano col nostro pensiero, dice Oehler, e niente ha più valore”.

Tanto atteso dai lettori di Bernhard, finalmente edito in Italia, “Camminare” fa parte di quel gruppo piuttosto nutrito di prose brevi che, per nulla marginali rispetto alla produzione maggiore del loro autore, ben si adattano alla natura speculativa, corrosiva, trasgressiva, eccessiva, ma al contempo carica di pathos e di cristallina purezza espressiva, della sua scrittura. Mi riferisco ad “Amras”, “La partita a carte”, “Ungenach”, “Cemento”, “Ja”, “In alto”, ma anche alle prose brevissime contenute in “Eventi” e ne “L’imitatore di voci”, e ai racconti delle raccolte “L’italiano” e “Goethe muore”. Nel suo saggio “Paesaggio con figure. La prosa breve di Thomas Bernhard” (in “Cultura tedesca”, n° 32, gennaio-giugno 2007), Luigi Reitani sottolinea come l’esercizio del racconto e della prosa breve abbia accompagnato per tre decenni la produzione dell’autore, collocandosi per una buona parte a cavallo della trilogia iniziale articolata nei romanzi “Gelo”, “Perturbamento” e “La fornace”, “con cui Bernhard di fatto delinea i temi e i motivi fondamentali della sua ricerca espressiva”.

Nello specifico, “Camminare” realizza l’intenzione di inserire una serrata speculazione filosofica, o speculazione condotta ai limiti del dire filosofico, all’interno di un modulo narrativo, con il risultato di stravolgerlo, di donargli caratteristiche proprie – e riconoscibili in quanto usuali nelle prose bernhardiane – oltre ad un ritmo serrato, un movimento accelerato decisamente trascinante, che lo rendono avvincente in un suo modo tutto particolare: ciò che avvince non è infatti la concatenazione degli eventi, ma l’articolazione del pensiero generato da un fatto scatenante e condotto sino alle sue estreme conseguenze, e persino ad un passo oltre il limite. Perché il vero soggetto di “Camminare” non è il movimento ma il pensiero, o meglio il movimento, l’atto del camminare, come condizione indispensabile per attivare, sostenere, favorire lo sviluppo rigoroso e spietato del pensiero: “D’altra parte dobbiamo camminare per poter pensare, dice Oehler, così come dobbiamo pensare per poter camminare, l’una cosa deriva dall’altra, e l’una dall’altra con crescente maestria. Ma tutto sempre e solo fino alla soglia dello sfinimento”.

Micaela Latini nel saggio “Verso il Danubio. La passeggiata di Thomas Bernhard” fa notare come la passeggiata sia “un motivo ricorrente nell’opera bernhardiana (insieme a quella di Handke, di Sebald, di Walser, per fare solo alcuni nomi di passeggiatori nel Novecento di lingua tedesca). Le figure di Bernhard camminano, marciano, corrono”, a volte nella natura, a volte in modo ossessivo nel chiuso della loro casa, o addirittura della loro stanza che assurge a luogo di una carcerazione autoimposta, a volte in contesti cittadini, come Roma in “Estinzione”, o, appunto, Vienna in “Camminare”. Ma il loro movimento non ha a che fare con accadimenti, con snodi della trama, non serve a determinare azioni nodali essenziali per la comprensione degli eventi narrati, il loro movimento è – come osserva la Latini – “coatto, meccanico, artificioso”, finalizzato a volte ad ottenere una mera distrazione da se stessi, a volte a consumare con il movimento delle gambe una energia mentale che rischierebbe altrimenti di sfociare in vera pazzia, e a volte, come nel caso della presente prosa, a creare la condizione per il procedere del pensiero lungo le sue direttrici che sono veri e propri tragitti che chiedono di essere percorsi. Tragitti non certo lineari se si ha il coraggio di sfondare il muro delle apparenze, perché nel pensiero “trovano asilo tutte le polarità, i bivi, i percorsi incrociati, dove si raggiunge tutto ciò che è possibile”, come lo stesso Bernhard afferma nell’epigrafe al racconto: “E’ un continuo pensare fra tutte le possibilità di una mente umana e un continuo sentire fra tutte le possibilità di un cervello umano e un continuo essere trascinati di qua e di là fra tutte le possibilità di un carattere umano”.

Il pensiero bernhardiano è quindi un’avventura e un tormento che sottopone l’uomo ad una continua sollecitazione a raggiungere l’autenticità, la verità dei concetti che è costretto ad elaborare per vivere e la verità delle parole che è costretto ad usare per esprimerli, pur nella consapevolezza che tutto ciò rappresenta un’impresa impossibile. E’ un lavorio cerebrale che non ha sosta o riposo – esattamente come non ha sosta o riposo o una meta l’atto del camminare che risulta fine a se stesso e del tutto avulso o indifferente ai luoghi che percorre – e che trova nella magnifica prosa musicale, modulare e spiraliforme dell’autore il suo più adeguato mezzo espressivo: “Se ascoltiamo qualcosa, dice Oehler mercoledì, passiamo al vaglio quello che ascoltiamo, e quello che ascoltiamo lo passiamo al vaglio fino a dover dire: ciò che abbiamo ascoltato non è vero, è una menzogna ciò che abbiamo ascoltato. Se vediamo qualcosa, passiamo al vaglio quello che vediamo fino a dover dire: quello che vediamo è orribile. Così per tutta la vita non riusciamo più a venir fuori dall’orrore e dalla falsità e dalla menzogna, dice Oehler. Se facciamo qualcosa, riflettiamo su quello che facciamo fino a dover dire: è qualcosa di meschino, è qualcosa di vile, è qualcosa di vergognoso, è qualcosa d’un’immane desolazione, quello che facciamo; e che quello che facciamo sia, com’è naturale, sbagliato, è ovvio. E così per noi ogni giorno diventa un inferno, che lo vogliamo o no, e quello che pensiamo diventa, se ci riflettiamo, se abbiamo la necessaria freddezza mentale e l’acume mentale per farlo, in ogni caso sempre qualcosa di meschino e di vile e di superfluo; il che ci deprime per il resto della vita nel modo più sconvolgente. Perché tutto ciò che viene pensato è superfluo. La natura non ha bisogno del pensiero, dice Oehler, è solo la presunzione umana a voler proiettare ininterrottamente nella natura il proprio pensiero”. L’intelletto più acuto, che è dotato della cosiddetta spietatezza nell’esercizio del pensiero, è quindi costretto a rendersi conto che l’esistenza è possibile solo a patto di rinunciare ad esercitare il pensiero in modo assoluto. La condizione dell’esistenza, che è anche il dramma dell’esistenza, rende concitato il virtuosismo speculativo dei personaggi bernhardiani che si dibattono in un labirinto mentale senza vie d’uscita.

Come in molte delle sue opere maggiori, anche qui l’autore non racconta dei fatti, ma, come afferma Reitani “le rappresentazioni verbali che ne sono state date”, cosicché “oggetto della scrittura non è la realtà, ma il linguaggio”. Il narratore, un io non meglio precisato, che si palesa unicamente nell’incipit del racconto, riferisce ciò che un secondo personaggio, Oehler, racconta di quanto accaduto ad un terzo personaggio, Karrer, e, soprattutto, di quanto i due si sono detti durante le loro passeggiate, le loro osservazioni e constatazioni, via via sempre più acute e “spietate”, ed è in questo resoconto che si dispiega e si distende tutta la potenza, anche teatrale, di un testo che è in realtà un lungo soliloquio riferito al lettore, che rende Oehler del tutto simile ad uno dei protagonisti del teatro bernhardiano. Nell’economia del racconto, Oehler è colui che, portato a “meditare sino allo sfinimento su cose insolubili”, assiste all’improvvisa caduta nella pazzia di Karrer, il più dotato nell’arte della riflessione, che però non è riuscito “ad interrompere il pensiero esattamente prima dell’attimo letale”, perchè “nessuno riesce ad avere la consapevolezza riguardo l’attimo del passaggio del confine per lo Steinhof e quindi la consapevolezza riguardo l’attimo del passaggio del confine per la pazzia definitiva”.

E’ intorno alla pazzia di Karrer che Bernhard introduce nel testo e sviluppa temi che sono ricorrenti nella sua scrittura e che, variamente modulati, si ritrovano nei romanzi maggiori, nell’autobiografia e nelle opere teatrali. Per esempio la critica feroce nei confronti dell’Austria, la patria sempre oggetto di un odio smisurato, e probabilmente di un altrettanto smisurato e dolente amore – che si manifesta mediante invettive aspre, cocenti e spesso deliranti: “In questo paese, dice Oehler, chi è fuori dall’ordinario viene ignorato sempre e in ogni tempo, viene ignorato tanto a lungo da essere indotto al suicidio. Se una mente austriaca è fuori dall’ordinario, dice Oehler, non occorre aspettare molto perché si uccida, è solo questione di tempo, ed è quello su cui conta lo Stato”. Per esempio, il livore e il disprezzo nei confronti dei medici, in questo caso dello psichiatra Scherrer: “Queste persone pongono di continuo domande irrilevanti, e quindi ricevono di continuo risposte irrilevanti, ma non se ne accorgono neppure. […] In brevissimo tempo ci si chiede, ma che cosa avrà mai a che fare Karrer (il paziente) con Scherrer (il suo medico)? Che una persona come Karrer sia alla mercè di una persona come Scherrer è una mostruosità umana senza pari, dice Oehler”. E ancora, l’attacco violento portato fino al limite dell’insofferenza contro gli uomini colpevoli di aver voluto riprodursi, dando vita a figli destinati all’infelicità: “… in effetti questa gente non si chiede nulla quando fa un figlio, anche se sa che fare un figlio, e in particolare fare un figlio proprio, significa fare un’infelicità, e quindi fare un figlio, e quindi fare un figlio proprio, non è altro che un’infamia. […] Con la testa non si fanno figli, dice Oehler, e quello che si fa senza la testa, e in particolare quello che si fa in modo sconsiderato, va punito”. Salvo poi, nella stessa pagina – e questo improvviso rovesciamento di prospettiva, questo convivere degli opposti è tipicamente bernhardiano – trasformare l’irosa invettiva in una umanissima pietas di leopardiana memoria: “Mi chiedo come siano possibili tanta inermità e tanta infelicità e tanta miseria, dice Oehler. Come la natura possa generare tanta infelicità e tanta materia d’orrore. Come la natura possa produrre tanta spietatezza nei confronti delle sue creature più inermi e più commiserabili. Questa sconfinata capacità di soffrire, dice Oehler. Questa sconfinata ricchezza d’immaginazione nel produrre e nel sopportare l’infelicità”.

Ma il lettore di Bernhard saprà trovare in queste pagine altri innumerevoli echi di una produzione letteraria che si dispiega intorno alla ripetizione, alla variazione, ad una elaborazione tematica che tende ad una dimensione verticale, all’inabissarsi verso l’irraggiungibile limite della più estrema profondità, nel tentativo di esaurire, di estinguere, probabilmente di autoestinguersi, attraverso la precisione, l’ossessione, la ricerca e lo smascheramento degli aspetti grotteschi dell’esistenza in una farsa tragica che genera persino una amara comicità. Sopra tutto ciò è l’esercizio stesso della scrittura una possibile via, se non di salvezza, almeno di resistenza. Perché come afferma Aldo Gargani nel suo bellissimo saggio “La vita scritta in Thomas Bernhard, “non dunque per quello che dicono e vogliono dire gli uomini si salvano dalla follia e dall’estinzione, bensì per il fatto che essi stessi vengono raccontati, che c’è una scrittura che si fa carico di loro. Nessuna frase che un uomo possa dire potrà salvarlo, ma la scrittura che è la narrazione della sua frase avrà il potere di proteggerlo dalla pazzia e dalla morte”.

Subscribe
Notify of
guest
8 Comments
Oldest
Newest Most Voted
Inline Feedbacks
View all comments
giovanni baldaccini
5 years ago

Alcune “riflessioni” su Bernhard che tu riporti in questa recensione mi sembrano delle forzature, della vere e proprie razionalizzazioni di difesa allo scopo di evitare la vera lettura di Bernhard, una lettura che espone chi legge a innumerevoli rischi, non ultimo quello di impazzire. E proprio per evitare tale rischio, Bernhard scriveva e imprigionava il pensiero in un labirinto da cui non era possibile uscire, perché, uscendone, il rischio sarebbe rimasto privo di “recinto”,e, dunque, troppo alto. In questo senso sono d’accordo con Gargani: quella la lettura che mi sembra esatta, Chi scrive questa nota ha corso il rischio di “impazzire” leggendo Bernhard e proprio la sua lettura, ossessiva quanto la scrittura, mi ha protetto.

giovanni baldaccini
5 years ago

“ma la scrittura che è la narrazione della sua frase avrà il potere di proteggerlo dalla pazzia e dalla morte”.
Riporto la frase di Gargani a completamento della mia nota frettolosa di ieri sera. Bernhard è un fenomeno letterario complesso e “pericoloso”; la sua lettura può condurre all’interno di un’ossessione che, come tutte le ossessioni “copre” qualche altra cosa; in pratica, protegge da una psicosi latente. Questa, credo, la chiave di lettura di Bernhard, un’autoprotezione ossessiva per non cadere vittima di una psicosi da lui “racchiusa” nel recinto protettivo della sua scrittura circolare, chiusa come un labirinto, dal quale neppure la pazzia può fuggire.
Ciò detto, “Camminare” è a mio avviso un capolavoro.
Ciao Anna e scusa la lungaggine, ma il “fenomeno” Bernhard mi appassiona.

vengodalmare
5 years ago

Immediatamente comprato, grazie per questa nota.
Giustissimo l’intervento di Baldaccini, Con i suoi libri, la sua scrittura ossessiva e “tamburante” (perdonate questo brutto neologismo ma a quest’ora non mi viene un termine migliore per indicare i’ossessione a volte ritmica dei suoi testi, proprio come quella prodotta da un tamburo) Bernhard teneva a bada il suo folle, magnifico mondo interiore, la sua stessa pazzia, sempre sfiorata mai superata.

Massimo digi
Massimo digi
4 years ago

Ottima recensione. Offre Bernhard dal vivo.

Qries