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ANGELO MARIA RIPELLINO, “Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde”, Einaudi

A cura di Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane, Claudio Vela

“Non c’è divario tra i miei saggi, i miei racconti, le mie liriche: allo stesso modo diramano le loro radici nell’humus del teatro, della finzione pittorica, allo stesso modo ricorrono alle duplicazioni e ai camuffamenti. Un’ebbra molteplicità di rimandi e reminiscenze ricerca e nutre il tessuto della mia scrittura: ombre jiddisch, immagini di Klee e di Magritte, motivi di Mahler e di Janáček, splendori barocchi, truculenze boeme, vampate di zolfo vi convergono come in un gran Baraccone dalle luci malate, scontorto da smorfie di clownerie, sconquassato da raffiche di ipocondria e di rimpianti.”

Così scrive Ripellino nel testo “Di me, delle mie sinfoniette”, riportato in Appendice al presente volume, confermando il sospetto che coglie i suoi lettori, abituati a ritrovare sempre nei suoi scritti, anche se di vario genere, la stessa esuberanza lessicale e originalità di pensiero che li rendono vivi, luminosi e toccati da una sorta di grazia. Esuberanza e originalità che ovviamente esplodono nella poesia, nel luogo in cui – ed è sempre l’autore ad affermarlo – si difende “la sempre insidiata libertà dell’uomo”. Le sue parole “tangibili come oggetti” sono al servizio di un pensiero che gioca, si camuffa, si diverte a costruire trabocchetti e castelli di illusioni fantastiche, ma che pure sosta sempre lì, sull’orlo di un abisso. La poesia di Ripellino è la lacrima disegnata sulla maschera di un clown. Ma è anche “il cuore e la fonte di ogni sua attività letteraria”, come afferma Alessandro Fo nell’introduzione al volume, perché per lui la poesia è “una manifestazione prepotentemente vitale, che ha il compito di lenire e contrastare il dolore e, a un più alto e decisivo livello di scontro, tenere a bada la morte”.

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Angelo Maria Ripellino, “Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento”

ANGELO MARIA RIPELLINO – Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento – Einaudi

il trucco e l'anima“Ogni spettacolo è un castello di sabbia, un’effimera cattedrale che, col passare degli anni, perde i contorni, tremola, si assottiglia nell’acqua della memoria. Ripensando ai maestosi edifici-spettacoli costruiti da grandi registi, vien voglia di chiedere, come nelle danze macabre del Barocco: dove sei, Mejerchòl’d? dove sei, Stanislavskij? Che resta, se non uno stridulo “cliquetis” di parole? Restano scheletri di partiture, stinte fotografie, lingue ingiallite di ritagli, e testimonianze (non sempre attendibili)”.

Si stenta a credere che un libro simile possa essere stato scritto, perché quello che si propone di fare – e che in effetti fa – sembrerebbe un compito impossibile: richiamare in vita fantasmi dimenticati, ridare loro spessore e visibilità per metterli a disposizione della conoscenza e della ammirazione delle presenti e future generazioni. Un libro simile richiede l’opera di uno studioso competente, capace di andare a scovare le fonti più adatte, ma anche appassionato, in qualche modo in sintonia quanto a intelligenza e sensibilità con il suo oggetto di studio e, non ultimo, dotato di uno stile che sappia trasformare il saggio in opera letteraria. Insomma questo libro è l’esito felice di un incontro perfetto. Ripellino si propone di indagare, anzi di riesumare, l’essenza del teatro russo dei primi trent’anni del Novecento, cioè di una stagione felice, “epoca d’oro dell’arte del mettere in scena”, accettando di affrontare l’arduo compito di dare conto dell’effimero, di ciò che, frutto di cultura, creatività e ingegno, è però destinato a durare per un tempo limitato e circoscritto dal numero delle rappresentazioni, e per quello aleatorio, legato alla memoria degli spettatori e per questo destinato a ridursi fatalmente.

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Angelo Maria Ripellino, “Nel giallo dello schedario”

ANGELO MARIA RIPELLINO – Nel giallo dello schedario – Cronopio

“Al fondo di ogni creazione c’è la nobile illusione di salvare il mondo. Ma chissà che l’arte non possa avere una funzione medicatrice? In termini banali, chissà che non possa esserci d’aiuto, non possa darci la salvezza procurando sulla nostra scabra pelle di fantocci meccanici una ferita di gioia?” (da “L’arte può salvarci con ferite di gioia. Angelo Maria Ripellino studioso e poeta”, intervista a cura di Corrado Bologna, in “Il nostro tempo”)

Predisporsi alle ferite e al contagio è d’obbligo per chi si inoltra nei testi di Ripellino, siano essi prose, poesie, saggi o recensioni, perché ogni sua pagina è un passo in più che conduce il lettore attraverso quell’”itinerario del meraviglioso”, quella “generosa illusione” e “stupenda demenza” che, prendendo in prestito alcune delle sue già classiche definizioni, è la letteratura. Ripellino, recensore innamorato del suo oggetto di studio, non smette per un attimo di essere poeta e contagia con i suoi guizzi interpretativi, che sono in realtà pertugi, vie d’accesso agli innumerevoli mondi della creazione artistica. Chi intende seguirlo, diventa ben presto vittima di una fascinazione al quadrato: quella generata dall’autore e dall’opera di cui si parla ma anche, nello stesso tempo e in un modo difficilmente scindibile, quella derivante dalla strabordante personalità, dalla lussureggiante scrittura di chi è chiamato a presentarli.

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