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letteratura ceca

Hrabal, “Una solitudine troppo rumorosa”

BOHUMIL HRABAL – “Una solitudine troppo rumorosa” – Einaudi

“Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali in quegli anni avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro la mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi trentacinque anni mi sono connesso con me stesso e col mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiarsi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene fino alle radicine dei capillari.”

Inizia così questo breve e sorprendente romanzo, un libro poetico, autobiografico, evocativo, incoerente come solo i sogni possono essere, una narrazione ricca di simboli che contiene, tra le altre cose, un elogio appassionato della lettura. Il suo autore, Bohumil Hrabal, nasce a Brno, in Moravia, nel 1914, ma la sua città sarà sempre Praga, la Praga magica di Kafka, suo grande mito ispiratore. Nel 1939 l’arrivo dei Tedeschi lo costringe ad interrompere gli studi di Legge e a dedicarsi ad una serie infinita di lavori: farà il magazziniere, il preparatore di malto in una fabbrica di birra, il copista in uno studio notarile, il manovratore e il capostazione nelle ferrovie, il telegrafista, il commesso viaggiatore, l’operaio in una acciaieria, l’imballatore di carta da macero ricavata da libri proibiti dal regime comunista (questo è il lavoro di Hanta, protagonista del romanzo), il macchinista, il cameriere, la comparsa in un teatro, ecc.. I suoi primi scritti risalgono agli anni Trenta: è un narratore non intellettuale, che racconta storie con la voce di chi si è formato attraverso un mestiere. Solo a partire dal 1963 può dedicarsi totalmente alla scrittura. Dopo la sconfitta della Primavera di Praga, nel 1968, le sue opere sono proibite nel suo paese. Nella Cecoslovacchia comunista circolano solo attraverso canali clandestini, ma è considerato un maestro e la sua fama cresce all’estero. Ricoverato per una lieve malattia in un ospedale praghese, muore il 3 febbraio 1997, precipitando da una finestra del quinto piano. Muore come uno dei suoi intensi e stralunati personaggi: pare si fosse sporto troppo mentre dava da mangiare a dei colombi.

Hanta, la voce narrante del romanzo, lavora da anni in un magazzino, interrato nelle viscere di un vecchio palazzo di Praga, a una pressa meccanica, trasformando libri destinati al macero in parallelepipedi sigillati e armoniosi: adorni sui quattro lati di riproduzioni di quadri, racchiudono al centro un volume spalancato su un pensiero, un frammento – da Erasmo a Laozi, dal Talmud alla “Teoria dei cieli” di Kant, da Hölderlin e Goethe a Nietzsche. Professionista per necessità della distruzione dei libri, Hanta li ricrea incessantemente sotto forma di messaggi simbolici, rinnovando ad ogni istante il miracolo del pensiero creativo che sgorga spontaneo nonostante i modelli canonici della società e della cultura. E ogni tanto, da trentacinque anni, salva qualche bel libro dal macero e lo porta a casa: ormai i volumi occupano tutto lo spazio, ogni anfratto vitale, gli incombono sulla testa persino nel gabinetto. Ma i tempi cambiano, avanza un mondo nuovo che percepisce i libri come semplice carta straccia. Il lavoro amorevole e artigianale del protagonista è destinato a trasformarsi in freddo, inesorabile, efficiente, insensibile e disumano lavoro industriale. Hanta, incapace di adattarsi, ne farà le spese e si suiciderà all’interno della sua stessa pressa.

Ci sono tante cose in questo breve libro: c’è Praga e i suoi umori, c’è un sentore di disfacimento che sembra presagire lo sgretolamento di un regime, ma c’è, soprattutto l’omaggio a tutti gli innamorati dei libri, a quelli che sanno smarrirsi fra le pagine scritte.

“.. perché io mi posso permettere quel lusso di essere abbandonato, anche se io abbandonato non sono mai, io sono soltanto solo per poter vivere in una solitudine popolata di pensieri, perché io sono un po’ uno spaccone dell’infinito e dell’eternità e l’Infinito e l’Eternità forse hanno un debole per le persone come me.”

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Francesco Luigi Bovi
Francesco Luigi Bovi
10 years ago

Hai ragione, cara Anna, quest’opera estrema di Hrabal è dedicata soprattutto agli innamorati dei libri e a coloro che saprebbero perdersi per sempre nella scrittura. Ma sotto quale forma letteraria può essere classificata: poema, racconto, romanzo?
Nell’incipit ho avuto l’impressione di impattare su un attacco narrativo ctonio, infero, da Ade virgiliano, attraverso cui un io narrante derelitto, tellurico, ma parecchio istruito e colto ci informa immediatamente del suo lavoro-dovere che lo costringe da 35 anni ad alimentare con libri e carta vecchia una pressa idraulica, mostruosità che farebbe presagire il ritorno di un “Fahrenheit 451” oppure ad un’era glaciale caratterizzata da procedimenti distruttivi a secco, meno pirotecnici, ma che non per questo la rendono più angosciante. Anzi, quell’incipit si ripresenta con reiterante salmodia quasi ad ogni inizio di capitolo, conducendo il lettore in un’atmosfera da “Appropinquante mundi termino” (topi e mosche in quantità da piaga biblica), con l’effetto di instillare in chi è geloso della propria biblioteca – come il sottoscritto – il tremendo timore che a breve due sgherri kafkoidi busseranno alla porta con un mandato di arresto per i suoi amati libri. E allora, proprio perché “i cieli non sono umani”, non possiamo che ammirare la capacità demiurgica del dotto ed abbirrazzato Hanta-Hrabal nel condurre a nostro favore un’originale azione salvifica della sacra bibliografia, inseminando con le opere di scrittori, filosofi e poeti di fama universale i blocchetti cartacei espulsi dall’orrido moloch. Un Sisifo stracco morto che erige tuttavia muri e architravi di libri nella sua parva dimora, il luogo dove si consuma anche la love story con la piccola zingara – il suo amore giovanile finito tragicamente in un crematorio nazista… un destino molto simile a quello della Giulietta di Jan Otcenasek.
Un altro suo amore, invece, tutt’altro che tragico, addirittura di contenuto scatologico e con una spruzzata di ironia goliardica, ce lo racconta come paradigma dell’impossibilità per l’umanità di affrancarsi dalla sua ineluttabile origine fecale: “inter feces et urinam nascimur”. La bella Mancinka, un amore insozzato dallo sterco, che non avrà progresso, rappresentando il “regressus ad futurum” del giovane Hanta innamorato.
Bravo, bravissimo nel metterci in guardia dal “Bad New World” che avanza – esilarante parodia del realismo socialista la descrizione della nuova pressa automatizzata e dei serventi abbronzati e belli come un dio greco, che pur bevendo succo di pomodoro e latte rimango sempre degli automi di capekiana memoria o guitti da panoptikum – Hrabal ci insegna inoltre a padroneggiare anche la paura della morte rifuggendo dall’iconologia pittorica, che utilizza al contrario per foderare le balle cartacee. Ci prospetta dunque una simbologia ora presa in prestito dalla entomologia forense – le mosche carnarie (Sarcophaga carnaria L.) che banchetteranno con le nostre membra in putrefazione – ora dal Talmud (siamo olive), ora dagli aforismi di Sandburg (quanto fosforo e ferro resta di un uomo dopo la decomposizione). Fino ad arrivare a confessarci il suo desiderio di “regressus ad uterum”, in parte realizzato seguendo il naturale ciclo geo-chimico delle ceneri materne con cui è stato concimato l’orto dello zio: la riappropriazione della madre scomparsa avviene attraverso l’organicazione degli elementi minerali appartenuti un tempo al soma che ha partorito Hrabal e da lui riassorbiti nutrendosi delle rape. Tutto questo altro non è che un’essenza del suo primo tentativo di “progressus ad originem”. L’ultimo, quello finale, vedrà Hanta disporsi socraticamente sereno in decubito fetale sotto la pressa e premere il bottone verde. Unico suo rimpianto, di non essere riuscito a scrivere un libro tanto amato: “De tranquillitate animi”. Hrabal è bravo davvero!
Cordialmente. Francesco