TOMMASO LANDOLFI – “Dialogo dei massimi sistemi” – Adelphi
“Quando mi stimai finalmente in età da poter essere grande poeta senza dar nell’occhio, allora intesi che, sia pure colle debite cautele, avrei dovuto mantenermi in esercizio e che non c’era ormai più nulla da fare. Ebbene, quello che avrei dovuto fare il canto dell’assiuolo ce lo insegna: continuare a inghiottire le notti o almeno prendermi l’impegno di parlare per loro”.
Tommaso Landolfi nasce nel 1908 a Pico Farnese (ora in provincia di Frosinone) da famiglia nobile. Nel 1932 si laurea in lingua e letteratura russa all’Università di Firenze discutendo una tesi sulla poetessa Anna Achmatova. Sempre a Firenze collabora a diverse riviste quali “Letteratura” e “Campo di Marte”. Più tarde sono invece le collaborazioni con il “Mondo” di Pannunzio e il Corriere della Sera. Fatta eccezioni per brevi soggiorni all’estero, la vita di Landolfi si svolge per lo più tra Roma, le case da gioco di San Remo e Venezia e la residenza di famiglia a Pico Farnese. Nonostante un’esistenza appartata e lontana dai salotti intellettuali e mondani, il suo lavoro è riconosciuto da Eugenio Montale e Italo Calvino, che ne curerà una antologia nel 1982. Dal 1992, le maggiori opere, pubblicate in precedenza da Vallecchi ed altri editori e ormai fuori catalogo, vengono ripubblicate dalla casa editrice Adelphi per la cura di Idolina Landolfi, figlia dell’autore.
Pubblicato nel 1937, “Dialogo dei massimi sistemi” segna l’esordio narrativo di Tommaso Landolfi. Una raccolta di racconti in cui sono già evidenti i temi tipici dell’autore: la fantasia visionaria, la capacità di trasfigurare il reale in simbolo, la padronanza della parola per descrivere una realtà mescolata con la visione, l’ironia lunare, il gusto di esplorare la faccia velata e paradossale delle cose e dell’uomo. Già in questi primi scritti compaiono i luoghi che diventeranno topici nella sua opera: l’antico palazzo di famiglia ormai abbandonato e solitario, i dolci colli del paesaggio natale, i luoghi interiori popolati da ansie e da ossessioni. La narrazione è in prima persona e i protagonisti rappresentano varie incarnazioni dell’autore. In questa raccolta è presente il primo racconto di Landolfi, composto nel 1935, “Mani”. E’ lo stesso autore a definirlo così: “Il raccontino narrava la straziante morte di un topo e il suo folle funerale; s’intitolava ambiguamente “Mani” (che potevano essere quelle quasi umane del topo o gli dei Mani). Ci sono poi le pene d’amore di Maria Giuseppa, morta per Giacomo, giovane blasfemo, c’è il sogno di sangue della giovane Rosalba, spiata nel suo farsi donna da Tale, un uomo così privo di carattere e di energia da non meritare neppure un nome (“La sua vita era stata quella del solito impiegatuccio a milledue, fino alla pensione. Parenti non ne aveva di nessuna specie, e del figliolino, che più tardi morì in convulsioni, i soliti maligni avevano a suo tempo vociferato che non fosse suo”).
Landolfi dà vita a figure che rifiutano la quotidianità dell’esistenza e passano il tempo dedicandosi ad attività futili: come nel caso del racconto che dà il titolo alla raccolta, incentrato sullo scherzo che un capitano inglese gioca a un tale desideroso di imparare il persiano, insegnandogli una lingua mai esistita. Sono uomini che sognano imprese mai compiute e nei sogni, sempre ad occhi aperti, immaginano di essere eroi e trascinatori di eserciti, avventurieri ed esploratori, trovando anche se per poco sollievo alla insensatezza della propria trascurabile vita; uomini che cercano l’amore come liberazione da una realtà soffocante, ma che sono sempre destinati a vederlo svanire, proprio come i sogni al risveglio. Landolfi è stato uno scrittore, ma ancora prima un uomo, eccentrico.
Contini scrive di lui che “è il solo scrittore contemporaneo che abbia dedicato una minuziosa cura, degna d’un dandy romantico (quale Byron o Baudelaire), alla costruzione del proprio personaggio: un personaggio notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore”. Rifiutando sistematicamente le interviste e impedendo che le proprie opere venissero accompagnate da qualsivoglia giudizio critico (voleva i risvolti delle copertine bianchi) ha creato attorno a sé un alone di mistero che in qualche misura perdura ancora oggi. La sua prosa è per l’epoca innovativa e quasi sperimentale; la novità consiste “nell’interesse da lui dimostrato per la problematica, che varrà poi detta esistenziale, e che verte sulla condizione e sul destino dell’uomo, colto in una quotidianità che, come il Gogol, in Dostoevskij e in Kafka (autori che erano suoi modelli), si offre come una realtà minacciosamente inclinata verso zone di mistero e di avventura, interiore o intellettuale, di allucinato incubo e di assurdo, dove ogni cosa appare sconvolta e la ragione è condotta al limite della follia”. (L. Martinelli)
Un altro genio letterario, al pari di Bufalino e Gadda. La scelta di un lessico sofisticato, ricco di arcaismi e neologismi, forse denota anche un desiderio – più o meno inconscio – di distinguersi, ma il risultato a mio parere è spettacolare. Tra le tante cose, quella che più mi diverte è quando Landolfi si rivolge all’improvviso a noi che leggiamo per dichiarare il suo totale disinteresse nei confronti della nostra capacità di comprendere o meno ciò che sta scrivendo… Lo trovo veramente originale in questo atteggiamento provocatorio.
Hai ragione, ci vuole una lingua capace di rendere profondità e sfumature. Ci vuole a volte una forma ricca e raffinata anche per accedere al regno della pluralità di senso o, addirittura, del nonsenso. E la nostra letteratura ha in questo grandi maestri, forse a torto un po’ dimenticati…