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letteratura russa

Kuprin, “La fossa”

ALEKSANDR IVANOVIC KUPRIN – “La fossa” – Rizzoli

La fossa che dà il titolo al romanzo è il quartiere a luci rosse nei sobborghi di Kiev dove, alla fine del 1800 sorgevano trenta e più case di tolleranza, diverse nel prezzo, “nella scelta delle donne più o meno belle, nei vestiti più o meno eleganti, nello sfoggio delle acconciature e nel lusso delle camere”, un quartiere tutto compreso entro due strade, la Grande e la Piccola Jamaskaja, occupate esclusivamente da entrambi i lati da questi locali. La vicenda narrata da Kuprin è la storia di una di queste case, la casa di second’ordine di Anna Markova, una di quelle in cui si pagano due rubli per una visita (in quelle di primo ordine se ne pagano tre; quelle da un rublo o, peggio, da cinquanta copeche, sono sordide e miserabili, le camere da letto sembrano stalle, divise da sottili tramezzi che non arrivano al soffitto, sui letti, al disopra di sacchi di paglia sono buttati lenzuoli “incincignati, stracciati, che il tempo e le macchie hanno scurito”), storia compresa tra il breve apogeo della sua fortuna e il suo repentino crollo, contemporaneo a quello dell’intero quartiere.

“La fossa” può essere definito un romanzo di denuncia sociale, perfettamente in linea con l’intera produzione di Kuprin, uno dei maggiori rappresentanti di quel realismo sociale che ha caratterizzato la letteratura russa a cavallo tra 800 e 900 e che ha avuto in Gor’kij il suo esponente più illustre. Oggi lo definiremmo un romanzo – inchiesta, un reportage, e in effetti Kuprin si è avvalso per la sua stesura di un abbondante materiale documentario raccolto da lui stesso negli anni in cui viveva a Kiev. L’intento è quello di denunciare la pratica della prostituzione e di smascherare le connivenze sociali, ma anche politiche, che la fanno sopravvivere come un male necessario e tollerato, in nome del supposto diritto degli uomini, di tutti gli uomini, anche di quelli più stimati e più moralmente ineccepibili, di trovare uno sfogo alla loro natura esuberante. A Kuprin vanno riconosciuti sia il coraggio con cui affronta un tema così spinoso che l’energia e la determinazione con cui lo tratta, creando veri e propri quadri di costume vividi e, a modo loro indimenticabili,  anche se, come spesso capita quando la narrazione si propone fini non letterari, i suoi personaggi appaiono più che altro degli emblemi artificiosi, delle “figurine” create appositamente per sostenere la tesi del loro creatore. Troviamo così la bella spietata e patetica, la contadinella inurbata, la ragazza enigmatica e avventurosa, il vecchio comico e disgustoso, il giovane ingenuo e innamorato, tutti plausibili ma, in fondo, tutti solo tratteggiati a due dimensioni, privi di una vera e propria ombra che li renda vivi. Ma, ovviamente, si tratta di uno scrittore russo, e allora è legittimo aspettarsi sorprese anche in un libro che non è certo un capolavoro. Ne riporto una, bellissima, la nuda verità che risplende tra le mura sordide di una casa di tolleranza: “Vedi, quel che mi attira e m’interessa in questa vita è la sua…come si potrebbe dire?…la sua terribile, nuda verità. Capisci, come se alla vita fossero stati strappati tutti i veli convenzionali. Non ci sono qui né menzogne, né ipocrisie, né bacchettonerie, né transazioni con l’opinione pubblica, o con l’importuna autorità degli antenati, o con la propria coscienza. Nessuna illusione, nessun abbellimento! Eccomi: son qua! La donna pubblica, la coppa pubblica, la cloaca nella quale scola l’esuberanza della lussuria della città. Venga da me chiunque lo voglia, non troverà rifiuto, in questo sta il mio ufficio. Ma il minuto secondo di questa voluttà frettolosa – tu lo pagherai coi soldi, col disgusto, colle malattie e con l’obbrobrio. E’ tutto. Non c’è nessun altro lato della vita umana, in cui la fondamentale e principale verità risplenda con questa mostruosa, enorme, nuda chiarezza, senza alcuna ombra di menzogna, senza nessun abbellimento.”

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Andrea Pasqui
Andrea Pasqui
8 years ago

Certo, Kuprin non è Dostoevskij e nemmeno Tolstoj o Balzac, ma la sua “Jama” a guardar bene non è solo un reportage, anzi direi che la denuncia sociale, pur così sentita e dettagliata e la descrizione psicologica accuratissima e sapiente dei personaggi che frequentano questi luoghi, non sono in fondo che una membrana esterna di un più profondo nucleo interiore. Questo appare gradualmente, con l’umiltà e modestia del scrittore, quasi senza che ce ne accorgiamo, nella seconda parte del romanzo, quando i personaggi si delineano nella loro tragicità. Non sono esplorati come Anna Karenina, Myskin, Stavrogin, Andrej Bolkonskij, Emma Bovary o Lucien de Rubempré, ma sono presentati come indimenticabili icone del dolore, che contengono tutta la straordinaria e sconvolgente anima russa, quella ad esempio di Leskov, Saltykov Ščedrin, Esenin.

Daniele Mangiapane
Daniele Mangiapane
7 years ago

Dal punto di vista letterario, certo, il romanzo JAMA lascia intravedere molte crepe: 1) Lo sporco Horizont del treno che, dopo aver lasciato dietro sè così lunga e sporca scia di caligine, scompare inutilmente dal romanzo così come era apparso; 2) la lunga scena della cantante d’opera, tra le cui braccia scoppia in lacrime Zenja 3) Quasi tutta la seconda parte: buona e chiara nelle intenzioni, ma scarsa nell’efficacia. Scritta, credo, sotto l’influsso della Bohème di giacomo Puccini (anche qui ci son studentelli bohèmiens che per salvar Ljubka – Mimì se ne vanno… da Momusse a chiacchierare..) 4) La stessa vita avventurosa di Tamara, passata dal monastero al tiro assegno alla casa di tolleranza, in grado di parlare perfetto tedesco francese ed estone, dove la media delle prostitute possedeva un vocabolario (russo) di non più di 2000 parole.

TUTTAVIA, Kuprin ci regala pagine di un affresco sociale ancora oggi sconcertante e violento nella sua “nuda verità”. Le parti dialogate non a caso si presentano come le migliori. Senza parole lasciano il dialogo in camera da letto tra Manka Malenkaja e il vecchiaccio, così come pure quasi tutta la terza parte, con Zenja e Tamara protagoniste della parola. Paroal di verità e denuncia capace di arrivare fino a noi 100 anni dopo la scrittura. Credo davvero che alcune di queste pagine dovrebbero trovare spazio nelle antologie scolastiche di tutto il mondo. Pagine capaci di far riflettere e mostrare a noi stessi la nostra bassezza, come in fondo era proprio della tragedia greca. Alcune di queste pagine le ho usate per le mie lezioni di lingua russa: alla fine della lezione i miei studenti, adulti, erano senza parole, in un clima di silenzio di per sé molto più espressivo di qualsiasi parola.

Certo, non il capolavoro di Kuprin: IL DUELLO è dal punto di vista narrativo molto più unitario, forte, espressivo ed efficace, ma chi altri ha affrontato questo tema con tanto coraggio come lui? Ai nostri giorni le bassezza umane sono state rappresentate in mille sfumature, di grigio, di nero, di altri colori. Io continuo a preferire la nuda verità di Kuprin, tratteggiata senza sfumature, a soli tratti di matita.