ROBERT SCHNEIDER – “Le voci del mondo” – Einaudi
Procedendo nella lettura di questo libro, mi sono tornate prepotentemente in mente le pagine di altri libri da me molto amati, le voci di altri autori che fanno parte del mio mondo letterario. Non ho naturalmente nessun indizio che possa farmi pensare che veramente Schneider abbia avuto presenti gli stessi autori o che si sia a loro ispirato. Sono solo impressioni di una lettrice. L’ambientazione della vicenda narrata in un villaggio delle Alpi austriache nei primi anni dell’Ottocento riporta inevitabilmente ai racconti che Stifter ha riunito nella raccolta “Pietre colorate”. Schneider sembra partire da quel mondo puro e innocente, perfettamente armonico, sferico, intero e bastante a se stesso, dove la creazione artistica non è altro che uno dei tanti elementi naturali di un mondo privo del male; ma, già dalla prima pagina (il romanzo inizia dall’ultimo capitolo), immerge il lettore nella cruda consapevolezza che questo mondo è destinato all’estinzione, che, letteralmente, verrà distrutto e che la storia che si accinge a narrare è cupa e terribile, che la genialità artistica non è un dono ma una maledizione. Se nei boschi di Stifter, come notava Hofmannsthal, manca la vipera del male, in quelli di Schneider la vipera è presente e nulla si salverà dalla sua lenta opera distruttiva.
Nonostante questo, l’impianto del romanzo rimane favolistico, una favola malvagia, ma condita dalle caratteristiche del genere. Una scelta certamente voluta che ha però pur sempre sul lettore un effetto consolatorio e che, lo confesso, è alla base del giudizio non proprio entusiasta che mi sono fatta del romanzo. Perché l’idea centrale su cui è sviluppato, la casuale nascita di un genio musicale all’interno di un ambiente culturalmente deprivato e poverissimo che non possiede né le capacità di riconoscerlo né le risorse per sostenerlo e farlo crescere, mi appare talmente potente e ricca che mi disturba nello suo svolgimento tutto quell’apparato fantastico e miracolistico, fatto di trasformazioni fisiche, effetti magici, premonizioni, doti soprannaturali in cui si perde e si svilisce. Ben altra intensità e vigore ha l’analogo mondo primordiale del villaggio di montagna austriaco in cui Bernhard ambienta il suo romanzo “Gelo”. I suoi abitanti non hanno più nulla dei personaggi folkloristici di Stifter o dei protagonisti della favola d’amore e di morte di Schneider. I montanari di “Gelo” sono esseri laidi e ottusi, immeritevoli di qualsiasi redenzione, incapaci di relazionarsi se non con la violenza e l’inganno, un mondo amorale e gretto che non è riscattato da nulla e ha in sé i germi della sua dissoluzione. Difficile, per me, non paragonare questi due mondi (lo stesso autore definendo il suo protagonista “imitatore di voci” e utilizzando frequentemente il termine “estinzione”, richiama alla memoria il tipico lessico bernhardiano) e non accorgermi di come spesso Schneider abbandoni la strada del rigore, si lasci prendere la mano dalla tentazione di stupire ed esagerare (si veda la lunga procedura del suicidio), di accumulare invece di ridurre, per lasciar parlare l’essenziale. Ma qui si entra probabilmente in quel terreno complesso che si chiama stile, quello per cui (questa è l’ultima voce che la lettura del romanzo ha in me evocato) il ragazzino protagonista di “Un fanciullo piange”, una delle “13 storie inospitali” di Jahnn, che in un parco di divertimenti di Oslo vede per la prima volta un organo meccanico, lo sente suonare e piange, incarna l’anima del genio musicale molto più dell’eroe di Schneider con i suoi mirabolanti e improbabili virtuosismi organistici.