MIKLOS RADNOTI – “Mi capirebbero le scimmie” – Donzelli
Ho letto (e riletto) queste poesie sentendo nelle orecchie l’eco di un’altra giovane voce, poco più di una promessa, ma una promessa piena di talento e di quella capacità di rendere evocative le immagini e anche le singole parole, infrante o sommerse nell’onda del verso, che è prerogativa dei grandi poeti. Ho letto Miklos Radnoti accomunandolo a Jiri Orten, creando tra loro un ponte ideale, consapevole della contemporaneità della loro esistenza, e della comune tragedia della loro prematura morte. Orten, ebreo destinato al lager e morto nei 1941 a Praga nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, sotto le ruote di un’autoambulanza tedesca, ha lasciato nel suo diario poetico, “La cosa chiamata poesia”, accanto alla naturale ansia di vita della sua giovane età, la profonda amarezza di vivere, o meglio sopravvivere, in un tempo ostile, nemico della poesia.
Radnoti, ebreo ungherese, morto nel 1944, a 35 anni, colpito da una pallottola alla nuca, stremato dai lavori e dalle marce forzate tra i diversi campi in Romania, Serbia e Ungheria, ha continuato a scrivere persino nell’inferno dei suoi ultimi giorni, come ha potuto; i suoi ultimi versi sono stati trovati nella tasca del suo impermeabile quando sono stati riesumati i resti dei prigionieri che giacevano sepolti nella fossa comune ad Abda, in Ungheria. Fa riflettere l’accanimento, l’impeto, l’energia vitale con cui questi giovani e sfortunati poeti hanno vissuto i propri giorni illuminandoli mediante la luce della poesia, quando tutto, intorno a loro, negava persino la possibilità della sopravvivenza.
Questa bella raccolta di poesie, curata e tradotta da Edith Bruck, è un vero e proprio percorso lungo la breve vita di Radnoti. L’ordine cronologico in cui sono disposti i testi ci permette di cogliere, oltre alle caratteristiche stilistiche del suo poetare, la cifra che lo contraddistingue, la crescente consapevolezza del destino che lo attende, la progressiva perdita di ogni speranza e, come reazione, la decisione inevitabile di scegliere ogni giorno la poesia come estrema risorsa di sopravvivenza. Radnoti è un poeta lirico, che ama e canta la sua terra (ricorda a tratti Esenin, per il vitalismo affettuoso con cui anima gli elementi della natura), ma è anche un giovane spavaldo e orgoglioso che nel 1930 si descrive così:
Ho ventidue anni. Così doveva
apparire anche Cristo in autunno
alla mia stessa età; non aveva ancora
la barba, era biondo e le ragazze
lo sognavano di notte!
Costretto a crescere in fretta, dai tempi ma anche dalla sua sensibilità, i suoi versi diventano già premonitori nel 1935-36 quando scrive in un “pomeriggio stanco”:
Dalla finestra vola dentro una vespa moribonda,
la mia donna dormendo parla nel sonno,
il bordo delle nuvole sempre più cupe
si increspa di bianco per il debole vento.
Di che posso parlare? Viene l’inverno viene la guerra;
giacerò a pezzi e non mi vedrà nessuno;
nella bocca e negli occhi la terra corrotta
e il corpo solcato da radici.
Nei versi della sua prima Egloga, del 1938, un dialogo tra il Pastore e il Poeta, Radnoti ribadisce la sua decisione di eleggere la poesia a rifugio e speranza:
Comunque scrivo, e vivo in mezzo al mondo malato come vive
lì quel tronco; sa che sarà sradicato, ha già la croce bianca che
segnala domani al tagliaboschi dove estirpare – e
in attesa butta nuove gemme.
Il tempo di una bellissima poesia d’amore:
Ti ho nascosto a lungo
come il ramo tra le foglie
il frutto che tarda a maturare,
e ora fiorisci nei miei occhi
come sullo specchio della finestra d’inverno
il fiore giudizioso del ghiaccio.
E so già cosa significa
quando posi la mano sui capelli,
e custodisco già nel cuore
il movimento della caviglia,
e il bell’arco delle costole
che ammiro con distacco,
come chi s’è riposato
su tali meraviglie che respirano.
Eppure nei miei sogni
spesso ho cento braccia
e come un dio in sogno
ti stringo nelle mie cento braccia.
Poi la prigionia, l’orrore dei campi di concentramento e ancora quella testarda necessità di difendere la propria dignità di uomo con le parole:
Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta…
Fino agli ultimi versi, terribili anche perché premonitori, che dalla tasca di un poeta morto sono giunti fino a noi:
Gli crollai accanto, il corpo era voltato,
già rigido, come una corda che si spezza.
Una pallottola nella nuca, – Anche tu finirai così, –
mi sussurravo – resta pure disteso tranquillo.
Ora dalla pazienza fiorisce la morte –
“Der springt noch auf”, suonò sopra di me.
E fango misto a sangue si raggrumava nel mio orecchio.