GINEVRA BOMPIANI – “L’attesa” – et al.
Non conoscevo Ginevra Bompiani prima di leggere questo libretto. Ora so che, oltre ad essere una raffinata scrittrice, apprezzata da Calvino e da Giorgio Agamben, è anche la fondatrice, insieme a Roberta Einaudi, della casa editrice nottetempo (alla quale, tra le altre cose, riconosco con gratitudine il merito di aver pubblicato l’epistolario Bachmann/Celan che ho da poco terminato). La Bompiani affronta il tema dell’attesa, riconoscendolo come uno degli aspetti fondamentali dell’esistenza, e dando alla sua trattazione un impianto filosofico, che ha la sua origine e i suoi punti cardine nel pensiero di Wittgenstein. Ciò che, a mio parere, rende questo libro prima di tutto leggibile anche da parte di chi non abbia una specifica preparazione filosfica e, in secondo luogo, affascinante per il lettore appassionato, è la scelta da lei compiuta, di affidare proprio alla Letteratura il compito di fornire spunti all’argomentazione dei vari passi attraverso i quali va formandosi la sua riflessione. L’autrice fornisce in questo modo al lettore l’occasione di rileggere testi noti che va via via citando, alla luce del suo specifico taglio interpretativo, e, come è stato nel mio caso, di trovare spunti interessanti per futuri percorsi di lettura.
Riporto di seguito alcuni dei testi da lei utilizzati nello svolgimento della trattazione:
Novalis, “Enrico di Ofterdingen” (attesa come viaggio di andata dalla casa natale, in cerca di quel che la casa già conteneva e che consentirà il ritorno);
Henry James, “La belva nella giungla” (un secolo dopo Novalis, l’attesa è diventata il vuoto assediato dal nulla. La cosa attesa è il nulla in agguato);
Leonora Carrington, “L’attesa” (ogni attesa si compie nel riconoscimento, fosse pure il riconoscimento che non c’è più nulla da aspettare);
Giacomo Leopardi, “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”, in “Operette morali” (l’attesa è il desiderio puro della felicità, che è sempre passato o futuro, e mai presente);
Borges, “L’attesa”, in “L’Aleph”; Stevenson “Will del mulino”; Caproni, “Il gelo della mattina”, in “Il labirinto” (è la rappresentazione che fa durare l’attesa, l’uomo non può smettere di aspettare né andare incontro all’evento, nessun evento può interrompere l’attesa, perché nessun evento verrà riconosciuto come l’ospite)
Kafka, “Il cruccio del padre di famiglia” (“Ogni estraneo è un’attesa tradita. Ogni ospite sorprende la nostra impreparazione, e misura la nostra umanità sul tempo che intercorre fra la rinuncia alle rappresentazioni che l’hanno preceduto e il benvenuto sulla porta.”)