EDGAR ALLAN POE – “Racconti” – vol. II, BUR
“Lasciate che mi chiami per il momento William Wilson”. Un incipit, una frase che ci porta immediatamente sull’orlo del baratro, ce lo fa intravedere, ci mostra gli esordi della somma inquietudine, del demone più terribile che si nasconde dietro ai paraventi della realtà. Poe lo fa usando con la sua solita grandissima perizia le armi del suo mestiere. Questo signore delle atmosfere, capace di graduare l’incubo, di modellare l’attesa, di suscitarlo con i suoi ritmi. Si può perdere tutto, ma non se stessi; si può provare il dolore dell’abbandono, del disprezzo, della solitudine; si può soffrire nel corpo e nell’anima, ma la sofferenza più grande è la vita priva della certezza della propria identità. Poe ci porta sull’orlo di questo baratro, non poteva farci compiere il passo successivo.
Questo racconto mi ha permesso di rileggere Poe con una diversa consapevolezza. Sarà difficile ora non tornare ad aggirarmi ogni tanto nei suoi labirinti:
“Ma, la costruzione vera e propria (com’era vecchia e strana), a me poi sembrava veramente un palazzo incantato! I meandri ne apparivano letteralmente senza fine, e innumerevoli le suddivisioni: riusciva sempre difficilissimo determinare con certezza a quale dei suoi due piani ci si trovasse, chè ogni stanza comunicava con l’altra mediante almeno tre o quattro scalini di dislivello, sia in ascesa che in discesa. Numerosissime infine erano le ramificazioni laterali, e talmente involute le une nelle altre, che il nostro concetto esatto nei riguardi dell’intero edificio non differiva gran che da quello che avevamo dell’infinito”.