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Kovac, “La città nello specchio”

MIRKO KOVAC – “La città nello specchio” – Zandonai

Ora che si è sedimentato nel ricordo della lettura, mi appare chiaro che questo libro di Kovac mi parla con due voci: una è quella dello scrittore che ricerca e rievoca le sue radici attraverso ricordi, visioni, illusioni, interpretazioni a posteriori di eventi e incontri (“con uno stile rapsodico”, “elaborando una poetica balcanica”, come recita la quarta di copertina, che accomuna l’autore a Andric e Kis); l’altra è quella dello scrittore che, sospendendo la narrazione, interviene, approfittando, sembra, dell’attenzione che è riuscito ad ottenere, per rivolgersi direttamente al lettore e per comunicargli quello che evidentemente nel corso degli anni è venuto in lui maturando riguardo alla scrittura e allo scrivere.

“…qualcuno ha detto, tanto tempo fa, credo fosse Edgar Allan Poe, che i veri scrittori sono coloro che si logorano con le apparizioni, mentre tutti gli altri appartengono al ceto impiegatizio della letteratura, da cui traggono di che campare.”

“Ogni scrittore deve tenersi nel cassetto un manoscritto incompiuto che continuerà a modificare e a correggere, perché la scrittura è un qualcosa di intimo, un autentico atto di libidine, e io conserverò questo testo per la libidine dei miei anni futuri.”

“…perché un bravo scrittore lo si apprezza più per ciò che nella sua opera rimane sospeso a mezz’aria, che non per quanto è immediatamente afferrabile.”

“Arriva sempre il giorno in cui anche del talento, come di ogni altra componente umana, non resta più nulla, neppure quel poco sufficiente a condire l’ultimo pasto della vita.”

“… torno a Tolstoj con una certa regolarità. E lo rileggo a voce alta alla persona a cui voglio bene.”

“Sostenni insomma la tesi che tutto ciò che lo scrittore trasforma in letteratura è unicamente finzione, e che solo nella finzione la realtà acquista un senso.”

“… qualche giorno fa ho letto la seguente affermazione di un altro scrittore che peraltro ho preso a modello: egli sostiene che le allucinazioni dell’infanzia alterano e snaturano la realtà, e siccome l’intera mia infanzia non è stata altro se non una lunga, lunghissima, infinita e tormentosa allucinazione, mi domando se quello che ho passato e che sono oggi non sia davvero soltanto una falsa realtà. Chi sarei io, dunque?”

“… perché in realtà per uno scrittore neppure un istante va perduto, sia che incontri delle difficoltà, sia che cada preda all’euforia; perfino quando non riesce a scrivere sa mettere a frutto la consapevolezza dell’impotenza della letteratura, della suprema inutilità di tale lavoro.”

“Lavorando così con determinazione e senza pietà, penso sempre più a quegli scrittori che respingevano con coraggio e riducevano a colpi di scalpello il tumore del manoscritto, perché il talento consiste appunto nel saper pesare e misurare le parole su un’invisibile bilancia, verificare ciò che si è scritto, tenere a freno i versamenti dell’anima e contenere gli effetti ipnotici della grafomania, perché ogni autore ne soffre. E ogni volta che ho tolto qualcosa di superfluo e ho saputo eliminare tutto ciò che vi era di ambiguo, nello stesso istante mi accorgevo che il manoscritto non ne soffriva per niente, non risentiva affatto delle righe o degli interi passi cancellati, il muro non si era indebolito, al contrario, si era consolidato trovando un sostegno al suo interno, giacchè il materiale da costruzione dello scrittore è fatto di sostanza invisibile ed eterea; un mio collega ha detto tanto tempo fa di aver creato il materiale per il suo romanzo con saliva e fluido.”

“Scrivendone, ho solo cercato le prove della mia esistenza.”

“Tante volte ho ascoltato qualcuno aprire la propria anima in via confidenziale, gettarmi addosso ogni intima angoscia e pregarmi di accogliere come reali le sue più inconfessabili follie. Ho accolto spesso le parole di simili personaggi, ma sono sempre stato altresì consapevole che tutti noi, nessuno escluso, nonostante le nostre incertezze e i nostri balbettii, amiamo parlare della sofferenza, poiché ogni anima aspira ad avere almeno un raggio di eternità che soltanto chi la accompagna nel dolore può regalarle.”

“… qualcuno ha detto che la letteratura è un gigantesco laboratorio, una fabbrica universale, e io aggiungerei: un eterno dubbio, e per contro anche una dolce incertezza.”

Tra le due voci preferisco nettamente questa seconda, che mi appare più ricca, sostanziale e spontanea rispetto a quella dell’io narrante che a volte si perde nella ridondanza della materia che sta maneggiando. A tratti mi sembra persino che nelle pagine del libro Kovac non metta in pratica e, anzi, contraddica alcune delle sue convinzioni di scrittore.

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