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letteratura americana

Melville, “Benito Cereno”

HERMAN MELVILLE – “Benito Cereno” – Einaudi

“Benito Cereno” è il racconto che pone termine al decennio creativo di Melville e che prelude al lungo mutismo letterario che continuerà fino alla sua morte, fatta eccezione per la novella “Billy Budd”, composta qualche mese prima della fine. Solo quattro anni separano “Benito Cereno” da “Moby Dick” e Melville condensa qui, in poche pagine, la ricchezza di uno stile sempre più evocativo, basato su simboli e corrispondenze, nell’intento di sondare, ma anche di trasfigurare, i dati della realtà sensibile. E’ inevitabile leggere questo racconto avendo come pietra di paragone “Moby Dick” o, almeno, ricordandone la peculiare caratteristica, quel suo tono mistico di predicazione sacra, che trasfigura la storia di mare in una lotta epica tra bene e male, anzi, nella lotta tra due potenze contrapposte, fatta di vendetta, accanimento, di morbosità, il tutto sostenuto da uno stile di scrittura che si fa a tratti apocalittico. Dopo “Moby Dick”,  le storie di mare di Melville non possono trovare il lettore impreparato, dopo “Moby Dick” è chiaro che l’avventura è sporgersi su un abisso, perché, come dice Michele Mari ne “I demoni e la pasta sfoglia”, “Melville sapeva che non c’è conflitto che non renda uguali al nemico, non c’è abisso in cui si possa guardare impunemente”. E quindi, chi si appresta a leggere “Benito Cereno” non si faccia ingannare dall’incipit, classico esordio che sembra preludere ad un canonico racconto di mare, perfettamente in linea con la tradizione ottocentesca, perché bastano poche pagine e ci si ritrova in piena bonaccia, reale e metaforica.

Non entro nel merito della vicenda, mi limito ad alcune osservazioni, partendo dalla struttura innovativa di questo racconto, che è costituito da quattro parti, decisamente sbilanciate sia per lunghezza che per importanza all’interno dell’impianto generale. La prima parte (che corrisponde più o meno ai tre quarti del racconto) è il cuore dell’opera, tanto che potrebbe addirittura sussistere autonomamente e avrebbe, in questo caso, tutte le caratteristiche di un ottimo racconto di un autore contemporaneo. Se dovessimo giudicare “Benito Cereno” esclusivamente da queste pagine, non potremmo infatti che definirlo un racconto psicologico che acquista spessore e profondità dalla sua ambientazione: una nave sconosciuta in piena bonaccia. E’ lo stesso Melville a metterci sull’avviso dopo poche pagine, facendoci salire sulla strana nave del Capitano Benito Cereno: “Ogni qualvolta si sale in altomare sopra una nave grande e popolata, specialmente se straniera e d’equipaggio esotico come lascari o filippini, l’impressione che se ne riceve differisce bizzarramente da quella prodotta al primo entrare in una casa sconosciuta e abitata da ignoti in un paese ignoto. La casa come la nave – l’una per mezzo delle pareti e delle persiane, l’altra delle murate alte come bastioni – nascondono alla vista i loro interni fino all’ultimo; ma nel caso della nave c’è questo in più, che il vivente spettacolo da essa contenuto ha nella sua repentina e integrale apparizione, in contrasto col vuoto oceano che la circonda, l’effetto quasi di una scena di miraggio. La nave sembra irreale; e i costumi, i gesti, i visi inaspettati, un chimerico quadro emerso allora dall’abisso, che ringhiottirà subito ciò che ha dato fuori”. In questo particolare racconto d’avventura, la lunghissima prima parte è del tutto priva di azione e la nave diventa un palcoscenico sul quale, con lentezza a tratti esasperante, si va costruendo, nella difficoltosa interazione tra il Capitan Delano e Benito Cereno, una interpretazione della realtà, o meglio, si vanno costruendo e subito dopo distruggendo, diverse e a volte opposte interpretazioni della realtà, mentre l’equipaggio della nave, nella sua composizione e nei suoi comportamenti, non fa che amplificare una progressiva sensazione di insicurezza e di allarme, tanto più acuta, quanto razionalmente immotivata. Ci sono in queste pagine parole che Melville utilizza spesso per mantenere alto nel lettore quel senso di apprensione e di disagio che è funzionale allo svolgersi del racconto: “enigmi”, “portenti”, “sospetti”, e ancora, “fastidio”, “inquietudine” e “apprensione” aleggiano nei pensieri del Capitan Delano, che vanamente cerca di scacciarli, facendo affidamento ad ipotesi tranquillizanti e plausibili, per ricomporre in un quadro razionale ciò che sembra inspiegabile. La maestria di Melville sta nella sua capacità di indurre il lettore a seguirlo nella sua progressiva accumulazione di indizi, fatti di movimenti improvvisi e incerti, di apparizioni e scomparse, di dialoghi costruiti su battute dilazionate nel tempo e al limite del surreale, di comportamenti rivelatori di instabilità emotiva, che destabilizzano ma, nello stesso tempo, finiscono per appassionare. E intanto quasi non si avverte più che il tempo su questa nave ferma nella bonaccia trascorre e che la vicenda deve avere una conclusione e, soprattutto, una spiegazione: “La bonaccia s’era stabilita. A remota distanza, fuori dall’influsso di terraferma, l’oceano plumbeo pareva disteso, impiombato, finita la sua giornata, partita l’anima, defunto. Ma la corrente di terra, dov’era la nave, rinforzava, portandola silente sempre più lontano, verso le acque incantate di laggiù”. E’ talmente denso questo gioco psicologico che il lettore quasi si dimentica di essere alle prese con un racconto d’avventura finchè, improvvisamente, il ritmo della narrazione accelera, inizia la brevissima seconda parte del “Benito Cereno”, quella dell’azione, nella quale traspare il mestiere di Melville, la sua capacità di gestire gli strumenti classici del genere. Ovviamente non manca qui il colpo di scena, quasi un regalo dell’autore al lettore, che è stato così paziente da seguirlo fino a qui e che quindi si merita di trovare ciò che si aspettava. La terza parte, a mio parere la meno riuscita (ma immagino fondamentale per i gusti di un lettore ottocentesco), è costutita dalla spiegazione di tutta la vicenda, fatta attraverso lo stile asciutto e un po’ pedante del resoconto notarile. Il racconto si conclude poi rapidamente: il cerchio si chiude, il mistero è svelato, il male punito, l’enigma di Benito Cereno ricomposto ma, senza svelarlo, segnalo l’estrema finezza dell’ultimo periodo, ulteriore testimonianza, se ce ne fosse bisogno, della classe di questo grande narratore. Riporto infine la conclusione della Nota introdutiva alla presente edizione, scritta da Cesare Pavese, che mi appare necessaria per cogliere pienamente la cifra costitutiva della scrittura di Melville: “Il discorso di Melville tende a seguire attentamente la realtà interiore in ogni sua più capillare diramazione e nello stesso tempo a sollevare questi fuggitivi movimenti dell’anima in un fantastico cielo di mito – nel caso di “Benito Cereno”, in un’intensa atmosfera di bonaccia che non è pace ma presentimento dell’abisso. Accade quindi che in questo perfettissimo tra i suoi racconti, come del resto in ogni capolavoro di poesia, la ricchezza dell’invenzione va anzitutto goduta nella singola frase. In altre parole, ogni singola immagine di questa fantasia rifrange in se stessa, come l’idolo nell’occhio, il panorama di tutta l’opera”.

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