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letteratura uruguaiana

Hernandez, “Nessuno accendeva le lampade”

FELISBERTO HERNANDEZ – “Nessuno accendeva le lampade” – laNuovafrontiera

“Tu non hai bisogno, a volte, di una grande solitudine?”

Ecco che cosa succede se il giorno lentamente muore e nessuno accende le lampade, se si evita la luce troppo cruda e se si viene introdotti nelle stanze ombrose di antichi palazzi, in bui locali di periferia o in improbabili negozi affollati di oggetti inusuali: ci si ritrova nel mondo di Hernandez, frutto della sua “immaginazione ingannata”, dei suoi “scherzi del buio”. I personaggi di questi racconti si muovono in una realtà che permane al limitare del sogno, che trascorre in un incerto paesaggio tra il sonno e la veglia. Strane malattie affliggono e insieme identificano le ombre che si ha la ventura di incontrare, forse si tratta di malattie mentali che si rivelano però innocue o, addirittura, rivelatrici: sonnambulismo, vista interiore, oscure manie che obbligano ad elaborare e a celebrare complicati riti, giochi dalle regole ferree da praticare al buio, perché la luce nasconde e confonde. E’ un mondo dove si provano “strane sofferenze” e a tratti, improvvisa, una “imprevista conoscenza di se stessi”, ma, per farlo, bisogna lasciare le apparenze, accettare persino l’incertezza e l’azzardo della metamorfosi.

Hernandez si muove a un passo dalla realtà, è come se camminasse con un piede al di fuori dai percorsi consueti (come la sua sonnambula che procede con un piede sul pavimento e l’altro sul materasso steso a terra, senza accorgersene) e lo straniamento che ne deriva porta ad una dimensione insieme onirica e stimolante, comunque straordinariamente creativa e, persino, divertente. Basti pensare al repertorio di oggetti inusuali, quasi sempre collocati in una posizione “sbagliata”, che affollano gli ambienti (“una buccia di zucca, un mucchio di farina, una gabbia senza uccello, un paio di scarpette da bambino, un pomodoro, un paio di occhialini, una calza da donna, una macchina da scrivere, un uovo di gallina, una forcella da stufa, una vescica gonfiata, un libro aperto, un paio di manette e una scatola da scarpe con dentro un pollo spennato”); basti pensare a quel corridoio di un antico palazzo adornato da ombrellini colorati, o a quella stanza in penombra affollata da vetrinette che raccolgono strampalati tesori, o a quel balcone chiuso da vetri colorati, che protegge la fobia di una triste donna malata ma, allo stesso tempo, le regala un mondo immaginario con tanto di personaggi, trame e vite. E su tutto, ovunque, la musica, spesso muta e solo evocata dalla sola presenza di un pianoforte, nero, chiuso e quasi sempre scordato; ed è come se Hernandez, pianista, vivesse in questi racconti il suo amore per la musica con apprensione e inquietudine, come appunto succede spesso nei sogni. Come afferma Calvino, Hernandez “non assomiglia a nessuno….è un irregolare” e riesce in una cosa affascinante e difficilissima: creare tramite i suoi racconti un’atmosfera, un mondo al suo interno coerente, restare ad esso fedele e trascinare irresistibilmente al suo interno il lettore. Solo alla fine dell’ultimo racconto, ci si accorge di non aver mai acceso le lampade.

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