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letteratura argentina

Bioy Casares, “Diario della Guerra al Maiale”

ADOLFO BIOY CASARES – “Diario della Guerra al Maiale” – Cavallo di Ferro

“Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire”.

E’ un grande personaggio, don Isodoro Vidal, che a tratti mi ha ricordato i protagonisti di alcuni romanzi di Saramago. In questa folle e crudele guerra che i giovani conducono contro i vecchi, i “maiali” (“- Dicono che i vecchi – spiegò Arévalo – sono egoisti, materialisti, voraci, rognosi. Dei veri maiali.”), raccontata nella sua evoluzione, dalle prime incerte avvisaglie, al suo assurdo divampare, fino alla sua repentina e inspiegabile conclusione, nelle pagine del Diario, lui rappresenta uno dei protagonisti, ma anche l’osservatore, colui che, seppur implicato, prova a cercare un senso a ciò che avviene, a mantenere nel limite del possibile la distanza necessaria alla comprensione. E riempie lo spazio che faticosamente conquista tra sé e tutta la violenza gratuita che lo stringe sempre più da vicino, di ricordi, di tempo passato, di vita trascorsa, di riflessioni, che sono lampi improvvisi di sconsolata evidenza, di pacata e insieme acuta saggezza e anche, naturalmente, di disillusione (“L’accettazione delle proprie limitazioni può essere una triste saggezza”). Perché Casares in questo libro parla della vecchiaia, andando a cogliere il suo aspetto forse più inaccettabile: non tanto l’inevitabile avvicinarsi della morte, quanto il progressivo senso di estraneità nei confronti della vita. (“Vidal pensò che vivere è distrarsi”). Ma, ovviamente, ne parla nel modo che gli è congeniale, utilizzando l’invenzione, creando una trama fantastica e dando consistenza, spessore e visibilità alle sensazioni e alle paure che l’approssimarsi della fine della vita porta con sé.

Ecco allora che l’incomprensione tra vecchi e giovani si trasforma in uno scontro fisico tra carnefici e vittime, le differenze generazionali e la mancanza di dialogo tra padri e figli in odio reciproco, gli scontri verbali e i litigi in fughe ed inseguimenti, la sensazione di inutilità che affligge gli anziani nelle modalità di una sorta di vita nascosta e clandestina. E mi appare sempre più evidente che, per Casares, la scelta del genere fantastico apre ad enormi opportunità, perché nella sua penna non è mai un mero esercizio di fantasia, ma la possibilità di condurre il tema trattato alle estreme conseguenze, di coltivare il gusto dell’esagerazione, di costruire potenti metafore che non sono mai fini a se stesse. Come afferma infatti il Prof. Claudio Scarpati: “… ogni invenzione, se è capace di alludere, contiene in sé un germe di verità”. Il racconto di Casares è fortemente allusivo, si snoda intorno a quel tanto di irreale che è presente nella vita (“Si disse che quei presagi, forse semplici coincidenze, ricordano che la vita, così limitata e concreta per chi cerca indizi dell’aldilà, può sempre avvolgerci in incubi spiacevolmente soprannaturali”), costringe gli eventi grotteschi in una rete di connessioni logiche che li rendono ancora più inquietanti perché prevedibili, cosicchè alla fine della lettura ci si accorge che questa trama fantastica è illuminata da una desolante verità, tutta reale: “Pensò che gli sarebbero mancate le forze e l’illusione per sopportare la vita. L’amicizia era indifferente, l’amore basso e sleale, e la pienezza si manifestava soltanto nell’odio”.

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