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letteratura austriaca

Von Hofmannsthal, “L’uomo difficile”

HUGO VON HOFMANNSTHAL – “L’uomo difficile” – Rusconi

“… come una volta avevo visto in una lente di ingrandimento una zona della pelle del mio mignolo, e mi era parsa una pianura con solchi e buche, così ora mi accadeva con gli uomini e le loro azioni. Non riuscivo più a coglierli con lo sguardo semplificatore dell’abitudine. Ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici, che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto”. E’ un brano tratto dalla “Lettera di Lord Chandos” e lo scrive un giovane nobile dell’epoca elisabettiana, per spiegare a Francis Bacon, suo maestro e guida spirituale e intellettuale, i motivi della sua rinuncia all’attività letteraria.

 “Ma tutto ciò che si dice è indecente. Il semplice fatto che si dica qualcosa è indecente. E quando lo si prende sul serio, mio caro Aldo, ma le persone non prendono nulla al mondo sul serio, c’è addirittura una certa impudenza nel fatto che si osi vivere certe cose! Per esperire certe cose e non trovarsi indecenti occorre un così folle amore per se stessi e un tale grado di cecità che da persone adulte si può forse conservare nell’angolo più intimo di sé, ma non confessarlo!”. E’ una delle battute finali della commedia “L’uomo difficile” e la pronuncia il protagonista, Hans Karl Buhl, un ricco scapolo di mezza età, appartenente alla aristocrazia viennese, appena rientrato, in licenza, dalle prime linee della I guerra mondiale.

 Tra i due testi, almeno a livello di ideazione, intercorre circa un decennio, visto che la “Lettera di Lord Chandos” esce nel 1902 e che la composizione della commedia procede per varie fasi, a partire comunque dal 1909 (verrà messa in scena per la prima volta, a Monaco, nel 1921). Nella produzione di Hofmannsthal, la “Lettera” rappresenta insieme un momento di crisi e uno spartiacque. Un poeta che giunge alla consapevolezza che la parola – lo strumento del suo mestiere – ha perso senso e funzione, così come ha perso identità e certezza l’io destinato a pronunciarla, e che la realtà è fatta di un indistinto fluire di cose “non più nominabili né dominabili dal linguaggio” (Magris, “L’indecenza dei segni”), non può far altro che cedere al silenzio, oppure mettersi alla ricerca di un supporto alla parola. Lord Chandos, il personaggio letterario, sceglie il silenzio, Hofmannsthal dà inizio, con la sua ricerca, ad una nuova stagione creativa che punta, soprattutto, sulla musica e su un nuovo tipo di teatro. E’ questa la stagione che vede la sua collaborazione con Richard Strauss, per il quale scriverà “Il cavaliere della rosa”, “Arianna a Nasso” e “La vecchia leggenda di ognuno”. Un sodalizio talmente riuscito che Strauss scrive: “Dopo la morte del fedele e geniale Hugo von Hofmannsthal dovetti ammettere con rassegnazione che la mia produzione operistica si era conclusa. H. è stato l’unico poeta che oltre a forza poetica e a talento scenico possedesse quel grado d’immedesimazione capace d’offrire a un compositore opere teatrali musicabili, di scrivere insomma un libretto adatto per la scena, di notevole valore letterario e, non meno, che si prestasse alla musica”. La musica sembra quindi costituire per Hofmannsthal il supporto complementare alla parola, ciò che può consentirle di accedere allo spazio spirituale fluido e indistinto a lei precluso; la musica può servire a superare la sfiducia nel segno, può essere “la lingua in cui parlano le cose mute”, per usare un’espressione di Lord Chandos. Ma è nel teatro che la ricerca di Hofmannsthal produce una vera e propria rivoluzione. “L’uomo difficile” è l’unica sua opera, insieme a “L’incorruttibile”, ambientata nel mondo a lui contemporaneo. Si tratta, per impianto e struttura, di una commedia classica che si può tranquillamente definire una commedia degli equivoci la cui azione, suddivisa in tre atti, si svolge durante una serata mondana dell’aristocrazia viennese, prima nella residenza del protagonista e, in seguito, nel palazzo di un’altra nobile famiglia. Per gli spettatori, nessuna sorpresa quindi: l’ambiente riprodotto, il costume e persino il linguaggio, tutto è perfettamente riconoscibile come appartenente “all’aristocrazia festaiola e pettegola dell’epoca” (dall’Introduzione). E’ su questo scenario convenzionale e prevedibile che spicca, però, con la sua dirompente presenza, assolutamente sfuggente e apparentemente incomprensibile, il protagonista, l’uomo difficile. Hans Karl è colui che guarda da estraneo il mondo a cui appartiene, l’uomo che, tornato dagli orrori della guerra, rientra nella vita sociale, fatta di convenzioni e di giochi di potere, con la consapevolezza dell’inutilità e della incomprensibilità di qualsiasi desiderio o aspirazione, anzi, molto di più, dell’inutilità di qualsiasi progetto concernente la vita. L’uomo difficile guarda, capisce e si sottrae ma, incredibilmente, questo suo atteggiamento attira e affascina. Gli uomini lo ammirano e le donne lo amano; più si sottrae alla vita sociale e più viene ricercato, la sua ritrosia viene considerata prova di autorevolezza, i suoi silenzi, di saggezza. Mentre intorno a lui tutti si agitano e parlano, discutono e organizzano, perché l’intrecciarsi delle varie situazioni lo richiede – questa è una tipica commedia di conversazione – Hans Karl afferma: “Dovrei mettermi in bocca un profluvio di parole, di cui ciascuna mi appare addirittura indecente”. Poiché tutti insistono affinchè lui partecipi ad un ricevimento ritenuto importante, l’uomo difficile, con un pathos che decisamente stride in mezzo alla generale frivolezza dice: “Mi possono venire le lacrime agli occhi per una sciocchezza – oppure divento rosso di imbarazzo per un’assoluta piccolezza, per una sfumatura che nessuno nota, oppure mi capita di dire ad alta voce ciò che penso – sono circostanze che non mi permettono di andare tra la gente”. Tutta la commedia, il cuore della commedia – al di là della vernice esteriore della satira nei confronti dei riti e delle consuetudini della società aristocratica viennese – sta in questo strano e affascinante contrasto incarnato dall’uomo difficile, un personaggio teatrale che deve esprimere con le parole la sua sfiducia nel potere della parola di rappresentare e di comunicare alcunchè (“Certo è un po’ ridicolo immaginarsi di esercitare Dio sa quale effetto, con parole ben tornite in una vita dove alla fine tutto dipende dalla minima indefinibile sfumatura. La conversazione si basa su un’indecente sopravalutazione di sé”, o ancora: “Io stesso mi capisco molto peggio quando parlo che quando sto zitto”). Qui però è tutta la grandezza e la modernità di Hofmannsthal, che questa volta non può usare la musica come supporto alla parola e allora usa tutti i mezzi che il teatro gli mette a disposizione, variandoli e assemblandoli in modo spregiudicato e innovativo: l’allusione tra le righe, le didascalie che descrivono sguardi e movimenti, le pause, i silenzi e le sospensioni tra le battute, la gestualità dei personaggi. Tali espedienti vengono abilmente dosati dall’autore, che li utilizza soprattutto nel secondo e nel terzo atto – essendo il primo dedicato al gioco degli equivoci – e che culminano nella scena d’amore tra Hans Karl ed Helene, la donna coraggiosa che gli si dichiara e gli propone di sposarlo. E, pur consapevole che le parole hanno perso senso e significato, è difficile per lo spettatore – e per il lettore – non cogliere la bellezza di questa frase, pronunciata dall’uomo difficile: “Io sono un uomo che non ha altro che fraintendimenti sulla coscienza”, o di questa splendida battuta di Helene: “L’amore taglia nella carne viva”.

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Giulia
11 years ago

Splendida recensione. Hofmannsthal, ingiustamente poco celebre, è stato davvero un grandissimo scrittore, eccelso anche come autore di teatro e librettista (impossibile dimenticarlo, per gli appassionati d’opera come me).