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letteratura italiana

Trevisan, “Shorts”

VITALIANO TREVISAN – “Shorts” – Einaudi

“Da chi, da che cosa sono dunque posseduto?, mi chiesi ancora aprendo la finestra.”

Vediamo allora, se si può, per quel tanto che si può, di provare a dare una risposta a questa domanda, nel tentativo, anche, di capire le ragioni di una predilezione, la mia, per questo autore. Bernhard, prima di tutto. Sì, perché non si scrive sul vuoto e non si legge sul vuoto. Non esiste una tabula rasa sulla quale dal nulla compaiono le parole, le frasi, i testi che pretendono di essere scritti o che sono destinati a permanere nella memoria del lettore, finendo per determinare un’inclinazione, un gusto letterario e, quindi, anche le future letture. Ho iniziato a leggere Trevisan per via di un riconoscimento nella comune ammirazione per Thomas Bernhard e ho imparato ad apprezzare la sua voce energica, ironica e tagliente, sia nella prosa che nei testi teatrali, tanto sorprendente in quanto distante dalla voce omologata e prevedibile di tanti autori italiani contemporanei. “Shorts” rappresenta per me una felice riconferma. Da chi e da che cosa è posseduto Vitaliano Trevisan mentre scrive questi racconti? Indubbiamente dal suo maestro, indubbiamente, in particolare, da quella produzione di prose brevi del drammaturgo austriaco, forse meno conosciute, ma nelle quali si trovano, distillati e come ulteriormente purificati, i temi della sua opera.

Mi riferisco ai brevi testi che compongono le due raccolte “Eventi” e “L’imitatore di voci”. Dalla prima, “Shorts” sembra aver ricavato quella sua natura di galleria di immagini, carrellata di eventi (appunto) colti nel punto del loro massimo disvelarsi; dalla seconda, la capacità di cogliere i fatti nella loro nudità, di farli parlare, di costringerli a mostrare, per un attimo, breve e fulmineo, il loro volto, di volta in volta malinconico, crudele, disgustoso, oppure sarcastico, affettuosamente ironico e, solo velatamente, sentimentale. Quindi Vitaliano Trevisan è posseduto, per esempio, da Thomas Bernhard, e lo afferma esplicitamente nel secondo racconto della raccolta, “Da chi e da che cosa”, non solo perché di un suo libro qui si parla, o meglio, dell’impossibilità per il protagonista di separarsene, ma, soprattutto, perché la prosa stessa, che procede attraverso periodi lunghi, involuti, spezzati da incisi ripetitivi, nel tentativo di condurre il lettore al più alto grado di comprensione possibile, risulta immediatamente familiare al lettore dello scrittore austriaco. Lo afferma tanto più chiaramente in quanto nella prima parte del racconto la voce narrante, ma sarebbe meglio dire monologante, esprime il convinto proposito, dopo la demolizione della casa, e quindi della stanza, della sua infanzia, di non costruirsi mai più “un simile edificio sentimentale”, di non attaccarsi più alle cose, di non essere più attaccato a niente. Bene, si può decidere di non possedere, ma da chi e da che cosa si è posseduti? E Trevisan semina nei suoi mini racconti indizi della possessione bernhardiana di cui è consapevole – e mi sembra felice – vittima. A volte la voce monologante, il protagonista narrante, si riferisce alla sua donna usando quell’appellativo bernhardiano, “la persona della mia vita”, che delicatamente e un po’ scontrosamente camuffa e rivela, protegge nell’anonimato dell’assenza di particolari identificativi – nemmeno un nome è concesso al lettore – per rivelare però ciò che è fondante, estremo e definitivo. “La persona della mia vita”, dice Trevisan, dice Bernhard, e questa espressione sembra un’ancora e un punto fermo nella desolazione della provincia, nell’insensatezza di quel camminare – o meglio di correre in moto, trattandosi di Trevisan – fino in fondo al vicolo cieco dell’esistenza. Si respira, in questi racconti, una sorta di contraddizione tra la lucidissima consapevolezza della mancanza di senso – perché, direbbe Bernhard, tutto nell’esperienza dell’uomo è perturbante e comunque destinato al fallimento e, in definitiva, all’estinzione – e una straordinaria curiosità per gli eventi, i casi, gli accadimenti scrutati dall’autore con un occhio che sembra, quasi suo malgrado, interessato e spesso divertito. La variazione mi appare infatti uno dei procedimenti che guidano la scrittura di Trevisan. E’ lui stesso a suggerirlo riportando in epigrafe la citazione di una frase di Kierkegaard: “Come dunque, secondo la dottrina di buon senso sociale, in una certa misura si varia il terreno […], si deve anche, in tale modo, costantemente variare se stessi”. Una variazione che mi appare connotata soprattutto dal suo significato musicale (e come non pensare alle Variazioni Goldberg di Bach, a “Il soccombente” e quindi ancora a Bernhard?). Una scrittura che, come una musica, improvvisa e si disperde in mille rivoli, storie e situazioni, ma che non può dimenticare il tema principale e che prima o poi a lui deve tornare, pena l’insensatezza e la disarmonia. La variazione è tanto più apprezzabile quanto più mantiene l’eco del tema, quanto più lo sottintende, lo anticipa e prepara il suo ritorno. E il tema qui si chiama vacuità, alienazione e, anche, crudeltà di un destino beffardo. A mio parere in questa raccolta Trevisan dà il meglio di sé proprio nei pezzi dedicati alla musica e ai musicisti. E’ indimenticabile il piccolo capolavoro intitolato “Pausa”, che inizia e finisce con i puntini di sospensione ed è tutto un crescendo di parole che alludono alla musica o, se vogliamo, di musica che allude alle parole, un brano di blues suonato dalle parole di Trevisan, quasi intollerabile nella sua capacità di trascinare il lettore verso la sua imprevedibile fine. Un altro dei racconti musicali di “Shorts” contiene una chiara indicazione del secondo procedimento che rende così incisiva la scrittura di questo autore: “Ma del resto, continuai, è sempre stato uno che toglie, piuttosto che aggiungere, uno che crea il vuoto, invece di colmarlo”. Si parla di un batterista, e di quello che il pubblico si aspetta da lui: “Loro si aspettano assoli a raffica, tecnica sopraffina, poliritmia, rullate a non finire, la batteria sempre in primo piano, passaggi fantasmagorici”, mentre lui, invece, caparbiamente attua la “castrazione immediata di ogni spunto solistico”. Ebbene, a me pare che la scrittura di Trevisan sia guidata dalla stessa “non-tecnica”, dallo stesso “rifiuto di ogni compromesso batteristico”, di ogni voluto e facile effetto. Trevisan è un potatore, come è anche suggerito dalle cesoie riportate nel disegno in copertina, ovviamente non tanto per la brevità dei racconti, ma per la pregnanza di ciò che rimane alla fine dell’opera di riduzione. Quello che rimane alla fine è forse ciò da cui l’autore è posseduto.

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maria d'ambra
11 years ago

Innanzitutto complimenti per il blog che è davvero una miniera d’oro per chi ama leggere, e dunque anche per la qualità delle recensioni. Confesso subito di avere due libri di Bernhard da anni ma di non averne letto ancora nemmeno uno, Trevisan invece non lo conosco proprio, ma sembra meritevole d’essere sottratto al mio oblio personale e sottoposto a giusta attenzione. Prima però, se tutto è collegato, vorrei dare retta ai segni e leggere, finalmente il soccombente oppure perturbamento… se hai consigli da darmi sono graditi…
un saluto

anna maer
11 years ago

Incontrare stimatori di T.Bernhard mi fa sempre piacere, come ritrovarsi e riconoscersi per caso, dopo un temporale. Nei miei scaffali ho diversi suoi libri, tutti letti molto tempo fa, partendo da L’imitatore di voci, una rivelazione. Grazie per l’accurata esauriente analisi, non è semplice scrivere di questo caustico scrittore.

anna maer
11 years ago

Naturalmente dovrò leggere Trevisan che non conosco – “Shorts” –