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Weiss, “La prova del fuoco”

ERNST WEISS – La prova del fuoco – SILVY edizioni

“La prova del fuoco” di Ernst Weiss è un libro che stupisce, interroga, ferisce e crea un disagio che procede di pari passo con una progressiva e infine convinta ammirazione. Un libro che sottopone lo stesso lettore ad una prova rigorosa e severa. Non esistono in queste pagine cedimenti o sconti, né per il protagonista, né per lo scrittore, né, tantomeno, per il lettore. “Tutta questa letteratura è assalto al limite”: così Kafka scriveva nei suoi “Diari” nel 1922, riferendosi alla produzione letteraria della sua generazione di scrittori ebreo tedeschi praghesi. E non credo che si possa dare di questo romanzo una definizione più calzante. Queste pagine sono un assalto al limite, una cavalcata verso l’indicibile, un’energica spallata ad ogni codificata regola della narrazione. Già leggendo la prima pagina – lo splendido incipit che emoziona per la sua lucidità, per il suo essere refrattario ad ogni trucco psicologico o sentimentale, per la sua eloquenza intellettuale – mi chiedevo dove la mia esperienza di lettrice avesse incontrato una sensazione di desolante spaesamento paragonabile a quella costruita da Weiss, una simile sensazione di assoluta abdicazione, un simile assalto al limite ultimo che è, forse, quello dell’identità. “Non so chi ero, non so chi sono. Non so chi sia l’uomo che scrive questo resoconto e definisce tutto ciò che segue realtà, non sogno”.

 E’ inevitabile e immediato rievocare il potente attacco della splendida “Tabaccheria” di Fernando Pessoa: “Non sono niente./ Non sarò mai niente./ Non posso voler essere niente./ A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo”. Un assalto al limite della solitudine perché, dice Weiss, “Una solitudine del genere non l’ha mai esperita nessuno”. Anche il più disgraziato degli uomini possiede almeno se stesso, è padrone, almeno, dei propri travagli spirituali, vive accompagnandosi ai terrori e ai dilemmi della propria malata psicologia. Ma questo uomo che una mattina, tra le tre e le quattro, si risveglia steso a terra in una latrina pubblica di una piazza di Berlino, non ha né consapevolezza né memoria di sé, è stato abbandonato dal suo io, ha subito l’assalto all’estremo limite, perduto come potrebbe esserlo un pazzo, ma consapevole di non esserlo. Ed è questo uomo che si chiede: “Non c’è una stella lassù, non c’è un senso quaggiù sulla terra, un sogno pacificante, un sonno liberatorio?”. Ancora un’invocazione che rimanda ai versi di Pessoa: “Non ci sarà dunque,/ per le cose che sono,/ non la morte, bensì/ un’altra specie di fine,/ o una grande ragione:/ qualcosa così,/ come un perdono?”. Non credo che questi parallelismi riflettano una conoscenza tra i due autori, quanto piuttosto l’impronta di quella comune aura metafisica che spazzava le menti più acute degli intellettuali europei nei primi decenni del Novecento; un’aura responsabile di crisi violente ma anche, e per fortuna, di altrettanto violenti e fulgidi esempi di creatività artistica. Perché, miracolosamente, un’artista come Weiss, dopo aver toccato “il culmine della disperazione”, comincia a costruire il suo castello narrativo, seguendo leggi imperscrutabili che procedono a ritroso, creano immagini che sono indizi, apparizioni che nascono dall’estraneità ma che nascondono un riconoscimento. “La prova del fuoco” – ed è la stessa voce narrante a definirlo così – è una sorta di “poliziesco dell’anima”, una ricerca dei tasselli dispersi che, faticosamente raccolti, possano tentare di ricostruire, per lampi di improvvise e lucide associazioni, una pur minima parvenza di identità. E’ indicativo, e anche rivelatore, che la prima traccia di questa identità sia la netta intuizione di una colpa: “Anche quando questa mattina mi sono svegliato nel gabinetto pubblico, in un angolo di una grande piazza di Berlino, la mia prima sensazione è stata il senso di colpa, ho visto mia moglie fuggire da me, un cane poliziotto darmi la caccia, la mia bambina rifugiarsi sotto un tetto estraneo, mio padre attaccare a un chiosco la descrizione del mio delitto, l’immagine del mio io esteriore”. Un’anima che a malapena sa di esistere, ma che ha l’assoluta certezza di essere responsabile di una grave colpa, di essere macchiata dalle gocce di sangue di un delitto. Bisogna forse partire da qui per comprendere il clima culturale comune che Ernst Weiss ha condiviso con Kafka, ma anche con Oskar Baum, Leo Peruts, Hermann Ungar, gli scrittori ebrei praghesi che, nei primi decenni del Novecento, hanno riprodotto nelle loro opere la crisi dell’ebraismo mitteleuropeo, esprimendo un radicale rinnovamento del romanzo contemporaneo. Marino Freschi nel suo saggio “Un esempio di romanzo ebraico”, contenuto in “Ebraismo e cultura europea del 900”, sottolinea come le grandi parabole dei racconti di Kafka e le trame surreali dei suoi romanzi siano l’elaborazione artistica di un senso di precarietà esistenziale elevata a modello ontologico dell’angoscia. Nei suoi “Quaderni” sono contentute, a questo proposito, osservazioni acute e disarmanti: “Nessuno, quaggiù, produce altro che la sua possibilità spirituale”, oppure: “Esiste soltanto un mondo spirituale”. Una crisi profonda ma estremamente feconda che ha improntato di sé le opere narrative dei giovani ebrei praghesi, un esperimento narrativo originale che – afferma Freschi – ha contribuito a fondare il mito della modernità. Negli stessi anni in cui gli autori austriaci imboccavano la strada della psicologia, Kafka e gli scrittori praghesi a lui più vicini, imboccavano quella della metafisica, creando una letteratura antipsicologica e antidescrittiva, lontanissima da ogni “compiacente mimesi naturalistica”. Lo spaesamento è la cifra di Kafka, ma anche di Weiss, un senso di non appartenenza che si trasforma nell’inquietudine, intellettuale e fantastica, dello scrittore ebreo. Un disagio che è una richiesta di senso che non incontra risposta. E quindi l’eroe antieroe di Weiss è privo di identità e di umanità, a causa di una colpa altrettanto anonima che non sa individuare né conoscere e che, nonostante questo, lo sovrasta e lo schiaccia. Non ha ricordi con i quali possa difendersi o giustificarsi, non c’è nessuno a cui possa chiedere perdono, non può sottrarsi a una condanna che è ontologicamente legata alla stessa natura dell’uomo. Ma il poliziesco dell’anima deve procedere secondo le sue leggi e tutti gli indizi conducono inevitabilmente alla prova del fuoco, che non può essere evitata. Il sangue della colpa e il fuoco della espiazione sono le due ossessioni di Weiss a cui nessuno – protagonista, scrittore o lettore – può sfuggire. “Meglio il delitto che la confusione. Meglio la più tormentosa delle punizioni, piuttosto che una vita senza senso”. Pagine terribili e bellissime, stilisticamente costruite mediante un inarrestabile crescendo, nella realizzazione di un auto da fé che riporta alla memoria il rogo claustrofobico e surreale del capolavoro di Elias Canetti.

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Giulia
11 years ago

Splendida recensione, questo autore che mi era sconosciuto ora mi incuriosisce molto!