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Lowry, “Buio come la tomba dove giace il mio amico”

MALCOLM LOWRY – “Buio come la tomba dove giace il mio amico” – Mondadori

Si legge questo libro come tributo al Console di “Sotto il vulcano”, come un pegno pagato alla nostalgia che il protagonista del romanzo più famoso di Lowry, ma anche le atmosfere e i luoghi in cui si aggira quell’indimenticabile “divagatore alcolizzato” lasciano nel lettore. C’è un legame talmente stretto tra i due romanzi, che non è quasi possibile comprendere e apprezzare questo “Buio come la tomba dove giace il mio amico”, così colmo di allusioni, ricordi e riferimenti all’opera precedente, prescindendo dalla sua conoscenza o, addirittura, in molti casi, dalla sua puntuale consultazione. Eppure non si tratta di una semplice continuazione; d’altra parte Lowry può essere definito in molti modi, ma sicuramente è uno scrittore tutt’altro che semplice. Il suo fascino risiede tra le pieghe di una complessità che continuamente interroga il lettore. Una complessità che investe prima di tutto la natura della sua intera produzione. Come spiega Alex R. Falzon nella Postfazione alla presente edizione, il programma letterario di Lowry si basa su un metodo di lavoro eccentrico, originale e, forse, eccessivamente ambizioso. Tutte le sue opere contribuiscono alla realizzazione di un unico, immenso progetto, un vero e proprio ciclo, di cui ogni romanzo o racconto costituisce un tassello, indispensabile per la costruzione del disegno finale, dal titolo “Il viaggio che non ha fine”.

“Sotto il vulcano” costituisce la parte centrale di questa sorta di polittico, l’unica realmente portata a termine in modo definitivo dal suo autore, la chiave di volta di tutta la sua opera. Lowry ha quindi intrapreso un viaggio letterario, destinato a non avere fine, continuando a rivedere, correggere, riscrivere ogni sua pagina, nel tentativo di adeguarla al progetto finale che si andava via via componendo ma anche trasformando, “in una certosina, maniacale operazione di riscrittura continua, infinita”. Si spiega così la perplessità che questo romanzo può inizialmente generare, anche nel lettore che già conosca “Sotto il vulcano”: si vaga nelle prime pagine in una materia evidentemente frutto di un impeto incontrollato di scrittura, quasi squilibrato, con la sensazione un po’ sgradevole che lo stesso scrittore non sappia bene dove andare a parare. Bisogna tener conto del fatto che si tratta di un romanzo incompiuto e che quindi l’esito finale è frutto di un’opera di taglio e di montaggio non attuata dall’autore. Tutti gli scritti di Lowry, tranne “Sotto il vulcano”, sono infatti usciti postumi, curati dalla sua vedova, Margerie Bonner, che ha ricavato l’edizione definitiva confrontando e assemblando i diversi manoscritti rimasti incompiuti. I lettori di Lowry però sanno che le sue divagazioni sono il metodo che lui utilizza per condurli progressivamente nel punto centrale di un vortice. La divagazione è il viaggio, il cuore del vortice è il Messico. Quando Sigbiorn Wilderness, il protagonista di questo romanzo, giunge in Messico, il lettore comincia a riconoscere visi, luoghi e atmosfere. Comincia, nel suo immaginario, a confondere Wilderness con Geoffrey Firmin, il Console, e, dopo un po’, a leggere in entrambi la personalità dello stesso autore. “Wilderness non è uno scrittore, almeno non nel senso in cui comunemente si intende un romanziere oppure un autore di romanzi. Lui, semplicemente, non sa che cosa è. E’ una specie di uomo del sottosuolo”, scrive Lowry in una sua lettera, parlando del suo protagonista, ovvero parlando di sé. Perché Lowry scrive sempre di se stesso, i suoi romanzi sono autobiografie sottilmente velate e il suo sguardo è sempre rivolto verso l’interno e coglie del mondo esterno solo quello che riflette i suoi pensieri e le sue sensazioni. Sempre in una lettera, sempre parlando di Sigbiorn Wilderness, che nella finzione è, guarda caso, un romanziere, autore di un’opera, “La valle dell’ombra della morte”, che è significativamente il primo titolo da lui scelto per “Sotto il vulcano”, Lowry afferma: “[…] non si interessa di letteratura, non ha una cultura, è incredibilmente poco osservatore, sotto molti aspetti è ignorante, senza fede in se stesso, e manca di quasi tutte le qualità che di solito vengono attribuite a uno scrittore o a un romanziere. Gli stessi suoi metodi di lavoro sono assurdi e praticamente non vede niente, neppure attraverso gli occhi della moglie, pur finendo poi, poco per volta, col vedere. Credo che questo finisca col renderlo un personaggio molto originale, umano e insieme pateticamente inumano”. E questo è ciò che pensa di sé. I viaggiatori di questo infinito viaggio sono dunque i suoi alter ego, la loro mente è la sua mente, i romanzi che li vedono protagonisti non sono costruiti su una trama, ma sulle acrobazie di questa mente, capaci di generare infinite tensioni, tanto da risultare avvincenti per il lettore. Uno degli autori preferiti di Lowry era Dostoevskij e forse questo spiega la linea portante del suo progetto letterario: i vari romanzi avrebbero dovuto costituire le tappe di un viaggio interiore, attraverso la sofferenza e la degradazione, verso una futura beatitudine. Una sorta di viaggio dantesco, quindi, che culmina nella parabola discendente di “Sotto il vulcano”, in quel Messico fosco, crudele, dannato, ma anche sorprendentemente poetico, dove il Console vaga cercando sollievo e consolazione nei vapori dell’alcol e nella vicinanza della più povera e semplice umanità e dove S. Wilderness ritorna, questa volta più consapevole, perché vi discende per la seconda volta e perché sa che questo inferno è il suo. “Sono tornato per mostrarti che non un’ora, non un minuto della mia ubriachezza, della mia continua morte, valeva il suo prezzo: non c’è una sola scoria anche delle peggiori di quelle ore, non una goccia di mescal che io non abbia trasformato in oro puro, non una bevuta che io non abbia reso sublime”. Un viaggio dantesco, ma anche una proustiana ricerca del tempo perduto, nel tentativo di toccare il fondo, sperando di trovare, alla fine, un punto d’appoggio per poter risalire. “Questo era dunque il suo passato; ad alcuni doveva sembrare triste e disperato come una povera città devastata, ma a lui sembrava una somma di eccitamenti maledetti”. Ma come sempre, indipendentemente dallo scopo per cui si compie, alla fine è il viaggio in se stesso che si impone e in questo romanzo ho facilmente ritrovato il Messico, luogo dell’anima, che “Sotto il vulcano” mi ha fatto amare. Nessuna oleografia, nessun cartellone pubblicitario, il Messico di Lowry è un luogo faticoso che non regala nulla, ma che vende le sue bellezze ad un prezzo carissimo. Si arranca per ore su corriere malandate, su strade che sembrano infinite, lungo tragitti labirintici, con la continua sensazione di aver sbagliato direzione, seguendo confusi ricordi del viaggio precedente che sembrano visioni, oppure incubi da ubriaco. Si costeggiano terre aride e vertiginosi precipizi, soffrendo per il caldo e per la vicinanza di una umanità sporca e chiassosa. Le soste del viaggio sono spesso meravigliose ma illusorie oasi di pace, al centro delle quali, quasi sempre una cantina apre le sue porte e promette il premio-consolazione della visione ovattata, dell’insensibilità e di quel leggero senso di oblio che solo l’alcol sembra poter dare. Il Messico di Lowry è un “luogo di transito infernale”, dove lo scrittore e i suoi alter ego devono inabissarsi, per espiare le colpe del passato e per poter poi aspirare ad un rinnovamento. Forse per questo Lowry si sforza di dare una sorta di lieto fine a questo romanzo, anche se l’impressione è che per lui sia molto più agevole lasciarsi cadere al fondo della sua ossessione, del suo rimorso e della sua dannazione. La risalita e il riscatto che si intravedono nelle ultime pagine avrebbero forse richiesto la creazione di un ennesimo alter ego, di un altro viaggio e di un’altra storia. La risalita avrebbe richiesto ancora più fatica e sicuramente più tempo, ma a Lowry non è stato concesso ed è gloriosamente rimasto nel suo purgatorio.

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