GOTTFRIED BENN – “Morgue” – Einaudi
“Era un ciclo di sei poesie che affluirono e s’avventarono tutte nello stesso momento, esistettero, prima di esse non esisteva nulla; allorchè lo stato crepuscolare fu al suo termine, restai vuoto, affamato, barcollante e me ne uscii in silenzio dal grande sfacelo”.
Così scrive lo stesso Benn rievocando quella sorta di furia compositiva che sembra avere accompagnato la stesura di questa raccolta, costituita da versi che appaiono al loro autore come relitti scampati, o forse originati, dal grande sfacelo del mondo. In “Morgue” si avverte la giovinezza, l’intransigenza e l’irriducibilità della giovinezza, come si avverte la familiarità con gli aspetti più prosaici della corruzione dei corpi, della malattia, della morte e della decomposizione. Ma, soprattutto, si avverte la consuetudine con un uso perentorio e totalizzante della parola poetica che, nelle mani dell’autore diventa, letteralmente, un bisturi affilato che si apre deciso la strada verso la più nuda e spoglia e desolatamente orrida realtà delle cose. Perché la poesia o è totalizzante o non è, la poesia non media e si nutre di essenza, a qualsiasi altezza o in qualsiasi abisso essa si nasconda. La poesia forza le serrature imposte da convenzioni, regole sociali, cliché letterari, gusti del pubblico. La poesia sovverte, apre finestre su scenari che forse si preferirebbe non vedere e, intanto, abbaglia e affascina. I versi di Benn lo fanno “urtando” il lettore, obbligandolo a fissare l’interno della Morgue, perché è lì che finiscono i relitti della vita, lì si raccoglie ciò che rimane.
Benn scrive questa raccolta a ventisei anni, nel 1912, avendo letto indubbiamente “Une charogne” di Baudelaire e “Morgue” di Rilke. Certo “I fiori del male” devono buona parte del loro splendore e della loro malìa proprio al dualismo sotteso dal titolo, certo non mancano in questi versi incursioni frequenti negli aspetti più laidi dell’esistenza, come se questi fossero il concime necessario a generare la bellezza. E allora ecco qui “una carogna infame,/ a gambe all’aria, simile a una donna impudica,/ bruciando, sudando veleni,/ spalancava con cinica indolenza/ il ventre gonfio di miasmi”. Ecco il compiacimento nello sviluppo dell’immagine, arricchita di particolari disgustosi: “Su quel putrido ventre ronzavano le mosche/ e ne uscivano veri battaglioni/ di larve che colavano liquido vischioso,/ lungo i brandelli brulicanti”. Quasi una attardata premessa all’appello finale del poeta alla sua donna, “regina delle grazie” a cui egli dedica l’essenza divina dei suoi “marciti amori”. La “Morgue” di Rilke (inserita nella raccolta “Nuove poesie”) è un ambiente più rarefatto, quasi una scena teatrale, con tanto di cadaveri come comparse, una fredda sala, dove il disgusto è addomesticato e “pulito” e i corpi dei morti, nei versi finali, quasi spiritualizzati dal loro ultimo sguardo interiore: “Gli occhi dietro le palpebre/ si sono rovesciati e ora guardano dentro”. Lo stesso tema ricorre nello splendido racconto “Die Sektion”, “La dissezione”, di Georg Heym (contemporaneo di Benn), che, almeno nella prima parte, sembra la trasposizione in prosa di una delle poesie di “Morgue”, con il morto solo e nudo steso sul tavolo delle autopsie e la descrizione dell’orribile procedura seguita dai medici nello svolgimento del loro atroce lavoro (ma con eleganza e leggerezza Heym riesce a contrapporre a tutto ciò l’aereo sogno d’amore del defunto, estremo e delicato addio alla vita). Il giovane Benn raccoglie queste suggestioni letterarie e si avvia a percorrere fino in fondo la strada della dissacrazione e dell’annientamento, perché la sua poesia di fatto distrugge tutti i cliché della tradizione lirica. I suoi incipit precipitano bruscamente il lettore all’interno della Morgue, lo trattengono e gli impediscono di distogliere lo sguardo, presentandogli il suo campionario costituito da una umanità misera e disgraziata che la morte non ha nobilitato ma, al contrario, ha reso ancora più grottesca e ripugnante: “Venne issato sul tavolo un autista di birreria morto annegato”, “La bocca di una ragazza che era rimasta a lungo nel canneto/ appariva tutta rosicchiata”, “Il solitario molare di una puttana,/ che era morta sconosciuta”, “Su cuscini di cupo sangue giaceva poi/ la bionda nuca d’una bianca donna”, ecc..
Nei suoi versi il tavolo operatorio dell’obitorio sostituisce sia l’alcova che l’altare ed è il teatro su cui si compie la dissacrazione del corpo. La bellezza femminile, esaltata da sempre nella poesia lirica per la sua purezza, viene cantata da Benn descrivendo le grazie di una giovane donna morta, con i suoi lunghi capelli, le cosce lucenti, i seni bronzini ed il suo piccolo bianco orecchio, che sembra dormire distesa come una fidanzata. Nello spazio di pochi versi il lettore ritrova un lessico noto e rassicurante, finchè l’impietoso poeta cancella l’illusione con una chiusa crudele: “Fino a quando/ il coltello le fu affondato nella bianca gola/ e intorno ai fianchi le venne gettato di morto/ sangue un grembiule purpureo”. Sull’altare della Morgue si svolgono riti allegorici da messa nera, si celebra il requiem blasfemo, qui “figliano i corpi un’ultima volta”, in un catino si raccolgono i cervelli, “tempio d’Iddio”, in un altro i testicoli, “stalla del demonio”. Sembra che nulla si salvi dalla furia distruttrice del giovane Benn, perché anche nelle sue incursioni all’esterno della Morgue incontra un mondo malvagio e crudele, dove le donne sono sgualdrine con mani “molli, bianche, grandi/ come fossero carne d’un pube” e una bocca “umida e sfatta/ piena di maleodorante riso”, dove il caffè di notte sembra un girone infernale popolato da relitti umani con denti verdi, pustole in viso, capelli impomatati e dove, se per miracolo, la porta si apre ed entra una bellezza profumata, “un grassone la segue zampettando”. Sembra che nulla si salvi, anche se non è del tutto vero. Dall’annientamento non si salva l’uomo, perché per lui non c’è pietà; si salvano solo cose umili, dolci e inutili, della cui esistenza il mondo è inconsapevole. Un piccolo fiore, un astero, una nidiata di giovani topi a cui sono riservati accenti di una insospettabile liricità e forse anche l’augurio di continuare a vivere, in mezzo all’orrore in cui sono capitati. Il potere della poesia è tale che al lettore, ormai entrato nel mondo di Benn, sembra segno di pietà e non di orrore che il fiore possa vivere assorbendo il sangue del corpo in cui è stato rinchiuso e che i piccoli topi abbiano visto la luce in una tana nascosta tra gli organi interni del cadavere di una giovane annegata. Nel mondo grottesco e beffardo cantato da Benn, dove le cose muoiono e l’uomo si estingue, dove le cose si sciolgono dalle parole e le parole dall’uomo ( “Poiché tutto muore, poiché tutto è più breve della parola e del labbro che vuole pronunciarla” scrive Benn), l’amore può essere una minaccia, e questo è il titolo di una delle poesie da lui dedicate alla poetessa Else Lasker-Schurer:
Ma sappi:
giorni di bestia vivo. Un’ora sono d’acqua.
Ghiotto di sonno il mio ciglio a sera come selva e cielo.
Solo poco sa il mio amore parole:
è così bello accanto al sangue tuo.
[…] nel pianto, perché qui c’è sì tutto un espressionismo grottesco che rimanda al primo G. Benn della “Morgue” – non di certo a quello appesantito dalla metafisica – o a quello dell’Ofelia […]