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letteratura ceca

Johannes Urzidil, “L’amata perduta”

JOHANNES URZIDIL – L’amata perduta – Adelphi

“Chi canterà, se io non ci sono, la melodia delle case e delle strade, il tardo bagliore del sole sui merli delle torri, la pensosità delle cariatidi, chi intonerà il canto sommesso delle vecchie venditrici di ciambelle nel parco, i destini delle sponde del fiume e la maestà dei loro ponti?”

Praga, la città che si nega, la traccia indelebile di una vita che non ritorna né si consuma, la città indefinibile e allusiva, eccentrica e conturbante, amata, appunto, e perduta e, proprio perché perduta, destinata a non essere mai afferrata e compresa totalmente e a trasformarsi nel mito di se stessa. Praga incarna nella cultura mitteleuropea il topos letterario della nostalgia e possiede infiniti repertori di suggestioni in grado di mantenere viva, intatta, la sua parvenza di città del sogno. Ma la nostalgia è un terreno fertile, che si lascia percorrere e che, anzi, chiede di essere percorso; la nostalgia può essere interrogata e indagata, può essere cantata e celebrata e, infine, può essere scandagliata, con scrupolo e attenzione, perché si vuole tenerla in vita e sostare a lungo nei suoi territori, nell’illusione di ritrovare il tempo già vissuto. Leggendo “L’amata perduta” di Johannes Urzidil sono tornata spesso alle pagine di due bellissimi testi che, da sempre, costituiscono due imprescindibili guide per le mie incursioni nella letteratura ceca, ma anche, più in generale, mitteleuropea. Il primo è il ricco saggio di Claudio Magris “Praga al quadrato” (in “Alfabeti”), il secondo è il capolavoro di Angelo Maria Ripellino, “Praga magica”.

Magris interroga la nostalgia che tutti gli scrittori praghesi del Novecento, pur con intensità e accenti diversi, manifestano per questa città vagheggiata e mai dimenticata, con l’intento di chiarire, fin dove è possibile, le motivazioni della sua origine: “Il mito di Praga è nostalgia della nostalgia – afferma – rimpianto cartaceo per l’immagine di carta, ormai squarciata dalla Storia, della propria realtà mai posseduta”. Perché lo scrittore praghese, soprattutto quello tedesco-praghese, come Urzidil, nelle sue pagine non descrive una Praga storica e reale, ma una Praga  della letteratura, che diventa, nel suo regno stregato, la trasfigurazione della difficoltà di capire le contraddizioni del tempo in cui egli vive. E l’oggetto di questa letteratura è proprio la trasfigurazione della tradizione praghese che è comunque presente, viva e riconoscibile nella produzione degli scrittori cechi del Novecento: il tipico mosaico plurinazionale mitteleuropeo (“il triplice ghetto dell’ebreo tedesco di Praga all’interno della comunità tedesca, a sua volta isolata nella città ceca”, lo definisce Magris), l’incrocio di lingue e di culture, la familiarità con gli aspetti spettrali dell’esistenza (fantasmi, parvenze, presenze soprannaturali sacre e profane), la convivenza con automi, marionette, bambole che invariabilmente si animano e interagiscono con le persone, il grottesco umorismo cimiteriale, la mistica degli oggetti che sembrano trattenere un po’ della vita di chi li ha posseduti, il gusto per l’accumulazione di suppellettili e di chincaglierie, la predilezione per i paesaggi crepuscolari e, infine, l’epica grossolana dei frequentatori di bettole e birrerie. La Praga al quadrato di cui parla Magris è quindi nostalgia al quadrato e la letteratura praghese è quella più adatta a dare un volto e una voce al tramoto della vecchia Europa. Forse proprio per questo i suoi autori sanno rappresentare così bene lo spaesamento, lo sradicamento e la perdita. Il cantore per eccellenza delle suggestioni create dalla magica Praga è, ovviamente, un poeta. Perché è poetico lo sguardo con cui Ripellino tratteggia il suo affresco che consegna definitivamente la città di cui è innamorato al repertorio dei miti letterari. Dimostrando, tra l’altro, come la poesia non sia affatto rinuncia alla speculazione, al resoconto attento, alla comprensione, ma, al contrario, sia una via, forse la più adatta, per giungere all’anima delle cose. Ripellino conduce i suoi lettori nell’anima profonda di questa città, dove “nella calma delle rosee sere/ tintinna il fogliame di vetro,/ che le dita degli alchimisti sfiorano/ come il vento” (Jaroslav Seifert). Riporta in vita le tante città che essa è stata nella sua accidentata storia, che l’hanno popolata delle loro ombre, perché nulla sembra morire definitivamente nella terra boema. La poesia di Ripellino richiama a sé tutti gli eccentrici e misteriosi personaggi che si accalcano e respirano ancora nei vicoli, nelle piazze, nei palazzi e sotto i ponti di pietra di una città che persino oggi, percorsa da frotte di turisti chiassosi, è una conchiglia chiusa che protegge la perla della sua magia, per concederla a chi è malato di nostalgia, e quindi, di letteratura. Ripellino è il flaneur innamorato, che conclude il suo libro con una dichiarazione d’amore per la sua città dell’anima, che è insieme invettiva e orgoglioso proponimento: “E dunque: alla malora gli aruspici e le puttanesche sibille. Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un baratro i persecutori, i monatti. Ed io forse vi ritornerò. Certo che vi ritornerò. In una bettola di Mala Strana, ombre della mia govinezza, stappate una bottiglia di Melnik. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi. Vi porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato, i miei amici, i miei genitori risorti, tutti i miei morti. Praga, non ci daremo per vinti. Fatti forza, resisti. Non ci resta altro che percorrere insieme il lunghissimo, chapliniano cammino della speranza”. Johannes Urzidil sembra farsi carico di tutta questa nostalgia, interrogata, indagata, cantata e celebrata, come colui che è deputato a svolgere il compito apparentemente più umile; richiama quindi in vita, annota e recensisce tutti i particolari, minimi, quotidiani, cronologicamente ordinati, scrupolosamente raccontati di quella Praga perduta nella sua vita reale, che deve però continuare a vivere come ricordo luminoso, e si sa che i ricordi hanno bisogno di mille appigli per non essere destinati a svanire nell’inconsistenza dei giorni. In “Trittico praghese” scrive: “Ah, la mia storia è così barocca: tutta torri, cupole, colline e tristi arabeschi floreali come la città di Praga”. La sua storia è Praga e in questo suo libro le racconta entrambe. Lo fa da spaesato e sradicato perché, lasciando la sua città nel 1939, non vi tornerà mai più, ma continuerà ad attingere da lei il nutrimento della sua arte, anche se, come scrive: “Vissi e vivo in paesi lontani, ho la mia casa in terra straniera. Io non sono a casa significa: io stesso non sono amato. Forse significa anche: io stesso non amo abbastanza”. “L’amata perduta” è una raccolta di racconti ordinati cronologicamente in base agli anni del protagonista. La scelta di usare la terza persona riferendosi a lui, il bambino del primo racconto, non dura a lungo perché, già nella conclusione, Urzidil passa a narrare in prima persona, per poi affermare apertamente a metà del secondo racconto: “… ma il lettore sa già che si tratta di me, perciò voglio ora apertamente riconoscerlo”. Di racconto in racconto, il bambino cresce, diventa ragazzo e poi giovane uomo, vive nelle case della vecchia Praga, percorre i cortili “coi ballatoi ad ogni piano riparati da ringhiere che corrono tutt’intorno”. Urzidil ci porta all’interno di stanze affollate di strani oggetti polverosi, pervase da profumi densi e acuti, fa entrare in scena personaggi direttamente usciti, e trasfigurati, dal laboratorio della sua memoria che li ricopre di una patina di lirismo e di rimpianto: una bambina morta con le sue guance pallide, un fattorino occupato a consegnare messaggi d’amore di giovani ufficiali diretti a giovani attrici, belle e pericolose, la trapezista volante di un circo, una vecchia dama misteriosa capace di ammaliare con il suono di un antico pianoforte e che vive chiusa in un palazzo cadente che sembra il castello di una favola, ecc… Anche le sue pagine sembrano pervase da una nostalgia al quadrato, per il proprio passato vissuto in un mondo che sembrava comprensibile ma che ormai è perduto, e per la sua città, perduta anch’essa e perduta due volte, perché è lontana e perché, anche potendovi tornare, non sarebbe più la stessa. Per questo, alla fine del penultimo racconto, “Un ultimo servizio” (l’ultimo della raccolta, “I forestieri”, è già ambientato in Inghilterra) la sua voce, che si è a lungo attardata a raccontare eventi, ad affollarli di persone, oggetti, incontri, atmosfere, odori, e a descrivere luci ed ombre della sua Praga, si alza in un canto lirico d’addio alla terra boema: “Conoscevo questa terra, conoscevo le tenere curve delle montagne e le materne foreste, conoscevo i mille colori dei pendii che neri giacevano nelle tenebre, e che adesso, come ogni anno, si addobbavano per la loro estate. Nelle valli si stendeva un sonno pesante. Chi capirà, se io non ci sono, l’aureo dischiudersi dei boccioli al mattino, chi lo stridio del tordo e chi il fulgore del quarzo? Chi festeggerà la violenza selvaggia del vento sulle cime degli alberi e gli acquazzoni interminabili, che decifrerà le ramificazioni del licopodio sul terreno del bosco, chi converserà con la cicoria, chi inseguirà i coleotteri rossi come rame? St’ tranquillo! Qualcuno lo farà. Molti ancora lo faranno”.

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Giulia
11 years ago

Eh sì, Praga è davvero una città ricca di fascino!