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letteratura ceca

Jiri Fried, “Hobby”

JIRI FRIED – Hobby – Einaudi

“E ogni scrittura non vale forse più di ciò che con essa si può scrivere? Se con la scrittura si può cogliere tutto, si potrà dunque anche quello che nessuno ha mai ancora pensato e forse non pensera mai?”

Ciò che regge, motiva e caratterizza questo romanzo breve di Fried è la sua serrata struttura, che si sviluppa ed evolve con una perfezione quasi matematica in un crescendo di complessità e profondità. Lo specifico letterario che lo sostiene, una sorta di relazione dell’io narrante sulle modalità del processo evolutivo che trasforma l’hobby del protagonista in passione, poi in fissazione, in ragione di vita e, infine, in modello interpretativo del mondo, determina l’intreccio – l’avvincente storia interiore di una individualità altrimenti anonima – ma crea anche un mondo, “un puntiglioso universo della cancelleria”, al suo interno perfettamente plausibile e coerente, con le sue motivazioni, le sue leggi e le sue istanze metafisiche. L’hobby del titolo è la copiatura e il protagonista del romanzo, un piccolo impiegato del tribunale dal carattere timido e piuttosto lento, che ricorda certi personaggi gogoliani, è sempre e solo indicato dall’autore con l’appellativo “il copista”, non tanto per accentuarne il carattere anonimo, quanto, al contrario, per identificarlo nella sua unica e vera essenza. Unica a tal punto che il progressivo affinarsi della sua arte della copiatura – perché di questo si tratta – copre l’intero arco della sua vita da adulto, dall’inizio dell’età virile, subito dopo l’esame di maturità, quando viene assunto in tribunale, fino alla sua serena e laboriosa vecchiaia, fino al lento approssimarsi della sua morte. Non si può evitare di riferire, almeno per sommi capi, le tappe di un percorso disseminato di tentativi, conquiste, fallimenti, dubbi, angosce, esaltazioni che è insieme ricognizione di una vita e metafora della vita, oltre che struttura portante del romanzo.

L’inizio consapevole di tutto il processo è frutto di uno choc: il giovane impiegato si trova ad avere quotidianamente tra le mani incartamenti suggellati dalle firme dei loro relatori, “… tutte le firme avevano, senza eccezione, forme strane, ad un tempo laboriose e libere, come se fossero qualcosa di più e di diverso che una scrittura”. Inevitabile per lui il confronto con la banalità e grossolanità della propria firma e il tentativo di modificarla, arricchendola, prendendo a modello quelle dei colleghi più esperti e più anziani. La ricerca di modelli da imitare – che sarà per il copista stimolo e dannazione per tutta la vita – lo spinge nell’archivio del tribunale, alla ricerca di spunti per elaborare la sua nuova firma che alla fine trova, anche se la ritiene “poco originale, messa insieme alla meglio, con invenzioni e idee altrui”. In questa fase iniziale, la passione per la copiatura è ancora latente e inconsapevole e si manifesta in lui solo con una oscura sensazione di allettamento e tentazione quando le sue mani afferrano una penna. La scrittura però non è già più – e non sarà mai più – un automatismo, ha ormai perso il suo aspetto meccanico perché è motivata da una insaziabilità che lui stesso non riesce a spiegarsi e che deve quindi essere tenuta nascosta, perché riuscirebbe incomprensibile anche agli altri: “… le si abbandonava con un sorriso che la voleva ridicolizzare, rendere vana e tenerla nei limiti di una piccola stranezza, mentre ormai si era intrusa nella sua vita in modo molto significativo”. Una crescente passione che finisce per incidere nella sua vita privata e in qualche modo per determinarla; sia sul lavoro che negli affetti più intimi infatti il suo bisogno di scrivere, frainteso e scambiato per dedizione, gli procura una immeritata ammirazione, rendendolo consapevole di essere, nel profondo, un ipocrita. L’avvenimento decisivo che porta il protagonista alla consapevolezza che il suo “hobby” (ma è sempre più evidente come il termine abbia per l’autore una valenza ironica, perché qui non si sta certo indagando intorno alle motivazioni profonde e alle origini di un passatempo) ha sì a che fare con la scrittura, ma non coincide precisamente con l’atto di scrivere, bensì con l’atto di copiare, accade alla fine di giugno del “tragico anno 1938” (torneremo in seguito ai rari riferimenti temporali e spaziali entro i quali si colloca la vicenda, che appare esemplare e, in un qualche modo, avulsa dalla realtà storica). Il copista riceve un regalo prezioso da un parente proveniente dagli Stati Uniti: “Una penna stilografica di marca Wattermann, un pezzo massiccio e pesante, la cui parte più propria, il pennino, appoggiato su un sostegno di ebano finemente rigato, superava nella sua aurea grandezza tutto ciò che il copista avesse mai visto in quel campo”. Per ragioni logistiche, deve passare le notti nella soffitta della sua casa ed è qui, nel silenzio più assoluto e in perfetta solitudine che, provando questo straordinario strumento di scrittura, che gli procura autentica gioia, esaltazione e qualcosa di molto simile ad un innamoramento, dopo aver ripetuto per 367 volte la sua firma e per sei volte una frase di ringraziamento, preso da insopprimibile frenesia, inizia a copiare l’articolo di fondo di un quotidiano che si trova sulla scrivania. La solennità dell’avvenimento è sottolineata dall’castica frase di Fried: “E poi cominciò”. Il lento apprendistato ha condotto il copista all’importante scoperta del modello “che garantiva finalmente alla mano scrivente un percorso senza ostacoli e le forniva un inesauribile numero di piccoli ordini, che finora le erano tanto mancati, ordini il cui adempimento servilmente svelto e coscienzioso è il presupposto di una libera espressione scritturale”. Eccoci giunti al punto, ora il copista ha ben chiaro che la sua passione è copiare, che questo è ciò che più lo soddisfa al mondo e che quindi non ne può più fare a meno. La forma della sua scrittura è la sua essenza e, per essere libera di esprimersi ha bisogno di un supporto, che è il modello, che la liberi della responsabilità dell’ideazione del contenuto. Così l’hbby è diventato una passione e la passione è diventata una mania, la grafomania, e il copista sa che si tratta di qualcosa di “pernicioso” che nessuno può capire, perché non ha né giustificazioni né apparente utilità, e che di conseguenza deve essere tenuto nascosto come un vizio segreto, per evitare la derisione, lo scandalo o, nel migliore dei casi, la commiserazione. Sono giorni di gloria quelli che seguono la scoperta, ma anche di inquietudine e di menzogne, perché il copista deve inventarsi delle motivazioni plausibili per nascondere agli occhi della società la sua attività che è in fondo un atto di dissenso rispetto alle convenzioni della vita. Mentre esteriormente i giorni fluiscono monotoni, è nella copiatura a cui si è dato anima e corpo, che si concentrano le sue avventure, i drammi e gli accadimenti della sua vera e intima esistenza. Quest’uomo modesto e un po’ scialbo affronta le pagine da copiare con voracità insaziabile ed ingordigia. Quando gli articoli di giornale non gli bastano più e decide di passare alla copiatura di un intero romanzo, “Il celibato” di Frantisek Sokol-Tuma, nella sua metamorfosi si compie un salto di qualità. Le scelte che deve compiere in merito al tipo di carta, al colore e alla qualità dell’inchiostro e alle caratteristiche delle penne gli schiudono l’intero universo scrittorio e lo avviluppano sempre più nella sua fissazione. L’arte delle copiatura gli si rivela in tutta l’ampiezza dei suoi confini, mostrandogli l’infinità di strade che un insaziabile amanuense può liberamente scegliere di percorrere. Fried costringe il lettore a seguire gli esercizi preparatori con cui il copista prova le diverse combinazioni di carta-penna-inchiostro, costruendo, in un crescendo di vertigine, ben 3496 campioni di scrittura che, meticolosamente ordinati e catalogati, gli appaiono come altrettante varianti della propria calligrafia, cioè, in definitiva, della propria faccia. “… Ed ecco gli venne in mente il presuntuoso pensiero che tutte queste metamorfosi fossero affastellate in lui, e si immaginava di essere una grande montagna che non sospetta nemmeno quali vene o quali filoni ha nei visceri, e d’improvviso si sentì minuscolo, perché tutto ciò che vi era di forte e di potente era forse fuori di lui, nelle penne, nelle carte e negli inchiostri, o persino altrove, ed egli tentava soltanto e svegliava dal sopore la straordinaria forza che metteva in atto con lui tutto questo”. L’arte della copiatura ha ormai assunto una propria valenza filosofica e il copista ha affinato le sue capacità fino al punto di saper ascoltare la voce che la carta riceve dalla penna e la penna dall’inchiostro, ma tutto questo non può certo bastare a chi intende costruire un vero e proprio tabernacolo della copiatura. Gli è richiesto un ulteriore apprendistato, forse il più lungo e difficile, che riguarda la calligrafia (“… ora gli appariva chiaro, la sua scrittura conteneva molte trascuratezze, abbreviature e semplificazioni, tutte derivanti dal fatto che era in effetti una tachigrafia”) e non può che tentare di imparare copiando il modello di un maestro di grafia, il manoscritto di un vero antico amanuense, conservato nel museo della sua cittadina. Una lezione durissima che gli impone di scrivere in una posizione che è “una lotta della natura con la geometria” e che gli procura persino dolori alle dita, al palmo e all’avambraccio. Alla fine però perviene a una scrittura che corrisponde al prototipo come “il quadro al modello”, una scrittura nuova nella quale però dimora ancora la sua. E’ come gettare uno sguardo nel regno della metamorfosi e nel suo territorio chimerico e cogliere nella molteplicità di scritture esistenti al mondo la possibilità di infiniti travestimenti, “… come impazzito per una prospettiva così variopinta, digrignava i denti davanti allo specchio, faceva le smorfie, cambiava faccia e allestiva alla scrittura infiniti cortei di carnevale. E in questa mascherata si trasferì – e ben presto – per sempre”. Il copista è ormai perso per il mondo che lo compatisce e lo considera pazzo e il mondo è perso per lui, che mostra attenzione solo a ciò che gli ricorda la scrittura e il suo apprendistato; è attirato dal circo, dai movimenti dell’uomo serpente che gli ricordano i movimenti della penna sul foglio, è interessato al duro allenamento degli equilibristi e dei funamboli perché sono costretti a percorrere le sue stesse tappe. E si avvia verso una lenta e trasognata vecchiaia, tutta occupata dall’opera di trascrizione da altre lingue, che ovviamente non conosce, greco, cirillico, arabo, cinese, persiano e dei simboli di antiche lingue morte, cretese, fenicio, si cimenta persino nella scrittura cuneiforme. Anzi, preferisce copiare da lingue sconosciute perché così nemmeno il senso di ciò che scrive può distrarlo o disturbarlo. E poi inventa interi alfabeti costituiti da affascinanti simboli grafici e, persino, una scrittura corposa, lobata, ungulata, proboscidata, fatta di esseri vivi, o piuttosto di mostri, in un parossismo creativo che può avere termine solo con la sua morte. Riporto la conclusione del romanzo perché suggella, come una firma, una narrazione magistrale: “Sono stato ieri col copista al cimitero ebraico. Vi andiamo spesso attraverso una breccia nel muro crollato e ci sediamo tra le divelte lapidi sepolcrali, su cui, all’inizio della guerra, infierì così vergognosamente il razzismo, purtroppo non solo tedesco. Circondato dalle scritte ebraiche, che sa copiare ma non  leggere, il copista mi parlò della sua morte imminente; un giorno se ne andrà via; un giorno gli cadrà la penna di mano; che mondo magnifico, meraviglioso, che sarà finito solo per lui, dovrà abbandonare! Il sole tramontava. Guardando il viso del copista, nella grazia di quella mite luce, la sua mano che accarezzava teneramente i licheni di un sepolcro, pensavo alla mia vita, così insensata, fuggevole e sempre così disperata in mezzo all’indefinibile: con tristezza invidiavo quel vecchio”. Va ora detto che il romanzo, uscito a Praga nel 1969, edito in Italia da Einaudi nel 1975, risulta purtroppo quasi introvabile ed è un vero peccato. L’edizione italiana riporta in quarta di copertina una presentazione firmata da Angelo Maria Ripellino e la traduzione è della moglie, Ela Ripellino Hlochvà. “Hobby” è ambientato in Boemia, in un arco di tempo che va dal 1938 al 1968. Il copista si trova a sviluppare la sua evoluzione scrittoria in anni terribili per la sua terra e per il mondo intero, ma l’occupazione tedesca e le guerra sono per lui un’eco lontana, anche quando le perquisizioni della Gestapo lo toccano da vicino mettendo in serio pericolo il suo mondo. Nel romanzo i riferimenti agli avvenimenti storici sembrano funzionali allo svolgimento della vicenda, servono a riordinare le fasi dell’apprendistato del copista dando loro una scansione cronologica. Incredibilmente lo stesso periodo bellico ha per lui come unica conseguenza di una certa portata la necessità di organizzare una sorta di mercato nero per far fronte alla penuria di carta. D’altra parte, tutto ciò è in linea con la natura del romanzo, che si propone di seguire la metamorfosi del copista in “virtuoso del facsimile” e il virtuosismo, per sua natura, basta a se stesso e in se stesso trova le sue ragioni, avulse dalla realtà. La stessa data della sua composizione è d’altra parte significativa. Jiri Fried, che lo dà alle stampe nel 1969, appartiene, come afferma Ripellino, “alla folta schiera di quegli autori il cui nome non è più apparso dopo il tracollo della Primavera praghese”. La collocazione temporale della composizione apre ulteriori ipotesi interpretative a questo grottesco e affascinante racconto, minuzioso fino all’inverosimile. Nella progressiva chiusura del copista in un mondo dominato e spiegato dalla armonia e dalla pulizia della scrittura, che rende sopportabile la sua esistenza, dandole un senso e una pace, è implicita la rinuncia a decifrare i significati della realtà, il senso del mondo e della storia, la rinuncia a decifrare la vita insensata e fuggevole. Risultano così illuminanti le parole che Claudio Magris dedica a Fried e al romanzo nel suo saggio “Praga al quadrato”. Fried è da lui considerato uno degli scrittori cechi che riscoprono l’anarchismo, l’anima segreta della letteratura praghese: “Non è più l’anarchismo turbolento di Hasek, bensì l’anarchismo disilluso di chi vive solo per la propria assurda passione, dimostrando così l’assurdità e la stupidità del mondo”.

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Francesco Luigi Bovi
Francesco Luigi Bovi
11 years ago

Magistrale e competentissima questa tua opera di riesumazione di un grande libro figlio della splendida stagione praghese ‘sessantottina’, che sei riuscita a ripresentare attualissimo ai posteri di oggi, pure nell’originale edizione cartacea condannata per l’eternità a restare tra i gioielli fuori-catalogo della letteratura ceca del ‘900. Come non essere invidiosi, intanto, di quello che al tempo un comune lettore poteva esigere entrando nella libreria sotto casa, pubblicazioncelle einaudiane neanche tanto appariscenti con le loro brossure fresate e copertine cartonate, ma dentro ci trovava roba godibile per generazioni – tu stessa lo hai dimostrato appieno anche con “Il bruciacadaveri” del Fuks, un corallo Einaudi del ’72. Mi viene allora la voglia di chiederti spudoratamente di omaggiarmi con quello che di grandioso resterebbe ancora da riportare a nuova vita della obnubiliata letteratura ceca, specie con quelle opere già introdotte in Italia dal siculo-praghese Ripellino amorevolmente con la sua insigne consorte Ela Hlochová (“Dove trovarti, quando avrò desiderio di te, dei tuoi occhi smeraldi, quando avrò bisogno delle tue parole?”). Che ne diresti, dunque, se a breve attraverso i tuoi generosi appunti di lettura facesse la sua ricomparsa sulla nostra malmessa scena letteraria anche l’opera prima del Fried, “I minuti contati”? E, a seguire: “Interanalisi del fluito prossimo” di Věra Linhartová, oppure “Romeo, Giulietta e le tenebre” di Jan Otčenášek. Naturalmente nelle rispettive edizioni originali, come “Il caffé sulla strada del cimitero” del Filip che tu hai letto gongolante nell’edizione garzantiana del ’69!
Questa volta, però, ho avuto anch’io la fortuna di poter leggere “Hobby” nella sua irriproducibile veste editoriale da ‘nuovo corallo’, un volumetto che, sulle prime, nel maneggiarlo (con cura) mi ha anche suscitato un inatteso impulso feticistico a tastare e ad annusare quella sua retrocoperta ‘vintage’ a firma del Maestro, una paginetta che da sola costituisce un trattatello sulla poetica di Jiří Fried, scrittore definito “capzioso e analitico”. Come d’altra parte anche tu, Anna, hai appurato nel seguire pazientemente la lunga evoluzione creatrice subita dalla fisima dello scritturale fino ai suoi estremi, anamorfici e metafisici, e che un io narrante – esterno al racconto e solo a tratti interlocutore dei ragionamenti sofistici dell’innominato scrivano (al lettore non viene elargito nemmeno un ‘nom de plume’) – tratta come una patologia a eziologia ignota e sebbene cronologicamente circoscritta nel periodo storico compreso tra l’oppressione nazista della Cecoslovacchia e il crollo della Primavera di Praga.
Mi è piaciuta molto, ti dicevo, l’analisi che hai condotto sulla trasformazione ideologica di una semplice passione per la copiatura a grafomania totalitaria, un “modello interpretativo del mondo” che il copista finisce per ostentare anche come “atto di dissenso rispetto alle convenzioni della vita”, dopo essersi prodigato ad esplorare l’universo scrittorio in maniera così peritale da arrivare ai confini delle umane possibilità calligrafiche, e individuando gli archetipi di una zoologia fantastica osservabili nemmeno sul portale di una cattedrale medievale.
Resto tuttavia con l’interrogativo lasciatomi tra le mani dal copista stesso quando, ormai vecchio e prossimo alla morte, si chiede se con la scrittura sarà possibile cogliere tutto quello che nessuno ha mai ancora pensato e forse non penserà mai …