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letteratura italiana

Antonio Moresco, “Canti del caos”

ANTONIO MORESCO – Canti del caos – Oscar Mondadori

“Sono solo, completamente solo. Come si è infinitamente soli, all’inizio! Sono solo come mai è stato nessun altro scrittore di questa specie. Sono lo scrittore di un pianeta e di un mondo che non c’è più, di una specie che non c’è più, che non c’è ancora”

“Lettore irredento”, le parole con cui si apre la “Prefazione”, che dà inizio alla prima parte del romanzo e ne costituisce il titolo – la seconda si apre con l’”Invocazione alla Musa” e la terza con l’”Inizio” – sono un appello che chiarisce in modo ironico ma scevro di fraintendimenti a quale tipo di lettore Moresco intenda rivolgersi, irredento appunto, e destinato a rimanere tale, a non accontentarsi, ad alimentare la speranza di imbattersi prima o poi in un capolavoro letterario della contemporaneità – derivando forse la sua utopica illusione dall’essersi nutrito, in quanto lettore, di tanti capolavori del passato – in un’epoca in cui gli scrittori cosiddetti di successo hanno imparato bene il mestiere, quello di progettare “cosette di cento – duecento cartelle”, sviluppando uno schemino “sempre più facile di volta in volta, sempre più riuscito, sempre più tornito”, per sfornare “tanti bei compitini tutti in fila, uno ogni anno, due anni”, sfruttando tutto quello che l’industria letteraria, “le vaste e multimediali imprese economico – culturali” che gestiscono “una caricatura di questo genere sempre più marginale” mette loro a disposizione per incrementarne sia i guadagni che l’autostima.

Dalla prima pagina del suo romanzo fiume, la voce sferzante di Moresco si impone, come si impone, da subito, questo titolo, “Canti del caos”, così bello, importante ed evocativo. Ai lettori irredenti che si imbattono in questo libro è riservata un’esperienza di lettura difficilmente eguagliabile, perché in queste pagine non si ha a che fare con gli esiti di una creatività più o meno elaborata, significativa o suggestiva, ma con un progetto ben più ambizioso, quello della creazione. E tra i due termini c’è una bella differenza, anche perché l’abuso del primo nel linguaggio comune l’ha reso insulso, vago e utilizzabile indifferentemente in ogni tipo di contesto, mentre ben altro implica la parola creazione. La parola creazione implica l’esistenza di un creatore, ma solo un matto potrebbe ritenersi tale ed infatti è proprio così che Moresco si definisce, comparendo come uno dei protagonisti del suo romanzo con l’appellativo “il Matto”: “Il mio nome è Antonio Moresco […]. Mi sono inventato degli azzardi continui, dei sogni, per poter continuare a vivere. […] Una parte di me è stata costretta a vivere, in questa epoca spaventosa, immobilizzata e creata. Un’altra parte voleva solo crepare. E’ così che sono stato dentro la vita, e anche dentro quella cosa che è stata chiamata letteratura: per farla vivere e per farla crepare. Per farla crepare e per farla vivere. E’ questa lacerazione che ho portato, ho riportato e incarnato anche dentro la letteratura”. Creare richiede tempo, implica un regime di assoluto rigore verso se stessi, persino verso il proprio talento di scrittore, ed è sempre il Matto che spiega il suo bisogno di frenare la propria vena creativa “per spietatezza nei confronti di me stesso, per tormentarmi, per lacerare continuamente il tessuto narrativo e i suoi automatismi, che altrimenti vanno avanti orizzontalmente per conto proprio e tu credi di essere dentro qualcosa e invece sei dentro qualcos’altro, per stare sempre dentro lo strappo, la lacerazione, il passaggio, e sentire sull’intera estensione del mio corpo inerme il dramma della nascita di un altro corpo”. Strappo e lacerazione che sono ben rappresentati da uno dei famosi tagli di Fontana, scelto come immagine di copertina per la presente edizione.

Il lettore irredento che sceglie di imboccare questo passaggio, di penetrare attraverso lo strappo al tessuto narrativo, dolorosamente tenuto aperto da Moresco, che non concede tempo alla formazione di una cicatrice e alla guarigione, deve essere pronto a percorrere il delirio di una narrazione che non si distende, ma precipita. Perché il mondo reale e la sua trasposizione letteraria devono essere distrutti per poter essere ricreati. “Canti del caos” è un romanzo violento  – lo definisco romanzo ma il termine opera sarebbe più appropriato perché è un libro che trascende i generi letterari codificati – violento ed estremamente crudo, esasperato ed esasperante, che dà voce “a tutto ciò che finora non ha mai avuto voce”, che provoca e persino disgusta il lettore, avvincendolo però, e meravigliandolo, “incendiandolo” e trascinandolo all’interno di quelle pagine di altissima letteratura che sono i “Canti”. Il mondo che Moresco porta al tracollo, in un processo inarrestabile e delirante, è quello della metropoli contemporanea, colta nei suoi aspetti più disumanizzanti e popolata da una folla di figure grottesche che si muovono e agiscono seguendo logiche, abitudini e impulsi perfettamente coerenti in sé, ma del tutto estranei a quelle che potremmo definire convenzioni sociali. Un mondo dove realtà e virtualità convivono, interagendo tra loro, dove lo stesso ordine cronologico del tempo è sovvertito e persino i tempi verbali devono adeguarsi e imparare a mescolare passato e futuro. Si muove in queste pagine una folla di creature che vengono tutte coinvolte nel processo caotico di dissoluzione e creazione. La narrazione accelera progressivamente in un vortice che trascina con sé anche il lettore. Le soste sono i “Canti”, ampi, lirici, commoventi e sontuosi che si levano sempre più frequentemente dal caos e che ne sono la voce. Sì perché nell’opera di Moresco tutti cantano, tutto canta. Cantano l’investitore, la donna che urla, il traslocatore, la bambina, gli sbandieratori, i neonati strappati dal vento, l’uomo che incendia le spore, cantano il Matto e il Gatto, canta persino Dio. E cantano perché è la parola che li fa esistere e che dà loro un posto nel caos. Cantano perché sono artefici e testimoni della creazione, cantano nell’attesa dell’annunico che creerà il mondo.

Sono profonde le radici letterarie a cui è ancorato l’immane lavoro di Moresco; la struttura stessa dell’opera, la presenza dei canti, l’invocazione alla Musa ne sono la prova più evidente, ma queste stesse radici vengono stravolte dal caos che le rimodella, donando loro una vita e una vitalità impreviste, le “incendiano”, si potrebbe dire, usando un verbo caro all’autore. Basta pensare all’ineffabile Musa, onnipresente nume tutelare di chi nel romanzo si accinge a scrivere, una figura rivisitata e rimodellata da Moresco che le dona uno spessore umano, irriverente, ironico e, insieme, tenerissimo. La splendida Musa, una sorta di moderna etèra, che conosce l’arte di risvegliare i sensi, accudire i corpi, confortare i disillusi e poveri artisti che hanno perso l’ispirazione. L’infallibile Musa che tutti lasciano ritemprati nel corpo e nello spirito e pronti a cantare nel caos, a immergersi in quell’inferno metropolitano in tracollo, che, per certi versi, ricorda gli Inferi del “Poema a fumetti” di Buzzati e che è quindi l’ambientazione moderna del mito di Orfeo ed Euridice. E l’autore infatti riproduce per ben tre volte l’archetipo letterario dell’amante che insegue l’amata sfidando il regno dei morti, qui rappresentato dai luoghi segreti in cui, tra efferatezze e violenze di ogni genere, si girano disgustose pellicole pornografiche.

Forse ognuno dei lettori irredenti che si troverà a percorrere le strade di questo libro-mondo – e che avendone imboccata una non potrà evitare di sentirsi parte di questa realtà contaminata, virtuale e realistica insieme, e di sentirla, almeno finchè dura il tempo della lettura, come l’unica possibile – si imbatterà nei miti letterari a lui più cari, sarà costretto a tornare a quelle esperienze di lettura che l’hanno formato, perché Moresco è un generoso e geniale manipolatore che plasma e ricrea, trasforma, incendia e insieme celebra. Fruga in tutti gli angoli delle strade, dei palazzi, delle periferie delle metropoli, dei luoghi in cui si celebrano i riti vuoti di una società che costruisce e distrugge i suoi miti, che pubblicizza e vende il nulla di cui si nutre. E scova persino Dio, un Dio perplesso, spaventato e annichilito di fronte alla sua creazione, che canta anche lui, perché solo così può esistere, ma canta domande a cui nemmeno lui, ovviamente, sa dare risposte: “Perché non c’è pace, non c’è riposo? Perché ogni cosa viene separata così violentemente da se stessa? Perché queste povere cellule che vengono da lontane galassie e da esplosioni avvenute miliardi di anni fa continuano a separarsi violentemente, a tormentarsi? Per quale ragione? Perché? Perché tutto questo configurarsi, annientarsi? […] Io non so chi sono. Dio può essere solo chi non sa chi è”.

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