HENRY JAMES – La panchina della desolazione e altri racconti – Bompiani
“E’ veramente gloria essere stati messi alla prova, aver avuto la propria piccola forza, aver gustato il proprio piccolo incanto. Quello che conta è aver fatto vibrare qualcuno”.
Un estratto rivelatore della grande stoffa di un narratore che suggella i suoi scritti, siano essi romanzi o racconti, con le proprie impronte digitali, dando loro un aspetto particolarissimo e inconfondibile. I lettori di James conoscono bene la vibrazione di cui parla, cedono ogni volta alla tentazione di penetrare nei suoi meccanismi, di smontarli per individuarne l’origine; sciolgono uno alla volta i nodi intrecciati dei suoi racconti costruiti sulla speculazione, finendo ogni volta con la convinzione di avere alla fine risolto l’arcano, di aver riconosciuto metodi e procedimenti, o meglio, di essersi per un attimo riconosciuti nelle progressive trasfigurazioni interiori dei suoi personaggi, di aver assorbito un po’ della sua intelligente lucidità, per ritrovarsi però, molto presto, una volta chiuso il libro, come succede nei subitanei risvegli che pongono fine ai sogni, con la sensazione di non avere più saldo tra le mani il filo conduttore di un testo che potrebbe quindi essere riletto senza perdere nulla della sua bellezza e della sua originalità.
La presente edizione raccoglie sei tra i più famosi racconti di Henry James, tra questi “La belva nella giungla” (di cui ho potuto apprezzare l’interpretazione di Ginevra Bompiani nel suo libro “L’attesa”) e “La panchina della desolazione”, del 1910, uno “tra gli ultimi frutti della prodigiosa operosità dello scrittore […] un’opera in cui suprema è l’arte del narratore che usa con eccezionale abilità e sapienza tutte le corde del suo strumento” (dalla Prefazione di Agostino Lombardo). Si potrebbe certo affermare che si tratta di un racconto che ha per tema l’amore, se non fosse che lo scandaglio di cui James è dotato – che gli permette di illuminare, mettere a nudo e indagare ogni più impensabile risvolto dell’umana interiorità – finisce per rendere la situazione esterna – la storia d’amore appunto – quasi inconsistente rispetto alla sostanza morale che ne estrae e che, questo sì, dà origine al movimento narrativo, al conflitto e, quindi, al dramma. James riesce dunque a trasformare la rappresentazione dei moti interiori dei due personaggi – Herbert Dodd e Kate Cookham, essendo gli altri solo pallide e inconsistenti ombre, funzionali alla messa in moto del meccanismo narrativo – in una trama articolata e avvincente. E lo fa predisponendo il piano di gioco, costituito da fatti già avvenuti, offese, ingiustizie, dolori già subiti e inferti, sul quale muovere le sue carte, o meglio, le sue pedine, con i tempi, i ritmi, le imprevedibili logiche, le sotterranee strategie di un gioco di scacchi nel quale, ad ogni movimento possono seguire lo stallo e la stasi, oppure un repentino cambiamento dello scenario generale, che apre a nuove e prima inimmaginabili possibilità.
Al centro esatto di tutto ciò, “ultima Tule intorno alla quale si celebra la poco eroica tragedia dei due protagonisti” (Lombardi), c’è la panchina della desolazione, potente simbolo della inesorabile decadenza esteriore ed interiore di Herbert Dodd, ma anche – e il lettore se ne accorge immediatamente per la suggestione paesaggistica, e non solo, che è in grado di creare – simbolo di quella “terra desolata” che è il mondo fragile e precario nel quale l’uomo imbastisce le proprie trame sentimentali ed esistenziali. Tutta la prima parte del racconto conduce alla panchina della desolazione ed è sempre qui che, con estrema raffinatezza, James, il giocatore occulto che muove le sue pedine, azzarda il suo gioco fatto di progressivi avvicinamenti, di rivelazioni che sovvertono l’intero impianto narrativo, investendo i sentimenti e le motivazioni dei protagonisti di una nuova luce, dando al passato, alle offese, ai ricatti e alle miserie morali del passato, una nuova e per il lettore inaspettata interpretazione. Ed è sempre qui, sulla panchina della desolazione, che il racconto trova la sua mirabile conclusione. La desolazione è pertanto la cifra interpretativa dalla quale l’autore non vuole che il lettore si discosti ma, come sempre in James, la percezione dell’esperienza umana procede per gradi e per progressivi approfondimenti. Come, d’altra parte, suggerisce la stessa forma della sua scrittura, la sua cifra stilistica, che appare quasi più adatta ad indagare, sapere e conoscere piuttosto che a narrare – e che rende, proprio per questo la narrazione più densa, viva e attraente, donandole uno spessore pieno di ombre e di dimensioni sempre diverse. James è maestro nell’uso di periodi lunghi, disseminati da incisi che si incastrano l’uno nell’altro, come scatole cinesi, nel tentativo di dire la realtà dell’animo umano e di penetrare nella sua vertiginosa insondabilità.
La desolazione, dunque, ed è legittimo per il lettore tentare di individuare i sintomi di questa resa assoluta, di questa rinuncia alla lotta per affermare se stessi e la propria volontà, di questa scelta di chiamarsi fuori da ogni sorta di speranza che motivano e sostengono il racconto. E’ innanzitutto moralmente desolante, ma anche volgare e vergognoso, il crudele ricatto con il quale Kate si vendica del rifiuto sentimentale ricevuto da Herbert. Kate con “la sua insignificante faccia bruna, ampia e liscia, di gran lunga troppo grande per la sua testa”, con “tutta la grossolana indelicatezza della sua natura, in tutto il suo fondamentale eccesso di volontà e mancanza di scrupoli”, che si contrappone in un quasi prevedibile gioco delle parti, ad Herbert Dodd, un uomo “veramente elegante, forse addirittura un po’ troppo raffinato, languido, per così dire […] assolutamente da gentiluomo”, con la sua faccia “bella, raffinata” e dal “temperamento tipicamente letterario”. Le pedine sono poste sulla scacchiera e il gioco può cominciare, ma sotto l’insegna della imprevedibilità, perché Dodd, che desidera “un amore assolutamente abbandonato e senza riserve, assolutamente impetuoso e romantico, nel quale evadere con tutte le sue forze dall’ammorbante realtà”, accetta di rovinarsi economicamente, subendo il ricatto di Kate e non riesce a liberarsi dalla morsa d’acciaio della sua trappola. Ed è desolante scoprire, con la guida acuta di James, che, dietro all’orgoglio con cui Herbert rifiuta di combattere ad armi pari con Kate e cede al ricatto, dietro alla signorilità con cui va incontro alla rovina economica, ci siano in realtà una sorta di lassità morale, una colpevole mancanza di energia, una disposizione al vittimismo e al pianto, che trovano l’ambiente più idoneo nella panchina isolata lungo la marina, di fronte ad un malinconico tramonto. James instilla nel lettore il dubbio che il desolante destino, fatto di rinunce e privazioni, che attende Herbert e Nann, la giovane donna dalla pelle di pesca e dal viso fresco e delicato di cui egli si innamora e che alla fine sposa, trascinandola così nella propria miseria morale e materiale, non sia in realtà da lui subito come una inevitabile disgrazia, ma inconsciamente scelto e voluto. Perché l’autore sa bene come disseminare nei suoi testi tracce e indizi, lasciando al lettore la libertà di tralasciarli o di prenderli in considerazione, e di scegliere così fino a quale livello seguirlo nella sua discesa nei meandri dell’animo umano, nel suo vortice percettivo, senza che comunque ne venga alterata la bellezza del racconto.
Già nella sua prima apparizione Herbert Dodd, bello, colto, raffinato e sensibile, nasconde infatti una sospetta propensione per la sofferenza e proprio questo è ciò che nella sua vita lo manterrà legato indissolubilmente alla panchina della desolazione e quindi, in definitiva, a Kate Cookham, la sua volgare e grossolana ricattatrice: “In tal modo, fin dai tempi più lontani di cui aveva ricordo, c’erano state cose intorno a lui delle quali aveva sofferto, mentre gli altri non ne soffrivano; e aveva tenuto la maggior parte della sofferenza per sé – il che gli aveva insegnato, in certo senso, come soffrire e come, quasi, trovarvi piacere”. Forse basterebbe tutto questo per risolvere il racconto e avviarlo verso una malinconica conclusione, ma James va molto oltre e ci regala un rovesciamento di prospettiva, rimescola le carte, dà una nuova vita ai fantasmi del passato, anzi, ci conduce verso una nuova e diversa percezione dei fatti del passato. In pagine mirabili per l’attenzione, la pazienza, lo scrupolo con cui ogni minimo particolare trova la sua esatta e perfetta collocazione, viene descritto il nuovo incontro tra Herbert e Kate, dopo i lunghi anni della rovina, fatto di timide aperture, di improvvise chiusure, di delicatezza e di pudori reciproci. Ma sarebbe inutile cercare in queste pagine la consolazione che il lettore si aspetta, perché è in agguato, e ben presto si manifesta, una nuova e forse più profonda e definitiva forma di desolazione, legata – e questo è tipico nei racconti di James – alla percezione del passato, e in questo caso di un’intera vita, alla consapevolezza di aver frainteso ciò che era fondamentale e forse evidente, e di aver perciò sprecato il tempo, l’unico tempo concesso, accettando come inevitabili sofferenze inutili. Il nuovo aspetto di Kate, ora decisamente signorile e raffinato, le sue incredibili rivelazioni, la sua generosità disinteressata, il suo evidente ed inossidabile amore per Herbert, capace di sopravvivere al rifiuto, al disprezzo e, soprattutto, al tempo, non sono certo il lieto fine di una favola, ma illuminano l’intera vita di Herbert con la luce crudele dell’incubo.
E ancora una volta ci si aspetterebbe una conclusione, questa volta amara e beffarda, ma James, fedele alla cifra della desolazione, continua a condurci lungo la strada che ha scelto, perché Herbert, “con la sua indigenza, la sua solitudine, il torto sofferto, il rancore esausto, la sua predestinata sottomissione” non è più in grado di recuperare un minimo di orgoglio e di onore e compie la desolante scelta di accettare tutto ciò che Kate può offrirgli, ricacciando nel profondo l’oscura e scomoda sensazione di stare tradendo – forse addirittura in cambio della sicurezza che il denaro rappresenta – la sua stessa natura e il ricordo della sua disgraziata e scomparsa famiglia. E così, arrivati alla conclusione del racconto, entrambi i protagonisti si ritrovano seduti fianco a fianco sulla panchina del fallimento e della malinconia, offrendo ai nostri occhi lo spettacolo desolante della resa di Herbert e della triste vittoria di Kate.
Non conoscevo questa raccolta, ma avendo apprezzato altre opere di James non posso che segnarla nella lista dei “desideri”. Complimenti per la recensione. 🙂
Grazie! Questi racconti ti piaceranno, ne sono sicura. Meriterebbero tutti una degna presentazione.
Carissima Anna, La ringrazio per questa recensione che mi ha reso il senso della lettura che ho da poco finito. Da molto tempo alterno alle altre letture Henry James (tra gli ultimi, Gli ambasciatori, Ciò che sapeva Maisie, Un pittore di paesaggi, Ore inglesi, In gabbia e La panchina della desolazione, appunto) e ogni volta brancolo intimamente appagato nella cosciente inconsapevolezza narrativa che questo magnifico scrittore mi lascia. Grazie di avere descritto così bene quella vaga sensazione di un altrove dove James sembra condurti e dove sai di non arrivare mai.
Un’altra considerazione, forse fuori luogo ma per me piacevolmente misteriosa…. com’è che mentre scrivo questi raffazzonati pensieri, alla mia sinistra sullo schermo se ne stanno alcuni libri che tengo sul comodino (Si riparano bambole, Vergogna, e l’amatissimo Von Rezzori), insieme ad altri che sono in qualche parte della mia libreria e altri ancora che da tempo vorrei conoscere?
grazie di nuovo e complimenti per il blog
Grazie a lei per l’attenzione e il contributo su un autore che è un maestro della scrittura rarefatta e insieme acutissima, che affascina per la sua inarrestabile capacità di scavo nell’animo umano che sembra procedere passo dopo passo verso la complessità, una ricchissima complessità. Complimenti per il comodino, che mi sembra interessantissimo. Sto giusto leggendo “La morte di mio fratello Abele” di Von Rezzori. Un saluto. Anna