JAN OTCENASEK – Romeo, Giulietta e le tenebre – Nuova Accademia
“Quest’epoca è fatta di tenebre, difenditi contro di loro”
Presentato da Angelo Maria Ripellino e curato dalla moglie Ela Hlochova, uscito in versione italiana nel 1960 e, credo, mai ristampato, questo libro è avvolto dall’aura dimessa, rassegnata e nostalgica che hanno tutte le cose destinate all’estinzione e alla dimenticanza. Perché sarà sempre più difficile trovarne una copia e la sua natura schiva, delicata e sottotono, dolce ed estremamente raffinata lo rendono un oggetto decisamente poco appetibile per l’odierno mercato editoriale. Ed è un peccato, perché un libro che si estingue è uno sguardo che si chiude e una voce che si spegne. Oltretutto una voce ceca, apprezzata da Ripellino che considera Otcenasek uno dei protagonisti della svolta nelle lettere ceche “dopo il conformismo e lo squallore dell’età staliniana”. Lasciar spegnere queste voci equivale ad assistere, impotenti, alla progressiva mercificazione turistica dei quartieri del centro storico di Praga, alla loro trasformazione nella parvenza di se stessi.
Leggo Otcenasek e sfoglio “L’ora di Praga” di Ripellino, trovandovi echi, motivazioni e riscontri. “Non da ieri, non da oggi amo questa terra, questo popolo, questa città” scrive il letterato siciliano, che si considera “quasi boemo”, nei suoi articoli sulla Primavera di Praga, dando vita, tra le altre cose, ad una sorta di diario dei fermenti artistici che pervadono la città in quegli anni – “Praga è oggi più che mai una città dell’assurdo, densa di suggestioni Kafkoidi” – in una felice contaminazione di generi, dove poesia, teatro, narrativa e arti figurative si influenzano a vicenda nell’ansia di rompere schemi e limiti codificati. Ecco, il romanzo breve di Otcenasek, uscito nel 1958, sembra precorrere cronologicamente questa felice contaminazione. E Ripellino ne è ben consapevole se nella sua prefazione sottolinea come l’angoscioso lirismo che pervade questo racconto sia paragonabile per intensità a quello di uno spettacolo teatrale dal titolo “Giulietta e Romeo. Sogno d’un prigioniero”, allestito dopo la guerra presso il Teatro Burian di Praga, a cui ha assistito. Giulietta sospesa come un miraggio alla parete di una cella e Romeo che si tende senza speranza verso l’amata irraggiungibile. La suggestione teatrale, la sua capacità visionaria, vengono in soccorso ad una parola che diventa lirica fino alla poesia. Perché tutto ciò è necessario se si vuole raccontare questa storia d’amore e di morte, attualizzandola nel contesto ancora più brutale della guerra, dell’oppressione nazista a Praga, dell’antisemitismo, della deportazione e dello sterminio degli ebrei.
Il romanzo racconta la storia straziante di un amore impossibile tra una ragazza ebrea e uno studente ceco, che nasce e fiorisce nei giorni delle brutali persecuzioni attuate a Praga dai nazisti dopo l’attentato al Reichsprotektor di Boemia e Moravia; una collocazione temporale che rende doppiamente crudele l’impossibilità di questo amore, aggiungendovi la segregazione, l’isolamento, la prigionia con tutti i suoi fantasmi. “Le vecchie case sono come la gente vecchia: piene di ricordi”, inizia così il primo capitolo di questo romanzo, e così inizia anche l’ultimo, racchiudendo tutta la vicenda all’interno di questo tono cantilenante da pantomima, da teatro di strada, da racconto popolare, confezionando un contenitore fatto di leggerezza e di un’atmosfera bonaria, quasi paesana, per custodire al suo interno una storia tragica di amore osteggiato e di morte ingiusta, di potere cieco e di immotivata violenza. E’ la ballata dei cortili, delle scale, dei caseggiati, delle stanze illuminate nella sera, delle strade percorse ogni giorno, nella vita ordinaria che nemmeno la guerra o la dominazione nazista riescono a cancellare del tutto, è l’atmosfera di Praga e della sua gente che percorre sottotraccia tutto il romanzo e che ogni tanto, anche nei momenti più drammatici, irrompe nelle sue pagine, donando loro quell’aspetto dimesso, semplice, a tratti leggero, ingenuo o, come dice Ripellino, “fragile”, come fragile è la storia del disperato amore dei due giovani. La quotidianità è così potente nella sua realtà che, quando l’orrore irrompe, prima ancora di suscitare paura, crea un moto di incredulità.
Ma il cuore del romanzo è da un’altra parte, è in una stanza chiusa, quella in cui Paolo nasconde, per proteggerla, la sua amata Esther, la stanza che trasforma Paolo in un uomo, la pantomima in teatro e le parole in poesia. La comparsa di Esther illumina e motiva il romanzo e, mentre dà il via a quel percorso di formazione che trasformerà il protagonista in un uomo capace di compiere scelte pericolose e di assumersene la responsabilità, produce anche un netto cambiamento nello stile dell’autore, che si fa più allusivo e complesso, meno diretto ma più disteso, capace di creare ombre e volumi. “Stava seduta sul lato opposto della panchina, stranamente rannicchiata in se stessa. Una valigetta nera sulle ginocchia, la teneva con la destra, la stringeva sul petto, come se avesse paura che qualcuno gliela potesse strappare. Dato che aveva la testa inclinata, vide solo il suo profilo. Nel fiacco crepuscolo luccicava il viso sotto i capelli neri; sotto la stoffa della gonna estiva le ginocchia erano serrate strette”.
La stanza chiusa, stanza di un giovane poco più che adolescente e ancora immaturo, all’ingresso di Esther, diventa il teatro su cui muove i suoi passi l’amore, l’essenza condensata e simbolica di ogni amore. Ma la stanza, “magico cubo fuori dal tempo”, è assediata dalle tenebre e l’amore che la abita diventa così, nella penna di Otcenasek, un’ancora di salvezza, una sorgente di luce, l’antitesi delle tenebre, e si eleva ben al di sopra del sentimento umano che lega due giovani. Contaminazione di generi e rottura di codificate regole di composizione: “Romeo, Giulietta e le tenebre” è appunto pantomima e romanzo popolare, romanzo di formazione, copione teatrale e, forse, racconto simbolico della tragedia di un’epoca. Nei dialoghi dei due giovani amanti nella camera chiusa, in cui l’ansia e i sogni si alternano e si intrecciano e nei quali l’abilità dell’autore riesce a condensare un’intera vita, dilazionandone e prefigurandone gli avvenimenti, si insinua con estrema lentezza un funesto silenzio nel quale, a poco a poco, si comincia a intravedere l’inevitabile, drammatica conclusione. E il lettore è tenuto sul filo dell’ansia da uno stile che, come dice Ripellino, possiede “un che di ansimante, di sbigottito, di arcano, che combacia a meraviglia col clima dell’epoca e col ritmo affannoso della vicenda”.
Con una calma e una perseveranza non comuni, puntualmente sei ritornata ad offrirci una perla dell’universo letterario ceco, un breve ma toccante romanzo, purtroppo già relegato nell’oblio e per quanto introdotto in Italia dal Ripellino negli anni in cui egli era il nume tutelare della nascente Primavera di Praga. In questo modo stai pure mantenendo viva l’importanza di tutta una letteratura della memoria, che proprio attraverso la tua originalissima ‘rilettura’ di autori come Fuks, Fried, Rubinowicz ed ora anche Otčenášek, dimostra di possedere ancora la capacità di non far dimenticare all’umanità “i giorni della furia nazistica, l’obbrobrio dell’antisemitismo”, il dramma che ad essere sterminate quasi interamente siano state le comunità ebraiche dei territori slavi.
Ma quello che tu scrivi, cara Anna, è anche “il canto sulla polvere” di ciò che resta oggi di Praga, una città turistizzata come un luna park e frequentata da un volgo profano e invadente. Pertanto ho raccolto subito il tuo invito a leggere “Romeo, Giulietta e le tenebre” per poter ‘ripensare’ alla Città Vecchia, dove “ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná”. Ma anche perché il tuo appassionato appello mette in guardia il lettore dalla esecranda eventualità che potrebbe un giorno ritrovarsi a dover recuperare e rivalutare troppo tardi quest’opera, quando sarà ormai estinta, non disponendo la letteratura di un suo specifico ‘germoplasma’ che conservi nel tempo i suoi caratteri genetici. Memorabile il tuo aforisma: “un libro che si estingue è uno sguardo che si chiude e una voce che si spegne”.
E così, grazie ad una libreria antiquaria, ho potuto anch’io compatire il tenerissimo amore che scaturisce come ‘lux in umbra’ tra Paolo, un maturando ‘Student von Prag’, e la sua coetanea Esther, perseguitata dai volenterosi carnefici di Hitler. Convengo dunque con le tue considerazioni di colta e acuta lettrice, avendo riscontrato nella trama uno sviluppo poliprospettico, che pur dipanandosi come “la ballata dei cortili, delle scale, dei caseggiati”, nasconde sì una struttura narrativa da ‘Bildungsroman’ ma assurge alfine a “racconto simbolico della tragedia di un’epoca”, tanto disperate sono le parole di Paolo: “C’è qualcosa di confuso, imbrogliato in questo nostro secolo. Ghetto! Progresso, tecnica e medioevo! Che colpa ne abbiamo noi?”. Tutta la vicenda narrata infatti, è storicamente identificabile (attentato al Reichsprotektor Reinhard Heydrich) e in essa trova posto a mo’ di pantomima anche quella “sparuta timidezza delle altre figurette ceche” rappresentata dall’autore per mettere in risalto il comportamento sottomesso del popolo cecoslovacco durante l’occupazione tedesca. Sarei curioso, infine, visto che il romanzo, come ci ricorda Ripellino, ha fornito “lo spunto a molteplici riduzioni cinematografiche, televisive, teatrali”, di conoscere gli esiti dell’adattamento filmico, come ad esempio la pellicola realizzata da Jiří Weiss, “Romeo, Julie a tmá”, uscita nel 1960. Chissà se avrò mai la fortuna di visionarla, magari in uno di quei ‘cinema d’essai’ che nei primi anni ’70 Umberto Eco dipingeva ironicamente come ritrovo outsider per un pubblico di antropologi, logici matematici, urbanisti …
Nell’esprimerti tutta la mia riconoscenza per aver potuto aggiungere tra i miei riferimenti culturali più importanti anche Jan Otčenášek, ti saluto Anna con sentimento cordiale e di profonda amicizia. A presto. Francesco
Come ringraziarti di questo tuo intervento, caro Francesco, che illumina i miei appunti di lettura? Sono felicissima che per mio tramite gli occhi di un altro lettore abbiano potuto prima cercare e poi leggere questo libro che viene da un mondo lontano, ma così fervido e vivo. Lo faccio con questi versi di Ripellino, che ho eletto a mio maestro e guida lungo le strade della letteratura ceca:
Sono qui ad aspettarti. E mi pare
di attendere invano il ritorno del corvo.
Dubito che si possa rischiarare
questa nostra epoca torbida.
Ti immagino dentro un teatrino muffito,
in un’accigliata cantina.
Non vorrei rivederti avvizzito,
avvolto di naftalina.
Torna giovane. Mi vestirò di pervinca,
balleremo un’intera estate
uno struggente valzer di Glinka,
come in vaporose stagioni passate.
Ma ora cade la neve. Sono già cinquant’anni
che cade sulla nostra vita. Ed è tetro il domani.
A parte le angustie e gli affanni,
mi sento ridicola come un parrucchiere per cani.
Ma affrettati, affrettati nella città del tuo sogno.
Molti ti pensano con malinconia. Ed io ti aspetto.
Siamo ancora vivi e ci assilla un bisogno
di gioia, di calore, di affetto.
da “Autunnale barocco”
Un caro saluto. Anna