ANTONIO MORESCO – Gli incendiati – Mondadori
“C’è, esiste una persona al mondo, in tutto il mondo popolato di miliardi di corpi della vostra stessa specie, che affronterebbe la morte per voi? Siete vissuti almeno per poter dire a voi stessi di avere avuto in cambio questo? E, quanto a voi, esiste per voi una persona per cui dareste la vita, se fosse lei a trovarsi in una situazione simile?”
Dalla disperazione al sogno, da un incendio all’altro, un lungo autodafè, un canto incalzante che potrebbe trovare una sua collocazione in “Canti del caos”: il canto della ragazza circassa dai denti d’oro, a riprova di quella accumulazione di vene poetiche e narrative che percorre le pagine della principale opera moreschiana. Un bagliore “di carne e oro” – che si fa di volta in volta premonizione, stupore, consolazione, nostalgia, ricerca, possesso, ricordo, sogno e riconoscimento – occhieggia tra le pagine del romanzo, un bagliore persistente che avvince perché tocca un desiderio intimo di pienezza, ma anche di sovrabbondanza e di trasfigurazione, dal bagliore della carne al bagliore del fuoco. C’è un misticismo soffuso in questo romanzo, un misticismo tutto laico, che non punta alla redenzione dal peccato e alla purificazione, ma alla costruzione di un percorso che dalla infelicità, dall’isolamento e dalla quotidiana disperazione conduce prima al riconoscimento, poi al completamento, per finire in una pacificata estinzione. Un percorso che tocca i luoghi più intimi, segreti e veri della natura di un uomo, il desiderio della carne e il desiderio del cuore, intrecciati, indissolubili e destinati ad alimentarsi a vicenda. E il protagonista e voce narrante del romanzo è un asceta, uno strano tipo di asceta, un pellegrino alla ricerca di un senso, che esplora per trovarlo tutto ciò che ha a disposizione, che percorre la gabbia della sua carnalità in tutti gli angoli, anche i più remoti, predisponendosi comunque alla gioia, anche all’illusione della gioia, perennemente in attesa di una rivelazione. Questa carnalità, dalla quale l’opera di Moresco difficilmente prescinde, è modulata a tal punto da attingere persino all’osceno, persistere nella crudezza delle immagini, riuscendo paradossalmente a mantenere vivo un senso di pietas, compartecipazione dolente e quasi affettuosa, di comprensione insomma per tutto ciò che al fondo rivela un desiderio umano, maledettamente umano, una gabbia che ha solo illusorie e momentanee vie d’uscita. E’ un asceta che non rinnega il suo corpo il protagonista di questo romanzo, ma che anzi è affezionato a lui, lo abita, non lo abbandona e lo usa per compiere fino in fondo un singolare viaggio oltre al termine della vita.
Non so se nelle intenzioni dell’autore ci fosse quella di scrivere un moderno viaggio dantesco nel regno dei morti, sfrondato dalla tematica religiosa e adattato all’inferno, ad alcuni dei molteplici inferni della contemporaneità. Di sicuro Moresco racconta un viaggio che inizia a partire da un incontro, che si fa via via sempre più incalzante, prima terreno e poi ultraterreno, che si dispiega nella eterna notte dei morti, che percorre l’orrore della guerra e che si conclude con perfetta circolarità con un autodafè che ricorda e porta a compimento l’incendio iniziale. Un viaggio metafisico in cui c’è spazio per l’avventura e l’azione, o meglio, che si compie attraverso l’avventura e l’azione, ma anche attraverso la violenza e l’erotismo, per toccare forse gli estremi, l’estremo limite che si possa dare all’immaginazione nella consueta aspirazione alla pienezza, che ben conoscono i lettori di Moresco. L’infelicità. L’autore conosce bene le parole per dirla, la affida a frasi brevi, semplici, a paragoni che colpiscono perché illuminano sensazioni cristalline, orgogliose, refrattarie ad ogni possibilità di consolazione: “Allora ero completamente infelice.”, “Tutta la vita era sotto la cappa della morte. Uomini e donne perpetuavano la menzogna dell’amore.”, “Mi ero separato da tutto e da tutti. Avevo troncato ogni legame. Mi ero gettato il mondo alle spalle.”, “Mi muovevo come un sonnambulo in una foresta di corpi morti.”, “Ero intontito dalla scoperta della catastrofe della mia vita.”. E tra tutte le ambientazioni possibili, sceglie quella che a lui sembra la più adatta a far risaltare maggiormente questa dignitosa, umana e disperata infelicità: il frenetico vitalismo vacanziero di un albergo fronte mare nel pieno della stagione turistica. E’ questo il teatro della rivelazione, della comparsa della moreschiana donna angelicata, che si concretizza all’improvviso, nel bel mezzo di un incendio, anche questo di biblica memoria.
La protagonista femminile del romanzo possiede una grande potenza letteraria che deriva innanzitutto dalla sua ambivalenza: la sua funzione angelica, il suo essere salvifica e protettrice per il protagonista, guida e compagna nel suo viaggio e, nello stesso tempo, incarnazione di un ideale quasi stereotipato di bellezza femminile – giovane, straniera, dalla pelle bianca e il sorriso luminoso. Uno strano angelo, senza ali ma con i denti d’oro, che non è messaggero di nessuna divinità ma semplicemente risposta ad un desiderio, che appare, scompare, riappare come un essere ultraterreno, ma che è definito da una calda e accogliente corporeità. E’ l’eterno femminino dei romanzi di Moresco, parente stretto della Musa dei “Canti del caos”, una femminilità che accudisce e comprende, aiuta, cura e nutre, che ha il potere di aprire piccoli spazi di sogno nella quotidianità e di difenderli dall’aggressione del reale. Una femminilità che è rivelazione improvvisa di un riconoscimento nella luce buia del mondo: “Mi era rimasta solo l’impressione profonda di aver incrociato per un solo istante un’altra esistenza nella cruna in fiamme della vita e del mondo, l’idea che se mai l’avessi rivista una seconda volta avrei potuto riconoscerla solo da quello sconvolgimento che avevo provato per lei in tutta la mia mente e in tutto il mio corpo”. Moresco sa come immergere questa sua creatura nell’indeterminatezza, come accrescere la domanda intorno alla sua natura e al suo compito, ma anche il desiderio di assistere allo svolgersi degli eventi a partire dalla sua comparsa perché, da subito, è lei ad apparire onniscente, nella insensatezza del mondo. Lo fa attraverso la replica: la donna riappare per tre volte nei ricordi del protagonista, come illuminazione retrospettiva della vita già vissuta, e poi in un lungo sogno, come premonizione della felicità futura. Così che incontro, ricordo e sogno aprono la strada alla ricerca: “Cercavo lei, tra quella selva inalberata di volti che venivano avanti come vessilli di armate sconfitte”. La ricerca avviene nella selva oscura della città metropolitana, nel sottosuolo grigio, anonimo e affollato di ombre, novello ade contemporaneo, scenario privilegiato tanto caro all’autore. Il secondo incontro, fortuito ma fatale, crea tra i due protagonisti quel legame indissolubile che li porterà allo splendido finale. La bianca ragazza circassa si staglia dalla selva di volti anonimi, perennemente circonfusa da un alone di luce; è straniera, estranea, araldo della riconoscibilità, ma, oltre a tutto questo, possiede il dono della parola, che si staglia potente, icastica, significativa, esprimendosi in frasi indimenticabili che, da sole, nel frenetico rincorrersi degli avvenimenti – fantastici, surreali, spesso al di là di ogni logica realistica – donano al romanzo una dimensione intima in cui l’amore diventa pacificazione esistenziale: “Guarda … ho incendiato il mondo per te”, sono le sue prime parole sussurrate, “Vuoi bruciare con me?”, e più avanti: “Cercami! Trovami! […] E, dopo che mi avrai trovata, di’ anche a me dove sono e chi sono”, e ancora: “Io sono disposta a dare la vita per te”, “Io sono il tuo amore”, “Voglio essere degna di te”, “Siamo una stella”.
Così il viaggio può avere inizio, ma ogni ascesi che si rispetti presuppone la discesa nell’abisso della corruzione, rappresentata nel romanzo dal mondo dei moderni trafficanti di schiavi, al quale anche la bella ragazza circassa appartiene. E’ un angelo sterminatore quello che conduce il protagonista oltre i confini della vita, nel viaggio notturno verso il regno dei morti e della guerra. La magica notte moreschiana sospesa tra mille luci disabitate, tagliata da un’auto in corsa, un’eterna prima notte di nozze trascorsa negli alberghi di fronte al mare ora deserti, che prelude all’estinzione del rogo finale. Una sosta davanti al mare nero, in una interminabile notte, un lungo notturno in prosa che esalta e porta a compimento tutta la poesia sparsa anche nei momenti più crudi del romanzo. Il lettore non si sorprende più, perché ormai se lo aspetta, scoprendo che nemmeno nella notte dei morti c’è pace e non può che seguire il ritmo della narrazione che diventa frenetico in questo viaggio fra “montagne nere, boschi carbonizzati, grandi fuochi”, e si aspetta anche la frase che la ragazza pronuncia: “Non è neppure questo il nostro posto! Non esiste il nostro posto nel mondo!”, preludio al rogo finale – che è la risposta alla domanda iniziale “Vuoi bruciare con me?” – insieme ascesi ed estinzione, in una luce che è fuoco e oro.
Ti scopro oggi, con stupore e interesse. Non sono molti i blog letterari di qualità. Non ho mai letto nulla di Moresco, ma sono rimasta letteralmente incantata dalla tua recensione. Con la tua “sentita” esposizione sei riuscita ad avvolgermi, a trascinarmi dentro l’atmosfera di questa stranissima storia. Ti seguirò con piacere.
Ho scoperto Moresco recentemente e lo considero uno dei pochi autori italiani contemporanei (almeno tra quelli che conosco) che si possa definire veramente grande. Spero che tu possa presto apprezzarlo. Ti ringrazio molto per le tue parole. Ti seguirò anch’io. A presto. Anna