ANGELO MARIA RIPELLINO – Nel giallo dello schedario – Cronopio
“Al fondo di ogni creazione c’è la nobile illusione di salvare il mondo. Ma chissà che l’arte non possa avere una funzione medicatrice? In termini banali, chissà che non possa esserci d’aiuto, non possa darci la salvezza procurando sulla nostra scabra pelle di fantocci meccanici una ferita di gioia?” (da “L’arte può salvarci con ferite di gioia. Angelo Maria Ripellino studioso e poeta”, intervista a cura di Corrado Bologna, in “Il nostro tempo”)
Predisporsi alle ferite e al contagio è d’obbligo per chi si inoltra nei testi di Ripellino, siano essi prose, poesie, saggi o recensioni, perché ogni sua pagina è un passo in più che conduce il lettore attraverso quell’”itinerario del meraviglioso”, quella “generosa illusione” e “stupenda demenza” che, prendendo in prestito alcune delle sue già classiche definizioni, è la letteratura. Ripellino, recensore innamorato del suo oggetto di studio, non smette per un attimo di essere poeta e contagia con i suoi guizzi interpretativi, che sono in realtà pertugi, vie d’accesso agli innumerevoli mondi della creazione artistica. Chi intende seguirlo, diventa ben presto vittima di una fascinazione al quadrato: quella generata dall’autore e dall’opera di cui si parla ma anche, nello stesso tempo e in un modo difficilmente scindibile, quella derivante dalla strabordante personalità, dalla lussureggiante scrittura di chi è chiamato a presentarli.
Il presente volume raccoglie le recensioni di argomento letterario pubblicate dall’autore dal 1963 al 1973 sul “Corriere della sera” e sull’”Espresso”, ma la loro destinazione giornalistica non ne pregiudica né l’intensità né la vena creativa che le rendono degne, pur nella loro più limitata articolazione, delle sue prestigiose raccolte “Letteratura come itinerario nel meraviglioso” e “Saggi in forma di ballate”. Anche per questo, come sottolinea Alessandro Fo nella “Postfazione”, si è scelto di assegnare al volume il sottotitolo di “Note e recensioni in forma di ballate”. L’operazione letteraria in cui Ripellino si cimenta, infatti, anche nei saggi e nelle prose brevi, trae la sua linfa dalle architetture del pensare e del dire poetici; le sue pagine trasudano di quella poesia che è, a suo dire, “una prova di resistenza alle asperità quotidiane e all’indifferenza degli uomini”, quella poesia “magnificamente superflua come il dolore e troppo fragile in tempi di sopraffazione”. Ripellino ha dunque un approccio mimetico ai testi, vive ed esprime, mentre ne parla e li presenta, una compartecipazione attiva alla temperie intellettuale ed emozionale che li ha generati, che si traduce in una prosa “vibrata” e incalzante che esalta il suo oggetto e lo fa lievitare con “un’ebbra molteplicità di rimandi e reminescenze”, ottenendo così il duplice effetto di renderlo imprescindibile per il lettore e, nel contempo, di farlo portavoce e testimone del proprio originale genio creativo. Con il risultato che il lettore si ritrova nel bel mezzo di un gioco di specchi, al centro di un labirinto di sollecitazioni, colpito da una sovrabbondanza di stimoli. Non potrà allora esimersi né di inserire nei propri futuri percorsi di lettura le opere ancora a lui sconosciute, così potentemente vivacizzate dalla verve critica di Ripellino (alcune delle quali purtroppo non facilmente reperibili), né di rileggere testi già conosciuti alla luce della sua sapienza interpretativa, né, tantomeno, evitare di seguirlo ancora, lungo tutta la sua produzione, che è scrittura-spettacolo, insofferente agli steccati del genere letterario e insieme fuga da tutto ciò che è piatto e banale.
I trenta pezzi che compongono il volume, tutti risalenti alla piena maturità dell’autore, confermano la sua vocazione di slavista e spaziano dai classici della letteratura russa, agli autori che egli idoleggia, pescando a piene mani dai margini della Mitteleuropa agli estremi confini della cultura slava, perché non sa resistere alla “intimità col diavolo” di Gogol, alla “gioia dell’arabesco” di Andrey Belyj, alla “truculenza da istrione” di Majakovskij, agli “intrugli e incantesimi” disseminati nelle poesie della Cvetaeva, alle “famiglie di manichini cialtroni” che si agitano nelle commedie di Vaclav Havel, agli “esilaranti pupazzi” di Gombrowicz o alla “irrefrenabile brama di ciarle” di un Bohumil Hrabal. Sono citazioni tratte dalla “Prefazione” scritta da Nello Ajello a “L’ora di Praga. Scritti sul dissenso e sulla repressione in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’Est (1963 – 1973)”, una raccolta di scritti ripelliniani curata, come il presente volume, da Antonio Pane, a riprova di una sostanziale, anche se istrionica, coerenza letteraria.
Ma non basta; alcune di queste pagine sono un resoconto personale, prima ancora che critico, di un incontro con un poeta molto amato da Ripellino, conosciuto in Italia proprio grazie alle sue traduzioni: Boris Pasternak. E la recensione si trasforma in testimonianza, delle parole del poeta dotate di “una gravità battesimale”, della sua recitazione “identica al suo stile poetico: un balbettio trafelato, un susseguirsi di scatti, di ingorghi, di brusche interruzioni”, della sua figura, ritratta così in seguito ad una visita a Peredelkino, il 15 settembre 1957: “All’ingresso della dacia, che ormai sembra far parte d’una topografia onirica, incontrammo la moglie del poeta, in un nero vestito all’antica, da cui pendeva una nera coda di stoffa: il contegnoso vestito e i capelli tinti di nero le davano l’aria d’una stanca diva del muto. Due cani abbaiarono. Poi, come scollandosi dal tronco di un albero, apparve Boris Leonidovic Pasternak in giacca di tela azzurra e calzoni di tela color latte: cordiale, con gli occhi sgranati, barcollante come un sonnambulo”.
Non basta ancora; nella sezione relativa alla poesia di Marina Cvetaeva (“Il cigno abbandonato”), prendendo le distanze da un traduttore che non ritiene all’altezza, Ripellino svela i suoi trucchi del mestiere – sarebbe meglio dire le sue magie – le armi a doppio taglio del traduttore, che deve avere il coraggio della manovra e del gioco: “Ma scusatemi, dov’è la Cvetaeva? Un fragore di oceano in tempesta è divenuto sciacquio da trovarobe, l’urlato s’è fatto modulazione da camera. So bene quanto sia duro trasporre questo tessuto vocale, in cui le parole si attraggono ed urtano per parentela fonetica, spezzandosi in stridule schegge, questo tessuto malato di un’infrenabile iperemia di assonanze, – questa trama affannosa di frasi a squarciagola, scagliate alla cieca, a precipizio. Eppure qualcosa di più si poteva ottenere con aggiustamenti ed astuzie, tentando nella nostra lingua consimili rinterzi e viluppi acustici, evitando le vane inversioni, lavorando (accanitamente) di lessico”. Così come, parlando di Sklovskij, quasi di sfuggita, l’autore riconferma quello che i suoi lettori sanno bene e che rende così avventuroso e godibile l’approccio alle sue prose critiche: “Se l’arte è fattura di oggetti e giuoco ai congegni, la recensione dev’essere anch’essa un oggetto verbale, un capriccio, un accumulamento di trucchi”.
Infine, le invasioni di campo, le deviazioni dal percorso, le incursioni dello slavista in un territorio per lui inconsueto, una tra tutte, quella nel mondo di E.T.A. Hoffmann, l’unico autore tedesco qui recensito. Un incipit clamoroso: “Quando Kafka me lo consente, io vado a far visita a Hoffmann. Lasciando le squallide camere di sbaffitto, gli afosi bugigattoli delle locande, i cupi androni di case fatiscenti, mi ritrovo in giardini incantati, prototipi dei teatri botanici di Paul Klee”, e poi l’immersione, o meglio la vertiginosa discesa nell’”ubriaco universo” dell’autore notturno, tra demonia e grottesco ghignante, tra capriccio e fiaba, nell’umorismo metafisico e il meraviglioso barocco di un mondo popolato da bestie sapienti, vezzose pupattole, creature botaniche, musicanti bislacchi, maschere e figure composite degne dell’Arcimboldo. Sono tutti termini estratti dall’esuberante lessico di chi non nasconde la sua ammirazione per “il metafisico baraccone” e per “la giocoleria verbale” dell’arte di Hoffmann e strappa un sorriso l’ipotesi suggerita quasi sottovoce che il suo demonismo nasconda qualcosa di slavo “poiché egli trascorse cinque anni in Polonia”. “L’opera di Hoffmann è un continuo spettacolo di illusionismo, un Panoptikum, in cui si affastellano trappole, fantasmagorie, sparizioni, girandole, e tutto si mostra sfuggente, mutevole, nato da labilità e da vertigine, di stoffa d’arcobaleno”. Così che “sarà triste sottrarsi a quella magia, uscendo dai libri nel traffico atroce di Roma, dove è ormai raro vedere unicorni candidi come la neve e struzzi che tirino su quattro ruote un enorme tulipano d’oro”. Difficile anche per il lettore sottrarsi alla magia di un tale recensore. Certo è di consolazione la consapevolezza di aver scovato questo libro, di non averlo lasciato in cima a qualche sperduto scaffale e di aver così smentito, almeno un poco, le nere previsoni del suo autore: “Chi può dire che cosa di noi resterà in questo affannoso incalzare di instabili guise, in questa altalena dannata, in questa gara di oblio, quando saremo gettati nel profondissimo buio, oltre il muro di cinta della Città Terrena […]? Ci si può solo sforzare di sopravvivere, non cedendo alle formule e al balbettio delle mode, restando se stessi, anche se con apparenza di anacronismi. Ma niente illusioni. Qualche tuo volumetto resterà in cima a un perduto scaffale della Biblioteca del Cosmo. E forse un unto, barbuto, infelice glossatore andrà un giorno a scovarne il titolo nel giallo dello schedario” (“Di me, delle mie sinfoniette”).
Non posso darti il “mi piace” perché non hai aggiunto il relativo pulsante in fondo ai tuoi articoli, ma tu fai conto di riceverlo sempre da parte mia, anche se non posto dei commenti… Molti autori che tratti non li ho mai letti, ma rimango ogni volta incantata dalle tue recensioni. Sempre.
Grazie cara Alessandra, sei come al solito molto gentile. Ho seguito la tua indicazione… Un caro saluto. Anna