WITOLD GOMBROWICZ – Ferdydurke – Feltrinelli
“Sarebbe pure opportuno stabilire, decretare e determinare se si tratti di un romanzo, di un diario, di una parodia, di un pamphlet, di una variazione su un tema fantastico, di un saggio… se vi prevalgono lo scherzo e l’ironia oppure i significati profondi, il sarcasmo, la caricatura, l’invettiva, l’assurdo, il puro nonsense, il puro divertissement… o se per caso non si tratti invece di una posa, di una mistificazione, di una guittata, di un artificio, di un’insufficienza di umorismo, di un’anemia del sentimento, di un’atrofia dell’immaginazione, di un attentato all’ordine e di una débacle della ragione”. (da “Premessa a Filibert foderato d’infanzia”, cap. XI)
“Ferdydurke” è un libro pericoloso, o meglio è il libro con il quale il bisturi che Gombrowicz impugna si manifesta per quello che è, e cioè un’arma intenzionata ad incidere, rovesciare e mettere a nudo ciò che maggiormente è deputato a definre, a rendere visibile e quindi, in ultima istanza, a creare, qualsiasi opera d’arte, ma anche qualsiasi essere umano, in qualsiasi situazione esso si trovi a vivere: la forma. Ingannato da un incipit clamoroso, perfetto nel suo distendersi e dipanarsi, profondamente poetico nel suo decantare il senso di vuoto interiore di un soggetto – ed io narrante – evidentemente in grado di condurre ad esiti letterariamente promettenti la sua capacità di autoanalisi, il lettore si accorge ben presto dell’inconsistenza di ogni sua aspettativa e prova quello sconcerto che ben conosce e che ha imparato ad individuare come uno dei primi vaghi sentori premonitori del valore artistico, sconcerto per la mancanza di punti di riferimento e di pietre di paragone di fronte a ciò che gli appare come assolutamente unico.
Seguire quell’essere “indefinito” e “sparpagliato” in lotta perenne contro la propria e altrui forma cristallizzata e immutabile è un’avventura vertiginosa che si dipana attraverso il ritmo indiavolato e scoppiettante di un libro che supera bellamente i confini dell’assurdo, che si nutre di un affastellamento di idee, che scompagina di continuo i piani della narrazione frantumando ogni schema precostituito con un’energia creativa dirompente. Sono molte le voci che si ergono a sostenere con entusiasmo “Ferdydurke” – e anche a difenderlo, perché è un romanzo che provoca ed irrita con la sua carica anticonformista, con la sua satira corrosiva, con le sue caricature, invettive e smascheramenti – prima fra tutte, in ambito polacco, quella del suo grande amico ed estimatore Bruno Schulz, autore anche della copertina e delle illustrazioni della prima edizione del romanzo, uscita a Varsavia nel 1937. Nel disegno di copertina Schulz raffigura degli esseri umani che diventano tutt’uno con un albero – chissà, forse per fissare icasticamente l’irrimediabile inconsistenza di ogni forma precostituita – come ricorda Francesco Cataluccio nella sua postfazione all’edizione einaudiana de “Le botteghe color cannella”, dal titolo denso di riferimenti alle tematiche comuni ai due scrittori: “Maturare verso l’infanzia”; e ritengo felice la scelta di Feltrinelli di riprodurre sulle copertine dei romanzi di Gombrowicz particolari tratti dai dipinti di Witkiewicz, il terzo vertice della grande triade del Novecento polacco.
La stessa edizione italiana dell’opera di Schulz riporta, all’interno della sezione “Testi critici e autocritici”, l’illuminante recensione scritta dall’autore in occasione dell’uscita della prima edizione del romanzo dell’amico Gombrowicz, un libro da lui considerato “un fenomeno sconvolgente”, “una straordinaria manifestazione di talento letterario”, oltre che un’irruzione nobilitante all’interno di “una nuova sfera di fenomeni intellettuali” fino a quel momento patria abituale di meri “scherzi irresponsabili”, di freddure, di giochi insulsi all’insegna del nonsenso. “Ferdydurke” ha la forza di spaccare, anzi di frantumare le ben definite e limpide forme dell’esistenza spirituale, che gli uomini maturi si illudono di possedere e che sono invece solo una pia illusione o al più una eterna tensione, per accedere a quella “sporca sfera natia” dove vivono le energie emozionali, quella sfera “vilipesa e disonorevole”, ma così viva ed esuberante. “Ferdydurke” – dice Schulz – abbandona il salone antistante del nostro io dove tutto si svolge secondo l’etichetta e la forma, ed entra nella cucina, dietro le quinte dell’azione ufficiale, dove tutto è all’insegna della peggior condotta. Gombrowicz imbocca questo meccanismo psichico e accede alle infinite possibilità del ridicolo, della condensazione del grottesco, dell’esplosione della caricatura. “Correvo verso l’immaturità come spinto da un demone!”, scrive l’autore nel primo capitolo del romanzo, una frase che rende conto sia del nucleo generatore dell’opera – la forza vitale dell’immaturità – sia dell’aspetto dirompente, anticonformista, in definitiva demoniaco, di una tensione verso l’incompletezza – che è a tutti gli effetti una regressione – sia della eccezionale energia creativa, delle infinite possibilità di affabulazione, in ordine all’invenzione e, non ultima, alla scelta linguistica, che questa inedita prospettiva offre all’autore.
L’invenzione fantastica che dà il via al romanzo è l’assurda situazione vissuta dal protagonista trentenne Gingio che in una sorta di incubo lucido si ritrova, forse a causa della consapevolezza del proprio fallimento agli occhi degli adulti, a vivere una vera e propria regressione nel mondo dell’infanzia, ad essere sottoposto ad una specie di esame da parte di un tutore che, trovandolo impreparato, lo “infantilizza” e infine lo trascina a forza in una scuola. Un’invenzione che dà l’avvio ad un meccanismo infernale gravido di promesse e di opportunità perché Gingio, e quindi Gombrowicz, scopre ben presto tutti i vantaggi dell’immaturità, il privilegio di chi, non possedendo ancora (nel suo caso non possedendo più) una forma definitiva e socialmente accettata, può dotarsi di una nuova grottesca identità e usarla come schermo, un rifugio dal quale prendersi beffe di un mondo che sta andando a pezzi. Uno dei vantaggi dell’immaturità, di quel ritrovarsi “nel bel mezzo di un sogno” che “rimpiccioliva e squalificava senza pietà”, è quello di potersi sentire di colpo libero anche dai vincoli imposti dalla forma letteraria. La stessa opera che racconta di un personaggio, guarda caso con velleità letterarie, guarda caso autore di un libro (“Ricordi del periodo della maturazione”) che ha il titolo della prima opera di Gombrowicz, per non lasciare dubbi intorno alla identificazione autobiografica, che deve incarnare il conflitto eterno tra l’uomo e la sua forma, gode di tutti i diritti della ritrovata immaturità, primo fra tutti quello di non rispettare i limiti della sua propria forma, che è, o meglio dovrebbe essere, quella del romanzo. E quindi, con un ardito e spiazzante metaforico sberleffo ai canoni letterari, l’autore interrompe per due volte la narrazione inserendo due digressioni, sotto forma di intermezzo, che sono una irriverente parodia dei saggi filosofici settecenteschi (come afferma Ripellino nella sua prefazione alla prima edizione italiana di “Ferdydurke”, del 1961, definendo il libro una “singolare mistura di romanzo e saggio filosofico”): “Filidor foderato d’infanzia” e “Filibert foderato d’infanzia”, entrambe introdotte da una premessa.
E’ nella prima di queste due premesse che, a mio parere, risiede la più aspra critica al mondo intellettuale e artistico in cui l’autore si trova ad operare, che è anche, in un certo senso il suo vero e proprio manifesto poetico. L’attacco ai critici che affossano l’opera dei giovani intellettuali oppressi da “l’impossibilità di vivere”, “la tragedia della sproporzione”, “la tristezza dell’artificio”, “la malinconia della noia”, “il ridicolo della finzione”, “la torura dell’anacronismo” è feroce: “Una frazione insignificante di mondo, una manciata di intenditori ed esteti, un cenacolo più piccolo del dito mignolo e che entrerebbe tutto in un caffè sta lì a parlarsi addosso, spremendo postulati sempre più sublimi”. Così come amara e impietosa è l’aspettativa pessimista dell’autore nei confronti dei lettori, dei suoi lettori: “Dpodichè l’opera arriva al lettore e il frutto di tanta sofferenza viene accolto nel modo più parziale possibile, tra una telefonata e un boccone di braciola. Da una parte lo scrittore ci mette anima, cuore, arte, fatica, dolore, e dall’altra il lettore non ne vuol sapere oppure gli presta un’attenzione distratta e superficiale, tra una telefonata e l’altra. E così le piccole realtà quotidiane distruggono il povero scrittore che, dopo aver sfidato il drago, deve scappare davanti a un cagnolino da salotto”. E decisa e appassionata è la sua condanna dei cosiddetti ambienti artistici, una condanna al ridicolo: “Ma quel che accade negli ambienti artistici del mondo intero batte ogni record di idiozia e di infamia, al punto che chiunque abbia un minimo di buon senso e di equilibrio non può non avvampare di vergogna alla vista di tali orge di pretenziosità e infantilismo. Ah, quei canti ispirati che nessuno ascolta! Quel bla bla bla da intenditori, l’entusiasmo ai concerti e alle serate poetiche, le iniziazioni, gli apprezzamenti, le discussioni, le facce di coloro che declamano o ascoltano, celebrando tra loro il mistero gaudioso del Bello!”.
La narrazione come parodia, la riflessione come impasto di “satira settecentesca e di nosenso dadaistico” (così Ripellino definisce, esaltandole, le storie di Filidor e Filibert): c’è in questo romanzo materiale più che sufficiente a creare scandalo e riprovazione. Forse è per questo che Gombrowicz lo accompagna, dandolo alle stampe, con un articolo dal titolo “Per evitare malintesi” (riportato in appendice al presente volume) che per noi lettori contemporanei rappresenta un’occasione preziosa per apprendere dalla viva voce del suo autore la “spiegazione” del romanzo, ma che è anche un tassello che completa come un’ideale chiusura del cerchio, quello straordinario esperimento che “Ferdydurke” è: la messa a nudo dell’intero meccanismo dell’opera d’arte, la creazione di un microcosmo, di un modello universale, teorizzazione e creazione che, inaspettatamente e armonicamente, riescono a convivere. Il problema principale di “Ferdydurke” è quello della forma, perché occorre trovare una forma per tutto ciò che nell’uomo è ancora immaturo, non cristallizzato e non sviluppato, ma Gombrowicz è consapevole che questo suo postulato è senza speranza e da qui nasce l’emozione principale del suo libro. Perché “Ferdydurke”, oltre ad essere un libro estremamente divertente, è anche emozionante e lirico, in un modo tutto suo e per questo speciale; corre di continuo, sottotraccia al grottesco, nei luoghi messi in ombra dallo sberleffo e dagli scarti improvvisi della giovanile baldanza, quello che l’autore chiama “la mia vendetta”, “l’urlo della realtà lacerata”, “lo schianto dello stile in frantumi”, “la danza trionfale delle rovine”. Gombrowicz è affascinato dalla problematica relativa all’inferiorità, all’immaturità e all’infantilismo perché la questione lo riguarda da vicino ed esprime pertanto nel romanzo l’immaturità di un’intera società ma anche la sua, il suo “disequilibrio”, il suo “scombussolamento interiore”. Per questo nel romanzo la satira e la parodia della normalità – “La normalità non è che una corda da funambolo tesa sull’abisso dell’anormalità. Quanta segreta follia si cela nell’ordine consueto! – non tengono a distanza il lettore, non si risolvono in un mero esercizio, magari divertente ma al fondo sterile e freddo, per questo generano prima stupore e sconcerto che si fanno però ben presto compartecipazione e sincera ammirazione, perché sono – usando le parole dello stesso autore – “il lamento di un individuo che si difende dalla dissoluzione, che reclama spasmodicamente una gerarchia e una forma, e allo stesso tempo si rende conto che qualsiasi forma lo sminuisce e lo limita: si difende dall’imperfezione degli altri, perfettamente cosciente della propria”.
Un romanzo divertentissimo, ma attenzione! E’ molto più di un semplice divertissement. Nasconde una visione lucidissima delle tragedie a cui sarebbe andata incontro la società europea nel corso del Novecento. Gombrowicz aveva capito benissimo che quell’umanità infantile era pronta a gettarsi tra le braccia di ogni ideologia e di ogni totalitarismo. Ma il suo sguardo volava anche più alto, fino ad assumere una visione tragica dell’esistenza umana. Il grande male all’origine di tutto sta nell’incapacità dell’umanità di sfuggire ai condizionamenti imposti dalla società e a cui tutti ci adeguiamo in modo conformistico per paura di non essere accettati. Tutto è finzione e il mondo non è altro che una mascherata.
Sì, è vero, pur nel divertimento e anche nello sconcerto che suscita la sua scrittura, si ha netta la sensazione che, come sempre nella grande letteratura, questo sia solo il modo per alludere ad altro che ha a che fare con l’interiorità umana e con le contingenze storiche di un’epoca terribile. Ma ho appena iniziato la mia conoscenza di Gombrowicz. Mi attende “Cosmo”.