FRANZ INNERHOFER – Bei tempi – Feltrinelli
“Dietro i volti più sereni c’erano spesso i più cupi nascondigli, della cui esistenza non erano al corrente neppure i diretti interessati. Se l’uno era dominato per tutta la vita da una pietà tale che non alzava neppure il pugno dietro a una mucca, l’altro, alla minima occasione, era capace di ammazzare un bambino con l’assicella di uno steccato. […] Mentre gli uni affogavano timidi nell’acqua o si impiccavano, gli altri si aggiravano fieri per l’aperta campagna ad escogitare nuove oscurità”.
Questo libro sa di fango, sporcizia, gelo, aria torrida, fatica disumana, crudeltà insensata e muta disperazione. Eppure parla e ha una voce cruda come la terra da cui è nato, che esige sacrifici per concedere i suoi frutti, come in un rito pagano. Questo libro attira e respinge ad ogni pagina, perché costringe il lettore a camminare, girando a vuoto nell’aria aperta di un paesaggio svelato, sottratto alla sua apparente amenità, le cui valli, colline, alpeggi e pendici verdeggianti sono in realtà le pareti di un carcere che non lasciano intravedere alcuna via di uscita. Franz Innerhofer ha usato la letteratura per dare voce al “muto tormento” di una “sporca, lurida esistenza” e le sue pagine, che sembrano scritte di getto, che si prestano ad essere lette di getto, come un unico e non riproponibile momento di svelamento – perché forse non si può tornare ulteriormente a questa sensazione di “assoluta mancanza di scampo” – sono l’epopea di un mondo contadino sfrondato da ogni romanzesca e leggendaria aura bucolica e illuminato dall’interno, fin negli angoli più minuti della sua disumana grettezza ed insopportabilità. La scrittura di Innerhofer non conosce filtri, maschere, orpelli, si sostiene senza aiuti, senza ricorrere ad artifici retorici, si sostiene, sembrerebbe, per il greve peso delle parole e delle frasi che devono percorrere il greve mondo che le ha generate, attraverso il susseguirsi delle lente stagioni, ognuna con il suo carico di solitudine, di sfruttamento e di assoluta aridità emotiva.
“Una muta rabbia in corpo”, deve essere questo ad aver generato nella penna dell’autore il personaggio del piccolo Holl che nel corso del romanzo vediamo crescere, stentatamente, attraverso “tante tragedie ed omissioni evidenti”, fino a riuscire ad intravedere una remota possibilità di poter ancora vivere libero. E’ la scelta stilistica di una oggettivazione, di un racconto in terza persona che sembra essere l’unica concessione che l’autore fa a se stesso per poter prendere una pur minima distanza dalla materia narrativa che fuoriesce impetuosa dalla sua penna, come il sangue da una ferita aperta, e che è sostanzialmente e dolorosamente autobiografica. Il piccolo Holl è il piccolo Franz, nato nel 1944 nelle campagne del salisburghese, figlio illegittimo di una lavorante agricola, trasferito a sei anni dalla casa del patrigno alla fattoria in cui il padre naturale lavora come fattore, in qualità di “servo”, posto cioè su un gradino ancora più basso rispetto a quello, già infimo, di bracciante – in una posizione nella quale è d’obbligo “implorare il castigo e ringraziare dopo il castigo” – a crescere “in un mondo di colpi e di botte”, confinato “in qualche angolo”, impegnato a rendersi invisibile. Rapporti di forza e gerarchia di potere – un ben misero potere data la comune povertà e la miseria “ingiuriosa” che tutti condividono – che richiamerebbe alla mente la cupezza e la crudeltà del mondo contadino medioevale, se non fosse che il romanzo è ambientato in una fattoria austriaca degli anni Cinquanta, frantumando, con un liberatorio desiderio di mostrare la verità, di scandalizzare il lettore, colpirlo, ferirlo, disgustarlo, ma non certo di irretirlo con la commozione o la pietà, l’illusione dell’idillio arcaico, dell’innocenza e genuinità della vita agreste.
Le fattorie, i villaggi, le malghe, gli alpeggi della ridente terra salisburghese, l’Austria dei quadretti per turisti diventano, attraverso la penna di Innerhofer, incalzante nel suo evidente bisogno di essere fedele “al massimo grado” alla realtà che l’ha formata, un vero e proprio lager per contadini. “A parte la sporcizia, la volgarità, i cattivi odori, i lavori sporchi, la noia di tante azioni ripetute sino all’ossessione, risulta quasi intollerabile scoprire quanta concentrazione di malanimo, di crudeltà, di oppressione si raccolga in quelle cascine, in quelle stalle, su quei campi”, scrive Italo Alighiero Chiusano, presentando il romanzo nel suo “Literatur”; uno spaccato di quella “Austria infelix”, oggetto di tante invettive bernhardiane, una voce che sembra provenire direttamente da tanti episodi de “L’imitatore di voci”, dalle pagine della prima parte del romanzo “Perturbamento”, dalla rozza e cruda socialità all’interno della quale si apre il vuoto e la pazzia di “Gelo”. Uno sguardo complementare, per così dire dal basso, dal fango, dal sudore e dal sangue, ma aperto sulla stessa realtà. E’ la crudeltà in cui si dibattono all’inizio delle loro peripezie i bambini protagonisti di certe fiabe dei fratelli Grimm, privata però dalla possibilità del lieto fine, dell’intervento di un deus ex machina – perché la religione è ipocrisia e repressione intollerabile – o di qualsiasi aiuto esterno – perché ogni sentimento benevolo è soffocato dall’egoismo ancestrale del bisogno.
“Da bambino ho vissuto come un servo”, così Innerhofer in un’intervista del 1977, e ancora: “Fin da ragazzo ho trovato la mia salvezza nella lettura e nella letteratura”, a riprova della ineluttabilità della strada che conduce alla scrittura, quella necessaria, che non è mai, per fortuna, né scontata, né lineare, né, soprattutto, destinata ai privilegiati dalla sorte. Innerhofer ha scritto, molto, un’intera trilogia, tutta per dare voce all’oltraggio della sua origine – per estinguerla, direbbe Bernhard – a iniziare dal presente romanzo, “Bei tempi”, con quella ironia tutta racchiusa nel suo titolo, perché ogni tipo di bellezza è preclusa dai tempi lentissimi in cui trascorre l’infanzia e la prima giovinezza di Holl, per continuare con “Il lato oscuro” e con “Paroloni”, libri dei quali, che io sappia, non esiste traduzione italiana.
Innerhofer, che certo ha riscattato la sua origine riuscendo prima a conquistare un diploma alla Scuola Professionale, poi a studiare Anglistica e Germanistica all’Università di Salisburgo, che è riuscito a generare un’opera d’arte linguistica da un mondo privo di lingua, e a guadagnarsi da vivere come libraio, quando le alterne e capricciose fortune del successo letterario l’hanno dimenticato, è morto il 23 gennaio 2002. “Vienna, 30 gennaio. Il mondo della cultura austriaca ha dato l’ultimo addio a uno degli scrittori più singolari che l’Austria ha prodotto dalla fine della seconda guerra mondiale. Un centinaio di intellettuali ha partecipato ai funerali di Franz Innerhofer, 57 anni, il cui cadavere è stato ritrovato nella sua casa di Graz, Stiria, il 23 gennaio scorso. Secondo quanto hanno accertato le indagini della polizia, lo scrittore si è suicidato. Da un paio di anni Innerhofer viveva in solitudine ed era diventato vittima dell’alcol”, così recita un comunicato emanato dall’agenzia Adnkronos in data 30 gennaio 2002. Chissà, forse “centomila atrocità si erano fatte posto in lui, come cuculi”, e utilizzare una delle sue frasi, sagge e arrese, disperate ma immensamente vive, è insieme omaggio e doverosa memoria.