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letteratura italiana

Anna Maria Ortese, “Il cardillo addolorato”

ANNA MARIA ORTESE – Il cardillo addolorato – Adelphi

il-cardillo-addolorato“Ma vi è un dolore, nel cuore di certuni… un pianto che non si acquieta così presto… anzi mai, credetemi; e così vi dico: separare donna Elmina dal suo dolore è cosa quasi impossibile. Non lo tentate. Potrebbe venirne gran male. Ah, comincio a credere anch’io, uomo di pandette, incredulo circa la bontà della natura umana, alla verità di un Cardillo nascosto in questo mondo; e che la voce, e il pianto, di un Cardillo non tace mai”.

Ciò che la Ortese produce con questo suo sorprendente romanzo è una apoteosi della narrazione, una festa, generosa e ridondante, dell’intreccio. “Il cardillo addolorato” è costituito da una materia narrativa che riproduce costantemente se stessa, prolifera e lievita, costruendo certezze, parvenze di verità, che si frantumano e franano come un castello di carte un attimo prima di assestarsi nella consapevolezza del lettore e che, sotto i suoi occhi, assumono nuove forme, inaspettate e contraddittorie, in una ridda del senso che affascina, avvince e stordisce. La trama delle passioni umane, complicate, ridicole, misteriose, dolorose, e anche buffe nella loro inesausta ricerca di compimento e di senso, sembra trovare l’ambiente naturale più adatto alla sua crescita ed alla sua riproduzione e germinazione nello spazio barocco che, pagina dopo pagina, l’architettura del romanzo va delineando. Come se gli effetti ottici, il gioco effimero degli specchi, le fughe impreviste in cui si dispiegano spazi angusti, le ombre profonde e le volute pigre e sontuose che decantano ed esaltano le linee curve fossero il necessario sostegno alla visione, al sogno e a quel tanto di illusione che si confonde con la realtà, che si nasconde nella realtà, donandole una aerea e confortante leggerezza. Il lettore si trova quindi ad affrontare una costruzione narrativa che ha le sue fondamenta nella volatilità, nella fluidità e nella metamorfosi, in un terreno che confinerebbe pericolosamente con l’assurdità e l’insensatezza se non fosse l’opera di un architetto sapiente, che nutre le sue radici culturali nell’humus ricchissimo del romanticismo europeo (e in special modo tedesco), traendone suggestioni, spunti e stimoli, eleggendolo a età dell’oro dell’immaginazione e della fantasia, scegliendolo come palcoscenico privilegiato sul quale muovere i passi della sua dolorosa sensibilità.

In altre parole, il lettore si trova ben presto invischiato in quel mondo tanto amato dagli scrittori romantici, libero dall’asservimento all’arida razionalità e dalle catene del verosimile, il mondo ricchissimo della favola. “La favola ha bisogno di ricchezza; ed ecco, nel Cardillo addolorato, il cielo ricamato, filigranato di stelle d’oro; e i salotti lussuosissimi, case che sembrano chiese barocche, chiese che sembrano salotti delle fate: automi che cantano, gemme e gemme, Re e Principi, musica e monete d’oro e carrozze azzurre e infiorate e torte di pan di spagna, di frutta e di crema – e quella deliziosa sensazione di falso, senza la quale la fiaba perde il suo sapore”. Così scrive Pietro Citati presentando il romanzo all’interno del suo volume “La malattia dell’infinito”. E curiosamente le parole di Citati sulla Ortese riportano a quelle che Ripellino dedica a Hoffmann in quel breve e acuto saggio dal titolo “Il mondo s’è messo una vestaglia a fiori” contenuto nella raccolta di recensioni – in forma di ballate – “Nel giallo dello schedario”. Perché molto la letteratura moderna deve a questo scrittore notturno e molto del suo repertorio torna a vivere – a una vita forse più contaminata, più sporca di passione – nelle pagine della modernissima e italianissima Ortese, rianimato dalla sua prorompente napoletanità d’elezione. Come negare che “Il cardillo addolorato” sia uno spettacolo di illusionismo, irto di trappole, sparizioni e fantasmagorie? Come non essere colti da vertigine e colpiti da “una febbre del soprasensibile” nel tentativo di orientarsi in un universo mutevole, popolato da “bestie sapienti”, “vezzose pupattole”, “creature botaniche”, “musicisti bislacchi”, “maschere e figure composite”? Hoffmann, il grande poeta del sosia e della metamorfosi, il cantore delle anomalie e delle diversità, il febbrile e perturbante anticipatore dell’assenza moderna, sembra essere il padre del cardillo.

Ma la madre, indubbiamente, è Napoli. “… il Cardillo si apparta e piange dovunque nei regali giardini… i fantasmi prosperano; postiglioni, serve, domestici girano dovunque, con vassoi di caffè e cioccolata; i camerieri propalano pettegolezzi; i mercanti di guanti e altre raffinatezze dilagano; si intrecciano fidanzamenti, si combinano matrimoni; suonano le campane per i matrimoni, in Santa Brigida e Santa Caterina; la vita inneggia e folleggia. Su, per i Gradoni, salgono e scendono, a notte, piccoli lumi… Fanciulli, a lungo sciancati, risanano di colpo; fanciulli diletti e distinti, di colpo, al tocco di una strega, si fanno sciancati… Chi vive, chi muore; chi prega, chi canta e sragiona d’amore, a dispetto del Cardillo… il quale ha i suoi capricci e le sue cupe intolleranze”. Napoli madre e vitale non può che generare creature e parvenze, non può che nutrire – perché questa è la sua natura – “la felicità più cantante” e “il dolore più lacerato”, esseri angelici miracolosi e cupi demoni notturni. Una città magica dunque, non tanto – e non solo – per quella grazia da presepio con cui i suoi paesaggi vengono tratteggiati, segno di una ammirata predilezione dell’autrice per ogni strada, piazza o vicolo nascosto, quanto per la sua capacità di abbracciare e contenere la complessità del mondo, di far convivere gli opposti, aperta alle infinite possibilità di trame e significati che dal loro incontro potranno generarsi.

Non è certo la Napoli sanguigna, drammatica e in un certo senso epica de “Il mare non bagna Napoli”, ma una Napoli trasognata, spasimante e salutare, una Napoli da cartolina, da fondale teatrale, pronta per la spettacolarizzazione della vita. E non sfugge la forte valenza teatrale del romanzo, che l’autrice stessa sembra voler sottolineare intervenendo frequentemente come voce fuori campo, interrompendo la narrazione per rivolgersi direttamente al lettore, ironicamente e affettuosamente definito di volta in volta “silenzioso”, “paziente” o “rassegnato”. E’ la voce di un regista di “storie sotterranee, legate a città sotterranee, crudeli storie di fanciulle impassibili, di Folletti disperati, di Streghe sentimentali e di Principi Squilibrati, oltre che di altri Fantasmi” che deve preparare il lettore-spettatore a “tranquille delusioni” e a “caute speranze”. Diventa sempre più necessaria questa voce che risuona pacata quando, a tratti, tace il gran spettacolo del mondo, e l’intreccio si complica e si affastella e la luce del Sole mediterraneo, che ardente e vitale illuminava la scena lieve e consolatoria dell’Opera buffa popolata di comparse e densa di colore, inizia ad oscurarsi perché entrano in campo le ombre delle passioni, prima melodrammatiche e poi liriche, arricchendo la scena di profondità ed inquietudini.

E ancora Napoli ben si presta a mettere in scena il mistero doloroso che è il cuore di questo bellissimo romanzo, il desiderio-dolore metafisico che è la leva di ogni pensiero e sentimento umano, il canto del cardillo addolorato. E’ la Napoli nera e sotterranea che celebra i misteri dolorosi – ma tutti laici – penosi e dolcissimi, della Ortese. Un dolore che supera in quantità persino quello degli innamorati disillusi. Perché Napoli non sarebbe Napoli se la sua chiarità non fosse in grado di tramutarsi all’improvviso nelle tinte più cupe: “uno stuolo immenso di ombre, caro principe, soggiorna tuttora in queste case, in questi vichi, siede alle nostre tavole, dorme nei nostri letti, si sdraia nelle nostre carrozze… visibile o meno, ma sempre accanto a noi”. Citati afferma che la Ortese coltiva l’intreccio, anzi si diverte ad aggrovigliare l’intreccio, perché esso è la strada che può meglio condurre nei pressi del segreto, della verità e del simbolo. L’intreccio è allora una sorta di pratica magica, raccontare è una specie di magia che apre l’accesso al mistero doloroso che parla attraverso il canto del cardillo. Un canto dolcissimo e straziante che ha i toni di un lamento e che nel romanzo risuona per dare voce al dolore metafisico, che non è solo dolore umano, ma della natura tutta che chiede, invano, un senso e che soffre la lacerazione della sua mancanza. La voce del cardillo risveglia i misteri dolorosi e chi la sente si ammala di rimpianto e di nostalgia, prova un desiderio pungente e disperato di bene, avverte di essere giunto solo ad un passo dalla comprensione di tutto, della follia, della separazione e del dolore. Ma l’attimo passa e tutto nuovamente si confonde nell’oscurità e nell’abisso. C’è un dolore che pervade questo romanzo che è insieme antico e caro, familiare come qualcosa che sopravviverà nella memoria, qualcosa che vive in uno splendido passo che la Ortese scrive nel suo libro “In sonno e in veglia” e che appare come il suo estremo saluto alle creature del “Cardillo”: Sì, mie care, gravi e tenere fanciulle del passato, e voi, buoni principi, e tu ombra delicata della notte nel palazzo napoletano, noi ci rivedremo. Saremo quelli, e altro. Noi, cari, ci riabbracceremo. Vi mando – dal giorno, dal mare, da questo monotono e terribile rumore di onde, dal nulla – il mio tenero, gaio, immortale, devoto saluto”.

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